08 feb 19 – Il Concilio e la svolta cristologica
Testo: Lumen Gentium 3
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Siamo testimoni nel nostro tempo di un fenomeno abbastanza curioso, cioè che a distanza di qualche decennio dalla conclusione del Concilio Vaticano Secondo, spenti gli entusiasmi iniziali, qualcuno dei quali naufragato in forme bizzarre di presunte innovazioni, si sono sviluppati movimenti di resistenza allo spirito conciliare e alle sue conseguenze. Movimenti di pensiero e di persone che in qualche caso si potrebbero persino definire reazionari. Si tratta di movimenti che tentano di ridimensionare il pensiero e il valore del Concilio Vaticano Secondo.
In alcuni casi, come in quello di Paolo Pasqualucci (già ordinario di filosofia del diritto all’Università di Perugia, autore di vari testi sia contro il Concilio Vaticano Secondo sia a favore del reazionismo lefebvriano), la contestazione appare scientifica, meticolosa, protesa a dimostrare la presunta catena di errori e di falsi che farebbero del Concilio stesso una enorme eresia, soprattutto in campo cristologico (website · mirror pdf). In altri casi, come in quello del tradizionalismo radicale degli statunitensi signori Dimond auto proclamatisi “benedettini”, la contestazione assume caratteristiche ingenue, semplicistiche, saldate con visioni messianistiche e fortemente identitarie (website · mirror pdf).
Il punto comune di molte posizioni in contrasto col Concilio è quello di mettere in dubbio la sua dogmaticità, nonché la dogmaticità di documenti come la Lumen Gentium. Si osserva che in Concili precedenti, come Trento, come persino il Concilio Vaticano Primo, era chiara l’intenzione dei padri conciliari, di esprimere verità di fede con la forza del dogma. Si rimprovera al Concilio Vaticano Secondo l’assenza sia nelle intenzione dei padri conciliari, sia nel tenore formale dei documenti della dogmaticità delle sue affermazioni.
In apparenza nel Concilio Vaticano Secondo non esistono, effettivamente, definizioni dogmatiche di verità di fede formulate come da ritenere e da credere da parte della molteplicità dei fedeli. In realtà nelle intenzioni di Giovanni XXIII il Concilio non intendeva esprimere condanne ma voleva “trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica“; e soprattutto
Bisogna che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale.
(fonte)
Non apparteneva di sicuro allo stile dei due Papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI, un atteggiamento impositivo e poco dialogante. Semmai il contrario, il loro stile è stato quello di mettersi all’umile ascolto dello Spirito Santo, che fa sentire la sua voce sia attraverso i padri conciliari sia attraverso il senso comune di fede del popolo di Dio.
Anche alla Lumen Gentium viene rivolta un’obiezione puntuale rispetto alla sua dogmaticità; non definendo in modo formale verità di fede, il documento si distaccherebbe o addirittura in qualche passaggio sarebbe contrario alla dottrina espressa dai Concili precedenti. Perciò fin dal primo nostro incontro esortavo a metterci in preghiera per la Chiesa.
I Concili, di fatto, nella storia della Chiesa non sono mai stati particolarmente pacifici, nella celebrazione e nell’accoglienza dei risultati. In alcuni Concili si è arrivati allo scontro fisico e i vescovi se le sono date di santa ragione. In altri Concili i vescovi dissidenti sono stati condannati all’esilio. In passato ci sono stati anche torturati e morti, a causa delle disposizioni conciliari: si pensi a Trento.
Nel Concilio Vaticano Secondo la Lumen Gentium è stata discussa e votata pacificamente da 2.144 padri, di cui 10 hanno detto non placet, non mi piace. I dissidenti non sono stati condannati all’esilio, hanno continuato a fare i vescovi. Il Concilio Vaticano Secondo si distingue, rispetto ai Concili passati, per non aver creato grossi problemi sotto il profilo della fraternità dei vescovi e delle conseguenze delle affermazioni conciliari. Forse la Chiesa per la prima volta nella storia dei Concili ha dato un segno di unità, di accoglienza delle diversità pur nella conferma della dottrina, di dialogo, di benevolenza, di ascolto, di umiltà. Sono queste le armi a disposizione della Chiesa, che non può comportarsi come il resto delle organizzazioni del mondo. Nei Consigli di Amministrazione di un’Azienda vince la volontà del più forte, si lotta per conquistare posizioni di potere, si cerca di massimizzare i profitti per l’interesse dei pochi. E chi non si adegua può accomodarsi alla porta. Nella Chiesa non è così, non può essere così.
