6 malattie spirituali. Dialoghi con il Paziente
Delle malattie spirituali: ispirazione e metodo
Nel concludere il Convegno Diocesano il 18 settembre 2017 (discorso conclusivo) il nuovo Vicario di Roma – riprendendo concetti cari a Papa Francesco – esprimeva la sua preoccupazione intorno a quelle che chiamò le malattie spirituali delle comunità cristiane, malattie “che frenano la circolazione della vita dello Spirito”. Lanciò quindi la proposta che “ogni comunità parrocchiale, ogni realtà ecclesiale” si impegnasse a riflettere sulla propria malattia spirituale e ne sottolineò tre possibili: il pelagianesimo (“la comunità non si costruisce sull’efficienza della sua macchina organizzativa); individualismi e affermazioni identitarie giocate “contro qualcuno” (“separarci dagli altri, che siano i fratelli della comunità cristiana o gli abitanti del nostro stesso quartiere, ci fa ammalare”); il pessimismo sterile (“comunità introverse, ripiegate su se stesse, … hanno dimenticato di essere lievito inserito nella storia umana e guardano le vicende del mondo dal balcone delle proprie sicurezze”).
La proposta, arrivata anche sul tavolo del Consiglio Episcopale per diventare operativa nella Quaresima 2018, incontrò il primo problema: tre malattie spirituali sarebbero state insufficienti a coprire le circa sei settimane di tempo quaresimale. Perciò ad abundantiam il Consiglio Episcopale ne raddoppiò il numero, rimaneggiò il loro contenuto e pubblicò un depliant (depliant del Consiglio Episcopale) come “tracce per la condivisione”. Il sussidio, dall’eloquente titolo “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (sottotitolo: “Un richiamo alle nostre comunità cristiane per «riconoscere» e «curare» le malattie spirituali”) proponeva diverse modalità di verifica possibili: una settimana di esercizi spirituali parrocchiali con tempi per la condivisione; un appuntamento settimanale per tutta la Quaresima (ad es. il venerdì) in cui unire digiuno e preghiera al dialogo su una malattia spirituale; una giornata o due di ritiro.
Le descrizioni delle sei malattie spirituali, accompagnate da brevi didascalie ispirate dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (link) sono stati sintetizzate in sei esclamazioni negative. Al termine di ciascuna descrizione una serie di domande sembra avere lo scopo di aiutare nella verifica:
- No all’economia dell’esclusione!
Ti sembra che siamo affetti dall’indifferenza e dall’esclusione? Siamo troppo presi dalle cose o da noi stessi per non accorgerci degli altri, specie i più poveri e più fragili? - No alla guerra tra noi!
Ti sembra che il conflitto tra noi sia alto? Rischiamo di finire bloccati dalle tensioni, dai personalismi? Invidia e gelosia sono il sottobosco della nostra comunità e dei nostri gruppi? - No all’accidia egoista!
Ti sembra che siamo affetti dall’accidia spirituale? Andiamo avanti con inerzia, ripetendo stancamente sempre le stesse cose senza più convinzione? - No al pessimismo sterile!
Ti sembra che siamo caduti in questo pessimismo senza frutto? Nei discorsi che facciamo, nelle iniziative che portiamo avanti… pensiamo che tutto sia inutile? - No all’individualismo comodo!
Ti sembra che ci siamo un po’ rinchiusi in noi stessi, perdendo lo slancio missionario? Che difendiamo la nostra vita privata e che ci dedichiamo alla nostra fede solo per “star bene”? - No alla mondanità spirituale!
Ti sembra che siamo diventati un po’ troppo mondani dal punto di vista spirituale? Più che seguire il vangelo seguiamo logiche tutte umane, di apparenza, di autoaffermazione?
Pur non essendo specificato nel depliant, i vescovi ausiliari si rendono presenti a livello di Prefettura e di Settore per sostenere il percorso di verifica delle singole comunità e realtà ecclesiali e per raccoglierne i risultati.
Delle malattie spirituali: patologia speciale
Essendo in dovere di affrontare anche io nella mia piccola comunità il percorso di verifica richiesto a livello diocesano dal Vicario Generale, ho dovuto prendere atto della peculiarità del luogo dove opero (una residenza psichiatrica) e delle modalità della mia presenza (sono l’unico cappellano). Difficile, se non impossibile, coinvolgere gli ospiti della struttura, vuoi per oggettive difficoltà logistiche, vuoi per la speciale patologia curata che non permette né analisi tanto raffinate né un confronto equilibrato con gli aspetti più propriamente religiosi delle persone (si va dal rifiuto più totale di Dio all’identificazione con lui, dall’indifferenza all’ossessione). Analoghe considerazioni valgono per il personale, operante in numero non elevato, soggetto a turni di lavoro, dislocato tra Roma e interland (quindi spesso nemmeno appartenente alla Diocesi), in larga parte non praticante. E chi praticante per questo già coinvolto nella stessa verifica dalle rispettive comunità di provenienza.
Si può dire che la nostra comunità soffra di una patologia speciale, di origine genetica, connaturata nella sua stessa ragione di essere e non prevista nelle sei malattie denunciate dal Consiglio Episcopale: la frammentazione della contemporaneità nei numerosi livelli relazionali occupati dall’esistenza personale. Che poi, alla fin fine, nemmeno è tanto patologia, bensì una forma nuova di presenza umana nel mondo per la quale le classiche categorie pastorali si rivelano insufficienti. Come dire: ostinarsi a considerare malato un mancino.
