6 malattie spirituali. Dialoghi con il Paziente

No all’individualismo comodo!

È una malattia che può prendere varie forme e infettare i membri della comunità: la tendenza a dare un’importanza esagerata agli spazi personali di autonomia, separandoli in maniera schizofrenica dalla vita cristiana con i suoi impegni. C’è chi vive occultando la propria identità cristiana, facendo persino della preghiera o della vita fraterna un’occasione per “star bene con sé stesso” e non la fonte per la missione nel mondo, per non diventare addirittura difesa di sé e delle proprie convinzioni e disprezzo degli altri, quasi si avesse paura di contaminarsi.

cfr. EG 78-80; 87-92

Delle malattie spirituali: ispirazione e metodo
Delle malattie spirituali: patologia speciale
Delle malattie spirituali: il Paziente della stanza 113
Dialogo sulle malattie spirituali. Introduzione

venerdì 16 marzo 2018

 

il Paziente – Hai sentito cosa ha detto oggi Francesco nell’udienza ai seminaristi?
Io – No, cosa?
il Paziente – Ha risposto a cinque domande. Un diacono statunitense gli ha chiesto quali siano i tratti distintivi della spiritualità del sacerdote diocesano. Il Papa ha risposto con una parola: “diocesanità”.
Io – Bè, se gli avesse chiesto quali fossero i tratti della spiritualità del sacerdote secolare forse avrebbe risposto: “la secolarità”!
il Paziente – Lascia stare le battute! Considera invece il suo approfondimento: secondo lui per diventare santo il sacerdote diocesano deve curare il rapporto con il proprio vescovo, anche se fosse un tipo difficile, con i suoi fratelli presbiteri e con la gente della sua parrocchia che sono i suoi figli. Cosa ne pensi?
Io – Mi pare una risposta intelligente, in linea con il carattere di Francesco e la sua formazione. Una visione classica, tradizionale, direi.
il Paziente – Ti sento dubbioso…
Io – Conosci le mie perplessità in proposito. Sai bene che penso ci sia ancora uno spazio incompiuto nella riflessione sulla spiritualità del sacerdote diocesano, forse più propriamente chiamato secolare. Cerco di stressare il concetto espresso da Francesco per spiegarmi bene e ti faccio una domanda. Tutti i sacerdoti al servizio di una Diocesi costituiscono l’unico presbiterio. È verosimile che un sacerdote gesuita, per esempio, parroco in una chiesa della Diocesi non curi il rapporto con il proprio vescovo, anche se fosse un tipo difficile, con i suoi confratelli presbiteri e con la gente della sua parrocchia che sono i suoi figli?
il Paziente – Certo che no!
Io – Ecco… L’espressione di Francesco, ragionevole e di buonsenso, non pare si applichi esclusivamente al sacerdote diocesano, ma si può estendere a tutti i sacerdoti che lavorano al servizio di una Diocesi. Quindi probabilmente i tratti distintivi della spiritualità del sacerdote diocesano vanno ricercati altrove…
il Paziente – Speravo di portarti a riflettere sul senso dell’individualismo comodo…
Io – Penso che ci siamo dentro in pieno! Continuiamo sul tema della diocesanità.
il Paziente – Continuiamo…
Io – Ovviamente non esiste una definizione di diocesanità. Anche perché non pare la stessa cosa essere sacerdote diocesano a Roma o esserlo a Kiribati, due Diocesi diverse per estensione geografica, per caratteristiche demografiche, sociali, ecclesiali… Insomma, molto differenti tra loro. Poiché io conosco meglio la realtà di Roma mi soffermerò su di essa… Sai che proprio lo scorso anno ho realizzato uno studio sul clero diocesano di Roma, che dovrei aggiornare presto (NdA: l’autore si riferisce al Rapporto statistico sul clero diocesano di Roma 2017, fonte)
il Paziente – Sì, ho visto…
Io – Non ha avuto molto successo… in ambienti ecclesiali non siamo abituati a ragionare sui numeri per capire meglio la realtà…
il Paziente – A quali numeri ti riferisci?
Io – Faccio qualche esempio: tra i presbiteri diocesani di Roma esistono almeno 6 tipologie di sacerdoti e conseguentemente di spiritualità; la maggior parte di loro è stata formata in 4 diversi centri formativi della Diocesi. Quasi il 20% dei sacerdoti proviene da altre realtà ecclesiali per essere incardinato a Roma e circa il 20% è di nazionalità non italiana; quasi il 10% degli ordinati degli ultimi 25 anni risulta non più in servizio come sacerdote, probabilmente dispensato dal ministero. Per quanto riguarda le attività quasi il 15% risulta in missione fuori Roma mentre 2 sacerdoti di età inferiore ai 75 anni su 3 svolgono un qualche servizio pastorale nelle parrocchie.
il Paziente – Cosa vuoi dire con questi numeri?
Io – Voglio dire che cercare una definizione chiara di “diocesanità” nella Diocesi di Roma a partire da o per spiegare il magma che vi si muove è impresa ardua… a cominciare proprio dalla figura del suo Vescovo, con il quale è difficile mantenere rapporti costanti visto che è il Papa stesso! E se la realtà è questa, appare ancora più arduo determinare i tratti caratteristici della spiritualità del sacerdote diocesano, che si riduce al rapporto di dipendenza da una Diocesi. Rapporto peraltro facilmente intercambiabile…
