15 feb 19 – LG 5, prima fotografia della Chiesa

Testo: Lumen Gentium 5

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Parabola del seminatore, Jacopo da Ponte detto Bassano, 1566-1568, Galleria degli Uffizi, Firenze

Nel paragrafo 5 della Lumen Gentium viene citata la parabola del seminatore secondo la versione di Mc 4. Quella del seminatore è la prima parabola raccontata da Gesù, alla quale ne seguiranno altre in grande numero, soprattutto finalizzate alla comprensione della realtà del “regno“.

Il termine parabola, come molti altri termini utilizzati nel linguaggio religioso cristiano (lo stesso termine chiesa, ma anche vangelo, Cristo, apostolo…), proviene dal greco. Propriamente in italiano significa “esempio“. Gesù parlava in parabole (cfr Mc 4,2.34), cioè parlava per esempi. Accade anche noi di utilizzare esempi, trovandoci ad affrontare argomenti difficili da spiegare o che pensiamo che chi ci ascolta abbia difficoltà a capire. Esempi che a volte non hanno attinenza diretta con l’argomento trattato ma che aiutano la comprensione di quanto si vuole illustrare.

Quando a Gesù i discepoli chiedono: “Perché parli loro in parabole?“, la risposta è sorprendente:

Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato… Parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice:

Voi udrete, ma non comprenderete,
guarderete, ma non vedrete.

Perché il cuore di questo popolo
si è indurito, son diventati duri di orecchi,
e hanno chiuso gli occhi,
per non vedere con gli occhi,
non sentire con gli orecchi
e non intendere con il cuore e convertirsi,
e io li risani.

(Mt 13, 10-15)

Gesù parla alle folle per esempi – sembra – con l’intenzione di risanare chi ascolta ma non è in grado di comprendere, a causa della sua debolezza o a causa delle sue chiusure. Ai discepoli, invece, spiega ogni cosa. Pare che Gesù, sapientemente, si renda conto che tutti noi, tutti noi procediamo a due velocità. Comprendiamo alcune cose con maggiore facilità, altre cose ci sfuggono, sono più difficili per noi da afferrare.

Pensiamo alle nuove tecnologie. Gli adolescenti contemporanei, e persino i bambini, sono in grado di utilizzare computer e cellulari con abilità che sembrerebbero innate per quanto precoci, mentre almeno io devo confessare la mia ignoranza in materia. Ma essendo tutti noi a due velocità, altre cose le capiamo meglio. Ci mettiamo in cucina davanti ai fornelli e molti di noi, che hanno difficoltà coi cellulari, si trovano perfettamente a loro agio a dosare il sale senza pesarlo, ad occhio.

Vi ho appena fatto un esempio, vi ho – appena adesso – parlato in parabole. Parlando di adolescenti, cellulari, cuochi e sale. Un esempio per tentare di spiegare un elemento centrale della vicenda umana di Gesù: egli aveva compreso che a volte occorre raccontare le verità, anche le più grandi, esprimendosi in modo semplice ed utilizzando esempi; altre volte, invece, illustrandole con dovizia di particolari ed entrando a fondo nel tema: “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11).

Con il paragrafo 5 della Lumen Gentium entriamo nel vivo dell’argomento della Chiesa; i padri conciliari non parleranno tanto in parabole, per esempi, ma cercheranno di aiutare i fedeli a comprendere il mistero della Chiesa, la sua natura e la sua missione. Si tratta di un paragrafo piuttosto complesso, che richiederebbe una trattazione ben più lunga di quella che gli si può dedicare in una serata.

Perciò chiediamo al Signore di farci comprendere le parole del Concilio, di imprimere nel nostro cuore il senso più vero della nostra appartenenza alla Chiesa, di lasciare che questi suoi figli possano accostarsi al mistero della santa Chiesa con animo religioso sapendo di accostarsi al mistero della nostra Madre, colei che ci ha generati alla fede e che ci accoglierà in Paradiso.