Chi si fosse atteso dal Concilio Vaticano Secondo uno stile più determinato o la definizione formale di qualche verità illuminante da sbattere in faccia al mondo è rimasto deluso. La Chiesa non sbatte nulla in faccia a nessuno. I membri della Chiesa non sono i padroni della verità, semmai sono servitori della verità. Si tratta di un atteggiamento mentale che va cambiato o acquisito, se non lo si possiede. La verità non si cambia, naturalmente, ma l’atteggiamento mentale per presentarla e renderla credibile sì.
Si è detto in passato che il Concilio Vaticano Secondo, e nello specifico la Lumen Gentium, ha fatto una specie di svolta, una svolta cristologica. Nei documenti del Concilio Vaticano Secondo si recupera sicuramente il valore e il significato del mistero pasquale di Cristo, quale mistero centrale della salvezza e della redenzione dell’uomo. Si tratta di una svolta non nel senso che prima si ignorassero valore e significato del mistero pasquale di Cristo, ma nel senso di averli messi in maggiore evidenza sfrondandoli di alcuni elementi secondari e devozionali che avevano finito per oscurare il nucleo centrale della cristologia.
Voi sapete che per molto tempo la Chiesa, le comunità cristiane, si sono nutrite – e si nutrono ancora – di devozioni. Le devozioni non sono una cosa cattiva. Il rosario, per esempio, è una preghiera devozionale e si potrebbe considerare l’allenamento spirituale della fede bella, solida di chi procede sulle sue gambe. La preghiera del rosario non è la cosa più indicata per chi si trova agli inizi del cammino della fede. A chi comincia a porre domande sulla fede cristiana non si mette in mano il rosario, che è una pratica da cristiani provetti. Mi son trovato in passato con alunni e alunne che non conoscevano nemmeno le preghiere più semplici che si imparano da bambini, perché nessuno gliele aveva insegnate. Non si può chiedere di sgranare il rosario a persone che non conoscono i rudimenti della fede.
Grazie al Concilio la Chiesa ha recuperato la centralità del mistero pasquale di Cristo, da annunciare nuovamente secondo il linguaggio contemporaneo. Qualcuno può storcere le labbra per un Concilio che non vuol condannare nessuno e al tempo stesso ricerca un linguaggio nuovo per esprimere le verità di fede all’uomo di oggi, nel modo in cui l’uomo di oggi è in grado di capire.
Nel professare la propria fede nella Seconda Persona della Santissima Trinità, i padri conciliari propongono al paragrafo 3 della Lumen Gentium la loro visione cristologica. Qui si incontra il Gesù di Nazareth, vero uomo e vero Dio. Faremo ora un salto di qualche secolo. Abbiamo accennato ai Concili passati, dove i vescovi si sono anche scontrati fisicamente. Uno dei Concili, non privo di tensioni, che ha rappresentato nell’antichità uno spartiacque per la fede in Cristo è il Concilio di Calcedonia (451). Concilio fondamentale. Quello che restava dell’Impero Romano si stava sfasciando in una lotta di tipo dottrinale, che però rappresentava la lotta di due mondi contrapposti, di due culture, di due visioni storiche e antropologiche. Il problema (tra gli altri) discusso dal Concilio di Calcedonia si poteva sintetizzare così: se Gesù, vero uomo e vero Dio, avesse una natura sola (quella divina, che aveva assorbito completamente la natura umana) o avesse due nature (quella divina e quella umana, distinte e inconfuse).
Agli occhi dei contemporanei questa discussione può sembrare quasi astratta, filosofica. In realtà la dottrina discussa a Calcedonia ha una ricaduta enorme sulla nostra condizione umana. Infatti, se Gesù non ha una natura come la mia, come la vostra, una natura umana vera, ma la natura divina ha assorbito quella umana, oppure – come diceva Ario – Gesù è una via di mezzo tra Dio e l’uomo, allora la redenzione cosa diventa? Non si ridurrebbe, nella migliore delle ipotesi, ad un puro esercizio di contemplazione della bravura divina? Il Concilio Vaticano Secondo, con questo breve paragrafo, riafferma la fede in Gesù – vero Dio e vero uomo – redentore dell’umanità. Un elemento nient’affatto secondario nella vita della stessa Chiesa, la quale, come vedremo prossimamente, è chiamata a continuare l’opera di redenzione di Cristo.