il Paziente – Tutto questo come lo collochi nel discorso intorno all’individualismo comodo?
Io – La mia posizione è che l’”individualismo comodo” dei sacerdoti diocesani si annidi in tre terreni infidi, mai completamente esplorati dalla riflessione clericale: assenza di un progetto professionale personalizzato; assenza di un progetto pastorale condiviso; assenza di un progetto di responsabilità collegiale. Una precisazione si impone: sono consapevole che anche i migliori progetti richiedono tempo e persone all’altezza per essere realizzati, quindi non esistono soluzioni a pronta cassa. Viceversa l’assenza totale di progettualità apre spazi incolmabili di individualismi spesso in competizione, per non dire in concorrenza, tra di loro…
il Paziente – Vorrei sentire dalle tue parole il significato che dai alle tre assenze menzionate…
Io – È opinione diffusa che fare il prete non sia un mestiere come un altro e giustamente dice Francesco che non si può ridurre il ministero sacro a una burocrazia del sacro. Per questo mi pare importante che ogni candidato all’ordine sacro, ogni prete o diacono, siano preparati non genericamente per un ruolo, ma ricevano una formazione specialistica per un compito specifico, in armonia con le attitudini e le inclinazioni personali. Ti faccio il mio esempio personale, tralasciamo gli anni trascorsi in Parrocchia: fui inviato a insegnare alle scuole superiori senza che nessuno si sia mai preoccupato di capire se fossi idoneo all’insegnamento scolastico e di verificare se avessi la preparazione pedagogica per tale compito. Successivamente sono stato inviato come cappellano in una residenza psichiatrica senza che nessuno si fosse chiesto quanto sarei stato capace di sostenere psicologicamente il mio ruolo o se avessi potuto far più danni che bene, vista la natura piuttosto speciale del luogo di ministero. Tutto questo senza essermi mai seduto con qualcuno dei miei superiori alla ricerca di un percorso di vita che incrociasse il servizio alla Diocesi, persino nelle cose più elementari, come l’alloggio o la fraternità sacerdotale. Inoltre nei miei 28 anni di servizio alla Diocesi sono cambiati tre vescovi e quattro vicari generali; nessuno di loro ha pensato di lasciare in consegna al successore informazioni relative ai suoi preti, o almeno a me. Con l’effetto che ad ogni avvicendamento si è dovuto ricominciare da capo. È ovvio che in mancanza di indicazioni e processi condivisi gli spazi di individualismo, di “autonomia”, si sono presentati come unico terreno sul quale giocare il mio progetto di vita e di ministero ordinato.
il Paziente – In effetti mi pare che la solitudine che qualcuno tra i preti lamenta sia piuttosto da considerare frutto della sensazione di abbandono che molti provano…
Io – Sì, hai colto nel segno! La sensazione di abbandono, di smarrimento, di improvvisazione: e ora che faccio? Chi mi aiuta? Che ne sarà di me? Probabilmente i vescovi in futuro dovranno imparare a costruire progetti personalizzati per e con i loro preti, da lasciare in eredità ai successori assicurando continuità, perché i giusti spazi di autonomia individuale siano inquadrati dentro un percorso professionale e umano conosciuto, condiviso, valorizzato.
il Paziente – Parrebbe una buona cosa. Un progetto professionale personalizzato toglierebbe spazio ad esagerate autonomie o mascheramenti dell’identità. E per quanto riguarda l’assenza di un progetto pastorale condiviso? Mi pare che ormai la maggior parte delle Diocesi abbia adottato percorsi e strumenti decisionali collegiali e progettuali…
Io – Vero, sono stati fatti grossi passi avanti. Non si può pretendere di correre troppo, si rischia il distacco dal gruppo, si rischiano fraintendimenti sulle proprie azioni… Ciononostante avverto anche in questo ambito, del progetto pastorale diocesano, pressapochismo e leggerezza. Per esempio potrei domandarmi, a livello personale, in che modo si colloca il mio contributo personale, con le mie capacità e con i miei limiti, all’interno del progetto pastorale della Diocesi.
il Paziente – E la risposta quale sarà?
Io – Che non lo so. Non so se sto facendo bene o male, se la mia attività è quello che si aspettava il Vescovo, se vi sono state verifiche sul mio lavoro… e soprattutto: quale è il progetto pastorale diocesano? Dove sta andando la Diocesi, cosa sta costruendo? Tu capisci che senza tutti questi elementi persino parlare di preghiera o di vita fraterna come un’occasione per “star bene con sé stesso” e non la fonte per la missione nel mondo, per non diventare addirittura difesa di sé e delle proprie convinzioni e disprezzo degli altri, secondo le parole del Papa, diventa impossibile da stabilire. Partecipo agli incontri formativi e ai ritiri dei cappellani, ma ti confesso che, non sapendo in che modo valutare il mio lavoro e come armonizzarlo con un progetto pastorale diocesano: sì, la preghiera diventa un rifugio e preferisco starmene per conto mio piuttosto che avere la sensazione di perdere tempo…