Terzo mistero luminoso: annuncio del regno, ceramiche di Palmira Laguéns, disegno di José Alzuet, Santuario di Torreciudad, Barbastro (Huesca, España)

La complessità del paragrafo 5 della Lumen Gentium è dovuta essenzialmente al fatto che introduce il concetto di regno di Dio. Sappiamo che nei vangeli compare sia l’espressione “regno di Dio”, sia l’espressione “regno dei cieli”, poi identificati dagli autori successivi anche come “regno di Cristo”. Tre realtà in apparenza simili, spesso considerate come proiettate in un futuro remoto dove coinciderebbero con il Paradiso. Tralasciamo di entrare in dettagli esegetici e teologici, forse il “regno” è tutto questo insieme ma per i nostri scopi non è utile approfondire troppo. I padri conciliari, infatti, intendono più semplicemente collegare il regno di Dio alla Chiesa. Si tratta di un importante indizio del mistero della Chiesa.

Re David, Max Schmalzl, Santa Maria del Perpetuo Soccorso, Cham (Germania) (?)

Nell’interrogarci dunque sul collegamento esistente tra regno di Dio e Chiesa ci rendiamo conto che soffriamo della distanza culturale con i tempi del vangelo e con mentalità e storia di un popolo, quale quello ebraico antico, davvero tanto diversi da noi, uomini occidentali del XXI secolo. Noi non possediamo la sensibilità dell’Israele di duemila, tremila anni fa, che con enfasi si sentiva rivolgere la promessa del regno di Dio. Possiamo solo immaginare il senso di orgoglio di un piccolo popolo di pastori seminomadi, circondato da grandi imperi guerrieri, come il regno di Egitto o il regno Assiro-Babilonese, quando i profeti annunciavano loro che li avrebbero sconfitti rendendoli vassalli di un regno in cui il Dio dei padri era sovrano. Israele aveva conosciuto l’epoca in cui era addirittura non-popolo, politicamente ingovernabile e ingovernato, un accrocco di tribù abbandonate a se stesse, fin quando non hanno iniziato ad avere un re che come un pastore raduna il gregge, il re pastore identificato dalla Bibbia e dalla storia ebraica con il re Davide.

La sensibilità pastorale, bucolica tanto cara al popolo di Israele non è nelle corde dell’uomo contemporaneo (1). Per noi a distanza di oltre duemila anni, immersi in una cultura diversa, parlare di regno e di re non ha nulla a che vedere con la pastoralità dell’Israele antico, ma ha a che fare con il potere, con l’autorità, con la politica. Non è ovviamente questo il senso in cui Gesù parla di regno e di re. Volendo oggi trovare un esempio, una parabola, ulteriore per il regno, comprensibile alla mentalità moderna, secondo le nostre prospettive si dovrebbe ricorrere al modello familiare: il padre, la madre, i figli, la famiglia classica dove ci si prende cura gli uni degli altri con l’avanzare dell’età e dove “governare” vuol dire mettersi a servizio, in una prospettiva quasi patriarcale di famiglia. Tale immagine di famiglia è più prossima a quella di “regno” secondo la mentalità di Gesù.

Tuttavia, regno di Dio si muove in una direttrice che non coincide esattamente con la prospettiva socio-politica pure radicata nell’esperienza biblica. In effetti i padri conciliari affermano I) che il regno di Dio inizia con Gesù stesso e la sua predicazione dà inizio alla Chiesa, collegata in qualche modo a filo doppio con il regno di Dio e perciò II) che nella fondazione del regno di Dio si ritrovano le parole, le opere e la persona stessa di Gesù.

Le parole. I padri conciliari scrivono: “quelli che ascoltano con fede [la parola di Gesù] e appartengono al piccolo gregge di Cristo, hanno accolto il regno stesso di Dio“. L’ascolto della parola di Gesù e l’appartenenza al piccolo gregge, al quale Gesù promette il regno di Dio (Lc 12,32, espressione che ricorre sulle labbra di Gesù, da tenere cara perché su di essa dovremo tornare), già è accoglienza del regno di Dio. Stasera il regno di Dio lo abbiamo qui: siamo noi, piccolo gregge, in ascolto non tanto di don Ugo, e nemmeno del Concilio, ma di Cristo che attraverso il Concilio parla a noi. E attraverso lo Spirito Santo imprime nei nostri cuori queste parole affinché portino frutto, come sostengono i padri conciliari quando dicono che “il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto“. Nessuno di noi sa a cosa porterà il seme gettato nell’ascolto della parola e nell’appartenenza al piccolo gregge, ma è certo che crescerà e porterà il frutto per virtù propria. Eccolo il regno di Dio! Qui! Per questo dobbiamo ringraziarci reciprocamente per l’opportunità che ci diamo di scoprire che il regno di Dio è presente in mezzo a noi.