Possiamo perciò mettere in risalto tre punti del paragrafo 3 della Lumen Gentium, professione di fede in Cristo di un Concilio che opera una svolta cristologica. Il primo punto è che Gesù, il Cristo, si incarna e persegue la sua missione per compiere (1) la volontà del Padre. La volontà del Padre, espressa nel paragrafo 2, è conseguenza del suo amore riversato su tutti gli uomini, che egli vuole salvati e partecipi della sua vita divina. Non è esistita in passato, non esiste oggi e non esisterà in futuro persona umana che non sia stata predestinata dal Padre ad essere salvata e partecipe della sua vita divina. La Seconda Persona della Santissima Trinità, il Figlio, compie questa volontà del Padre. Non solo l’adempie come missione, ma la compie, la porta a compimento. La verità di fede è quindi che la volontà del Padre è compiuta, l’ha compiuta Gesù una volta per tutte con la sua opera di redenzione. Faccio un esempio per spiegarmi. A tutti noi sarà capitato di chiedere un favore ad una persona amica, per esempio di fare una commissione o di effettuare un acquisto. E non appena la commissione è stata fatta, non appena l’acquisto è stato effettuato, il favore è stato compiuto: missione compiuta, si potrebbe dire.
E quindi: se la volontà del Padre è stata compiuta una volta per tutte dal Figlio, tutti gli uomini sono salvati? Sì!
Quindi vuol dire che tutti gli uomini possono andare in Paradiso? Sì!
Allora significa che tutti i peccati sono perdonati? Sì!
La volontà del Padre è compiuta. Definitivamente, da Gesù. Avremo occasione di tornare a riflettere in che modo tale condizione, tipica del regno di Cristo, riesce a crescere, secondo l’espressione della Lumen Gentium: “Il regno di Cristo già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo“, in riferimento alla Chiesa. Quindi il primo punto è questo: Cristo si incarna per compiere la volontà del Padre. E l’ha compiuta.
Il secondo punto. Un termine ricorre nel terzo paragrafo, è il termine redenzione. Gesù “con la sua obbedienza [al Padre] ha operato la redenzione [dell’uomo]“; e più oltre: “il sacrificio della croce… celebrato sull’altare… rinnova l’opera della nostra redenzione“. La redenzione è legata indissolubilmente alla questione della salvezza. Personalmente ho la sensazione che nella nostra epoca esista un problema cristologico che non riguarda tanto la discussione intorno alla natura di Gesù, umana e divina. La figura di Gesù è variamente interpretata, questo è vero, fino a ridurla a quella di un brav’uomo, un maestro di vita torturato e giustiziato come è accaduto a tanti altri. Il problema principale della questione cristologica contemporanea è legato alla salvezza: l’uomo contemporaneo sembra non avere più bisogno di salvezza.
Salvezza e redenzione: da cosa? In una struttura sanitaria, se una persona si sente male non si chiama il prete, si chiama il medico. Non serve l’unzione degli infermi, serve l’assistenza sanitaria. La salvezza della nostra epoca si confronta con la teoria della singolarità, secondo cui entro un ragionevole periodo di tempo, grazie alle acquisizioni scientifiche, tecnologiche, mediche, genetiche, biologiche, farmacologiche… sarà possibile assicurare alle persone una vita lunga, piacevole e priva di eventi infausti. Cinquant’anni fa un trapianto di cuore, gli arti artificiali elettronici, i farmaci salvavita erano fantascienza. Possiamo attenderci che tra cent’anni si registrino progressi eccezionali negli stessi campi. Esistono poi promesse di “salvezza” in campo politico, sociale, economico.