il Paziente – Il tempo trascorso insieme non è mai veramente perduto… Solo il tempo del peccato è un tempo inutile…
Io – Però mi hai compreso, lo so… e accennando agli incontri formativi e ai ritiri posso entrare anche nel terzo terreno infido, quello dell’assenza di un progetto di responsabilità collegiale.
il Paziente – Parliamone…
Io – Ripenso alla storia della Diocesi di Roma: prima ancora che Pietro ne prendesse possesso come Vescovo, prima ancora che si imponesse nella chiesa il modello dell’episcopato monarchico, Roma era retta da un collegio di presbiteri che ne condividevano la responsabilità pastorale.
il Paziente – Questa è storia. Mica vorrai far rivivere un passato ormai finito?
Io – Non c’è niente di male a confrontarsi con il passato, se non diventa nostalgia. E io non sono un nostalgico. Dico semplicemente che togli le responsabilità alle persone e avrai perfetti sudditi con un sacco di tempo libero… Un presbiterio in cui le responsabilità individuali non solo precedono ma anche assorbono le responsabilità collegiali è una congrega di atomi… Secondo me si dovrebbero trovare strumenti compatibili con la contemporaneità per riaffermare il principio di responsabilità collegiale dei presbiteri, ai livelli intermedi come la Prefettura questo sarebbe anche più semplice da realizzare.
il Paziente – Mi fai un esempio?
Io – Me ne chiedi uno, te ne faccio due. La selezione dei candidati all’ordine sacro è il primo. Perché non affidare al clero di una Prefettura un periodo di formazione dei seminaristi? E perché non chiedere il parere vincolante del presbiterio di Prefettura per cooptare un candidato nell’ordine presbiterale? È vero, ci sono tanti motivi a favore del modello seminaristico attuale, ma ce ne sono altrettanti buoni per dire che se i presbiteri non si assumono collegialmente la responsabilità della formazione di coloro che faranno parte del proprio ordine si resterà ancorati a forme solipsistiche di esercizio del ministero sacerdotale, tutte fondate su un equivoco di base: la vocazione come fatto privato.
il Paziente – E il secondo esempio?
Io – Penso alla scelta e alla rimozione dei Parroci. Perché non è possibile che i presbiteri di una determinata zona si assumano collegialmente la responsabilità di segnalare uno di loro come idoneo o non idoneo all’incarico di Parroco? Nelle parole del Papa scorgo la possibilità di un fraintendimento. In Diocesi molto popolose e con tante Parrocchie come è Roma di solito si preferisce che sia il popolo di Dio a migrare, nel caso che un Parroco sia insoddisfacente, piuttosto che rimuovere quest’ultimo. Probabilmente la ridistribuzione dei fedeli tra le Parrocchie viciniori viene considerata una responsabilità collegiale del presbiterio. Di fatto nessuno pare in grado di segnalare che l’errore di fondo è aver scelto un Parroco inadeguato…
il Paziente – Dai l’impressione di considerare la Chiesa come un’azienda…
Io – Mi spiace che si ricavi questa sensazione. Il prodotto spirituale e pastorale della Chiesa non potrà mai soggiacere alle regole dell’organizzazione aziendale. Però faccio sommessamente osservare che tutto il resto, dalla gestione delle Parrocchie alla gestione del personale, dai software agli strumenti utilizzati, dalle finanze all’economia, tutto – mutatis mutandis – ricalca un modello aziendale. Del resto mi riesce difficile trovare qualcosa di cattivo o di diabolico nell’efficienza e nell’efficacia…
il Paziente – Si vede che non hai ascoltato la meditazione per la Quaresima 2018 del Vicario Generale… (NdA: il Paziente della stanza 113 intende sicuramente questo documento)
Io – L’ho letta, cosa c’entra?
il Paziente – Il Vicario Generale sostiene che l’incursore, il nemico, il sabotatore ti suggerisca quali siano le strade per riempire i vuoti… sei proprio sicuro che efficienza ed efficacia di progetti personalizzati, di pastorale diocesana, di responsabilità collegiale siano le indicazioni giuste per una chiesa che vuole rifiutare l’individualismo comodo?
Io – Io sì, ne sono sicuro. Sono strumenti umani, sono imperfetti, ma il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci parte sempre dalla domanda: cosa avete con voi?
il Paziente – Le tue certezze interiori nessuno ha il diritto di scuoterle… Però è giusto che tu sappia che non è questo il tempo, non è questo il contesto nel quale potranno essere coltivate, comprese, condivise. Potresti avere anche mille ragioni ma scoprirai che nessuna di esse potrà aspirare ad essere riconosciuta e accolta… e dovrai fartene una ragione tu, perché – come dice il Vicario Generale – nel caso qualcosa sia andato storto era per la tua felicità, dal momento che il presule è convinto che il Signore sapendolo ha ritenuto bene non accadesse.