Le opere di Cristo. Le opere di Cristo coincidono con i suoi segni, così li chiama l’evangelista Giovanni, con i suoi miracoli, come tutti gli evangelisti sono concordi nel riconoscere. La scelta della citazione da parte dei padri conciliari è curiosa: “Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio“. Nel testo lucano il Digitus paternae dexterae, il Dito della destra del Padre, è lo Spirito Santo che si canta nel Veni Creator Spiritus. Quindi Gesù sta sostenendo che se con il Dito di Dio, cioè lo Spirito Santo, i demoni (cioè quegli esseri indefiniti e spaventosi che la tradizione cristiana ha successivamente indicato come diavoli) vengono allontanati allora è arrivato il regno di Dio.

A questo punto vale la pena spendere una parola su un tema per nulla secondario che investe anche il significato delle opere di Gesù. Esiste una distorsione di cui soffriamo tutti chi in misura maggiore chi in misura minore, una distorsione di carattere psichiatrico. Gli psichiatri la chiamano concretismo, me lo ha ricordato proprio oggi il mio Direttore Sanitario. Si tratta della

carenza o mancanza della capacità di operare astrazioni o generalizzazioni. È comune nell’insufficienza mentale o nella schizofrenia. Il paziente vive stimoli semplici in modo semplice, ma non necessariamente patologico. Un esempio di concretismo è dato dalla difficoltà di interpretare i proverbi.

(Invernizzi-Bressi, Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Dispense di Psicologia Clinica, UNIPG, 2017, pp. 21-22)

In qualche modo si tratta della difficoltà di distinguere il simbolo dalla realtà. Cerco di aiutarmi con un esempio, con una parabola. Se disegno una penna su un foglio di carta, tutti noi comprendiamo che quel disegno è il simbolo di una penna, non una penna reale. Non possiamo afferrare la penna disegnata sul foglio di carta per scriverci, si tratta solo di un simbolo. Ma se qualcuno non riesce a distinguere il simbolo disegnato dalla realtà-penna, allora vuol dire che è affetto da concretismo.

Questo si applica in molti ambiti, anche religiosi. Qualcuno può avere difficoltà a comprendere cosa sia il male. È più facile immaginare il male come un essere con gli zoccoli, la coda, le corna e che puzza di zolfo (2) piuttosto che definire un’astrazione o ricercare cause razionali. Il male è sfuggente, mentre la maggior parte di noi vuol trovare qualcosa di concreto da manipolare, a cui attribuire la responsabilità di ciò che accade.

Posso spiegare il concretismo anche con l’esempio recente di un’ospite della struttura in cui opero, la quale ieri a messa mi dice: “Don Ugo, mi hanno fatto una fattura, cosa ne pensa? Come faccio a liberarmi della fattura?“. Ho cercato di ironizzare un po’ sull’argomento, spiegandole che le fatture non esistono, chiedendole di mostrarmene una, soprattutto che nella fede cristiana non c’è nessun posto per superstizioni del genere. Siccome lei resisteva, ho concluso che tutti sappiamo che gli asini non volano, ma se qualcuno è disposto a crederlo bisogna lasciare libero di farlo. E lei, infatti, ha risposto che non l’avevo convinta.

Paola, la mia interlocutrice, soffre di concretismo. Lei ha bisogno di comprendere perché si sente male, qual è l’origine del suo malessere, e siccome non trova il beneficio che si aspetterebbe dalle cure mediche è indotta a pensare che la ragione sia da ricercare in un maleficio da parte di qualcuno. Il concretismo fa parte di una mentalità semplice, che tende a semplificare le cose più complesse, ed appartiene un po’ a tutti.

Gesù coglie esattamente in questa difficoltà comune a tutti noi l’opportunità per far notare che, essendo presente qualcuno che riesce concretamente a togliere il male comunque lo si voglia chiamare (demonio) e riesce a stravolgere la realtà negativa in modo tale da far nascere il bene, allora ci si trova in presenza del regno di Dio. Altro che abbattimento dei grandi imperi guerrieri! E le azioni di Gesù, come le sue parole, sono tali che si prestano ad essere comprese a due velocità. Le comprende chi soffre maggiormente di concretismo (attribuendo al demonio e al suo allontanamento una rappresentazione non simbolica), ma le comprende altrettanto bene anche chi va oltre la rappresentazione reale, attinge al loro significato allegorico e metaforico e giunge alla piena rivelazione della buona notizia.