Che tipo di salvezza ci attendiamo, quindi, per l’uomo redento da Cristo? Per la contemporaneità Cristo non è più necessario alla salvezza e la redenzione operata da lui appartiene semplicemente a forme cultuali di stampo religioso. La ritengo un’eresia pratica, che riguarda la cristologia e tocca intimamente l’opera stessa della Chiesa. La salvezza e la redenzione dell’uomo operate da Cristo hanno un carattere trascendente. Però se non toccano più l’umanità contemporanea, allora non solo non sappiamo cosa farcene di Cristo, ma non sappiamo nemmeno cosa farcene della trascendenza. Anche il concetto di redenzione sarà tema di approfondimento nei prossimi incontri. Per oggi vi do solo un elemento per comprendere di cosa stiamo parlando.
Gesù nel capitolo 6 di Giovanni dopo aver compiuto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fugge in un luogo deserto perché la folla lo cercava per incoronarlo re. Quando viene raggiunto dagli sfamati, egli li apostrofa: “Voi mi cercate non perché avete visto i segni, ma perché avete mangiato e vi siete saziati”. Nel linguaggio di Gesù queste parole si potrebbero intendere: “La redenzione che voi cercate da me è quella sbagliata”. Gesù non sta sfamando le folle, non sta guarendo i malati, non sta liberando dal demonio perché questa sarebbe la salvezza che l’uomo può attendersi da lui e il significato proprio dell’uomo redento. Per Gesù il soddisfacimento dei bisogni, la guarigione, la liberazione sono e restano “segni” che rimandano alla trascendenza.
Terzo ed ultimo punto. La croce è saldata in maniera unica e irripetibile al sacrificio celebrato sull’altare, all’eucaristia. Non dobbiamo dimenticarci che la redenzione operata da Cristo ha uno strumento, cioè la sua passione e la sua morte in croce. Nella nostra tradizione cattolica, per tenerci aggrappati alla croce di Cristo, come simbolo, come segno, come sacramento eucaristizzato, siamo entrati in contrasto con altre tradizioni, come quelle derivate dalla riforma protestante. Certamente ai tempi di Lutero esistevano esagerazioni nel culto della croce – si pensi solo al numero spropositato di segni di croce che si facevano durante la celebrazione eucaristica -, perciò è comprensibile il rifiuto allarmato di una ritualità che appariva distante dal mistero.
La croce però resta lo strumento centrale dell’opera di Gesù. Non basta semplicemente dire che Gesù ci ha redenti. Occorre sempre aggiungere che Gesù ci ha redenti a prezzo del suo sangue con il sacrificio della croce. Tuttavia la parola sacrificio è da intendere correttamente. Nel linguaggio comune sacrificio riceve una connotazione negativa, come quando si ammette che una determinata azione ci è costata tanto: “Ho dovuto fare un sacrificio”. Ma è altrettanto vero che il “sacrificio” mostra un valore positivo, quando ciascuno di noi riconosce di essere disposto a fare sacrifici per qualcosa per cui ne valga la pena. Avere un figlio è un sacrificio, ma i nostri genitori hanno voluto affrontarlo per permettere a noi di venire al mondo.
La croce, il sacrificio della croce attraverso cui Cristo ci ha redenti, ci sta a dire il nostro valore ai suoi occhi, quanto noi siamo preziosi per lui. Ogni qualvolta abbiamo un dubbio sul nostro valore, sulla nostra identità, sulla nostra realtà umana, e vogliamo sapere la risposta: “Gesù, per te io quanto valgo?”, alziamo lo sguardo verso la croce, celebriamo la messa, nutriamoci dell’eucarestia, adoriamo l’eucarestia. Lì apprendiamo il nostro valore. Tutto. La vita di Cristo. Il suo sacrificio, per te, solo per te!
Ringraziamo Cristo per il dono che ci ha fatto della sua vita e della sua morte in croce, con la quale ci ha redenti. Chiediamogli nella nostra preghiera di poter assimilare, comprendere meglio, il valore del suo sacrificio con il quale ha redento l’uomo e costruito la Chiesa; mettiamoci al suo servizio, obbedienti come lui al Padre, per compiere la sua volontà. Amen.
- Nel testo originale latino si legge “ut voluntatem Patris impleret“. Il verbo impleo, traducibile sicuramente come nella versione vaticana della Lumen Gentium con “adempiere“, trova però migliore accordo con il termine italiano compiere, laddove tale verbo rende meglio l’idea – insita nel latino – di riempimento, completezza, sazietà, appagamento, soddisfazione.