Delle malattie spirituali: il Paziente della stanza 113
Non potendo agevolmente fermarmi ad intervistare ospiti e personale sull’argomento della verifica, mi sono deciso a raccogliere impressioni e sensazioni e a dialogare in proposito con il Paziente della stanza 113 (NdA: per chi non lo sapesse ancora, la Cappella della struttura presso cui opero è stata ricavata da una ex-stanza di degenza, la n. 113 appunto. Nella Cappella è presente un piccolo tabernacolo che conserva l’eucaristia. Perciò parlando de il Paziente della stanza 113 mi riferisco al Signore Gesù e alla sua presenza sotto le specie eucaristiche).
Non deve stupire che la verifica sulle malattie spirituali sia rappresentata da un dialogo più o meno interiore. Nel luogo dove opero non è infrequente incontrare chi sente le voci e chi ha visioni. Perché il Cappellano non dovrebbe dialogare con il Paziente della stanza 113 che va a trovare tutti i giorni intrattenendosi a lungo con lui?
Dialogo sulle malattie spirituali. Introduzione
il Paziente – Sei incontentabile.
Io – Su alcune cose sono più arrendevole.
il Paziente – Sui dettagli potresti almeno cedere un po’…
Io – Sì, ma il diavolo si annida nei dettagli, lo sai…
il Paziente – Che c’entra! È così decisivo che si parli di malattie e non di terapie?
Io – Per me sì, e non è propriamente un dettaglio.
il Paziente – Già è qualcosa che si riesca a parlarne… e magari ad arrivare a una diagnosi…
Io – Su questo concordo. Ma senza prognosi, senza terapia restiamo al punto di partenza… Suggeriscono di ricercare le malattie spirituali, ma non suggeriscono come uscirne fuori.
il Paziente – Ti sei lamentato tanto che i vescovi fossero troppo direttivi, lasciando poco spazio alla creatività delle singole comunità; e ora? Invochi che siano loro a indicarti le soluzioni. Mica vorrai la pappa bella fatta pure tu?
Io – Precisiamo: quello delle malattie spirituali è un artificio retorico, un’allegoria penso. L’unica malattia spirituale degna di questo nome è il peccato, il resto possono essere errori e insufficienze. Secondo me i vescovi hanno un’idea ben precisa di quello che vogliono ottenere spingendo a riconoscere errori e insufficienze e, dove esistono, anche i peccati.
il Paziente – Vuoi insegnare a me ciò che è peccato? E cosa pensi che i vescovi vogliano ottenere, se non comunità cristiane più consapevoli della loro identità e della loro missione? (NdA: le parole de il Paziente della stanza 113 sembrano alludere vagamente a un documento conciliare, la Lumen Gentium)
Io – Non mi permetterei mai… Giusto che i vescovi facciano il loro lavoro, ma almeno lasciami dire un paio di cose sul metodo…
il Paziente – Sentiamo.
Io – Ho letto il depliant. Pare che l’obiettivo sia “mettere ordine nella propria vita” (NdA: parole ispirate dagli Esercizi Spirituali di S. Ignazio) e a livello comunitario chiederci insieme dove stiamo andando e se stiamo camminando secondo lo Spirito, aiutandoci a fare un esame di coscienza comunitario, a correggerci, a “prendere il largo”, a essere capaci di annunciare il Vangelo della Pasqua all’umanità di oggi. Non so perché, tutto questo mi dà di nuovo la sensazione di ripiegamento su se stessi, di rifugio nel nido, di autoassoluzione… Il Vicario Generale nel suo discorso di settembre aveva parlato di pelagianesimo mettendo in guardia le comunità dalla tentazione dell’efficientismo. Ma si può accusare di efficientismo organizzativo determinare i criteri quantitativi (o anche qualitativi) di verifica? Se si chiede ad una comunità se “ti sembra che siamo affetti dall’indifferenza o dall’esclusione” la risposta può essere tanto positiva quanto negativa. Dipende… senza avere criteri con cui confrontarsi si resta nel generico e nell’astratto. Per questo considero piuttosto “inefficienti”, per non dire fuorvianti, le domande che sono state inserite nel depliant. Come primo appunto metodologico direi che mancano i criteri di valutazione, forse perché mancano anche obiettivi condivisi. C’è una seconda osservazione da fare, questa piuttosto fondamentale. Lo stile della verifica mi ricorda molto da vicino linguaggi e problematiche di quasi 30 anni fa, quando la Chiesa di Roma si mise in cammino insieme (per “chiederci dove stiamo andando e se stiamo camminando secondo lo Spirito) in quell’esperienza articolata e tutt’altro che frettolosa che fu il Secondo Sinodo di Roma, di cui il prossimo 29 maggio ricorrono 25 anni dalla conclusione. Cosa ne è stato di quella esperienza? Perché a distanza di 25 anni non si avverte l’esigenza di una verifica intorno alla sua attuazione? E se non è stato attuato nelle sue articolazioni pastorali, cosa si spera di ottenere tornando sugli stessi, identici argomenti?
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