Perciò i padri conciliari ci permettono di fare il grande passo: se noi, la Chiesa, siamo capaci di evitare il male (di compierlo, di pensarlo, di dirlo), di interrompere la catena delle azioni malvagie (faide, pensieri cattivi, invidie, gelosie, vendette, calunnie, maldicenze…) e iniziamo ad operare il bene allora riconosciamo giunto e realizziamo in mezzo agli uomini il regno di Dio. Abbiamo tolto i demoni! Abbiamo mandato via il male! Non è prendere a calci un essere con la coda, gli zoccoli, che puzza di zolfo e ha le corna… Quando si parla di esorcismo… spesso ci troviamo semplicemente davanti a caricature del suo reale significato (3). Ma non entro in temi che ci condurrebbero troppo lontano.

La persona di Gesù. I padri conciliari hanno seguito un discorso al contrario, mettono per ultimo ciò che è più importante (con una figura retorica che si chiama hysteron proteron): “Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo“. Proseguono con una sintesi della storia personale di Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo, Signore, messia, sacerdote, morto e risorto per noi, che ha effuso lo Spirito Santo. Sono le qualità intrinseche di Gesù, lo definiscono e non ricadono nel potere e nella responsabilità della Chiesa. Poiché però “la Chiesa [è] fornita dei doni del suo fondatore” è Gesù che mette i credenti a parte di quelle che sono qualità solo sue, come vedremo tra breve.

Invece i padri conciliari ci tengono a sottolineare alcune caratteristiche che fanno parte della persona di Gesù e che possono essere abbracciate dalla Chiesa.

  1. Gesù è venuto “a servire, e a dare la sua vita in riscatto per i molti“. Non giriamoci intorno, fratelli e sorelle: se la Chiesa non imita il Signore che è venuto a servire e a dare la sua vita in riscatto, la Chiesa non serve. Non possiamo illudere noi e gli altri in proposito: il regno di Dio è servire e dare la vita.
  2. La Chiesa ha ricevuto da Gesù le sue qualità intrinseche come un dono: siamo figli di Dio esattamente come lui è Figlio di Dio; siamo messia come lui è messia (Messia è parola ebraica che in greco suona come Cristo e in italiano come Unto), unti del Signore per una missione di salvezza; siamo signori e sacerdoti (nel battesimo: sacerdoti, re e profeti); siamo morti e risorti e siamo pieni di Spirito Santo che le nostre azioni spandono nel mondo. Gesù ha riempito la Chiesa, ciascuno di noi, di questi doni perché essa sia inizio e germe del regno di Dio.
  3. La Chiesa inoltre osserva “fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione“. Interessante che i padri conciliari non vogliano ricordare altri precetti: non mangiare la carne il venerdì, andare a messa la domenica, confessarsi almeno a Pasqua… non sono i precetti della Chiesa, ma quelli di Cristo che vanno osservati fedelmente per realizzare il suo regno. In particolare l’abnegazione: la Chiesa tra i vari precetti ha ricevuto quello di dimenticare se stessa per ricordare gli altri. Il regno di Dio si instaura con l’amore, con l’umiltà e dimenticando se stessi per gli altri.

Il paragrafo 5 ci ricorda a proposito di Gesù che le sue parole sono importanti per riconoscerlo, le sue opere altrettanto, ma oggi come ieri e come domani la presenza di Gesù e il suo regno nel mondo si attua con il servizio, accogliendo i suoi doni per mettere a disposizione degli altri la nostra vita, con carità, umiltà e abnegazione. Se operiamo in tale maniera pure noi, allora saremo riconosciuti come cristiani e il regno di Dio, inaugurato da Cristo, continua la sua presenza nel mondo.

Perciò possiamo dire a ragione di trovarci in presenza della prima fotografia della Chiesa operata dalla Lumen Gentium. Essa viene fotografata nella sua somiglianza a Gesù servo, amabile amante, umile, buono, mite. Ma non basta. Se i padri conciliari affermano che la Chiesa va lentamente crescendo, viene da chiedersi in che senso essa è inizio e germe del regno di Dio. Immagino la Chiesa dei dodici apostoli, sì, proprio germe e inizio. Poi è cresciuta, migliaia di battezzati in un giorno solo, ma sempre germe e inizio erano. Poi la Chiesa si è diffusa e con il passare dei secoli è sbarcata nei cinque continenti. Oggi conta miliardi di fedeli. Sempre germe e inizio resta. Supponiamo per assurdo che vi sia un giorno in cui la Chiesa abbracci tutti gli uomini e tutte le donne abitanti sulla terra, otto miliardi di persone convertite al cristianesimo e battezzate. Resterebbe ugualmente germe e inizio del regno di Dio.

Perché la fotografia che ci offre il Concilio Vaticano Secondo è quella di un’incompiuta. Attenzione al concretismo: i padri conciliari ci stanno avvertendo che riempire la Chiesa non è il fine, che la Chiesa resterà sempre un piccolo gregge anche se fosse numericamente totalizzante. La Chiesa quella completamente realizzata è l’unione con il nostro re nella gloria: quella Chiesa sarà il compimento del regno di Dio. Per adesso, in cammino nel tempo, la Chiesa è e resta piccolo gregge, germe e inizio del regno di Dio.

Non appena fatta la loro professione di fede, i padri conciliari ci offrono il primo fermo immagine della Chiesa. Vi prego di portare nel cuore le parole del paragrafo 5 della Lumen Gentium. Rileggetele, meditatele. Esse ci aiuteranno a riconoscere la Chiesa all’opera nella storia. Chiediamo al Signore che la Chiesa risponda sempre meglio alla sua vocazione e che noi possiamo essere autenticamente cristiani per testimoniare nel mondo il regno di Dio.

 

 


  1. Anni fa, in occasione della preparazione di un convegno destinato ai giovani, chiesi nel gruppo di lavoro di dire istintivamente cosa suggeriva ciascuno dei termini che proponevo. Alla parola pastore una ragazza del gruppo di lavoro associò il termine puzza.
  2. Per Bulgakov, nel celebre romanzo Il maestro e Margherita, Satana veste i panni di Woland (uno dei nomi germanici del diavolo, citato anche nel Faust di Goethe), un misterioso quanto affascinante professore straniero: “vestito di nero, con un berretto nero” che mostra “un grosso orologio d’oro con un triangolo di diamanti sulla calotta“, fa apparire per colazione “un vassoio su cui si trovava del pane bianco affettato, del caviale pressato in un vasetto, funghi porcini marinati su un piattino, un tegame, e, infine, della vodka in una voluminosa caraffa della gioielliera“, fa “sedute di magia nera e totale smascheramento della medesima“. Per Lewis, nelle Lettere di Berlicche, il diavolo sono semplicemente zio e nipote nel loro scambio epistolare. Si tratta di iconografia del diavolo decisamente agli antipodi di quella medievale.
  3. Nel battesimo è prevista, tra i riti iniziali, la preghiera di esorcismo accompagnata dall’unzione con l’olio dei catecumeni. La prima formula del rito dei bambini recita così: “Dio onnipotente ed eterno, tu hai mandato nel mondo il tuo Figlio per distruggere il potere di satana, spirito del male, e trasferire l’uomo dalle tenebre nel tuo regno di luce infinita; umilmente ti preghiamo: libera questi bambini dal peccato originale, e consacrali tempio della tua gloria, dimora dello Spirito Santo“. La formula alternativa recita così: “Dio onnipotente, tu hai mandato il tuo unico Figlio per dare all’uomo, schiavo del peccato, la libertà dei tuoi figli; umilmente ti preghiamo per questi bambini, che fra le seduzioni del mondo dovranno lottare contro lo spirito del male: per la potenza della morte e risurrezione del tuo Figlio, liberali dal potere delle tenebre, rendili forti con la grazia di Cristo, e proteggili sempre nel cammino della vita“. Quelle per il rito degli adulti sono leggermente più complesse. Chiedono a Dio di allontanare dai catecumeni “l’incredulità e il dubbio, la servitù degli idoli e la magia, gli incantesimi e la negromanzia, la cupidigia del denaro e le attrattive delle passioni, le inimicizie e le ostilità e qualunque forma di malizia“; inoltre pregano affinché i catecumeni “si ritengano beati se poveri ed emarginati, se misericordiosi e puri di cuore: siano portatori di pace e sostengano con serenità le persecuzioni“. Come si osserva, gli “esorcismi” battesimali si presentano in forma di dignitosissime preghiere per invocare la benedizione e l’assistenza di Dio nella lotta contro il male, non tanto personificato quanto visto nella sua condizione attuale e personale (spirito di malignità, atti peccaminosi).