La vita consacrata nella società aperta alla globalizzazione

Testo del ritiro per i francescani della comunità dell’Antonianum di Roma, 12 marzo 2003

 

1. Nel ringraziare di avermi offerto questa opportunità di riflettere insieme con voi su un tema tanto attuale e “sfidante” come quello della vita consacrata nella società aperta alla globalizzazione, desidero precisare quanto già vi è noto: io non sono, almeno nel senso consueto del termine, un “consacrato”. Con voi certamente condivido la consacrazione battesimale e crismale; con molti di voi condivido la consacrazione dell’ordine sacro; non sono però consacrato nella sequela dei consigli evangelici. Capite perciò il mio imbarazzo. Vi parlerò più per sentito dire che per esperienza personale, e questo potrebbe portarmi a non poche imprecisioni. Ve ne chiedo scusa fin d’ora. Mi conforta solo l’idea che fu di S. Tommaso, il quale affermava che delle virtù si può parlare in due modi. Per esempio, della castità se ne può parlare o perché la si pratica o perché la si studia. Preghiamo Dio che non ce ne faccia solo “parlare”, ma ce la faccia anche “mettere in pratica”…

2. Ho voluto articolare la mia meditazione in tre parti. Nella prima vorrei soffermarmi su alcuni aspetti della vita consacrata, alla luce del Concilio Vaticano II e del Magistero. Nella seconda parte tratterò più da vicino le questioni inerenti il fenomeno tipico della società moderna chiamato “globalizzazione”, il quale fa nascere alcune domande capitali per le comunità cristiane nel loro complesso. Nella terza parte arrischierei qualche considerazione finale, con la finalità di impostare la trattazione “spirituale” che lascerei poi agli sviluppi personali.

Le premesse del dialogo e delle soluzioni

3. Il 12 marzo 1982 i vescovi italiani da Assisi inviarono un messaggio ai credenti italiani, in un periodo storico e sociale dominato dall’incertezza sociale, dalle paure relative a conflitti armati, dalla situazione internazionale ancora fortemente determinata dall’esistenza dei blocchi contrapposti. Tra le varie cose dette nel messaggio ne cito una sola: “Con Francesco, come vescovi, accogliamo nella fede questo saluto della pace che viene da Dio, e insieme, da Assisi, lo rivolgiamo alla Chiesa e al Paese: «Il Signore vi dia la Pace!»… Noi annunciamo e imploriamo la pace del Signore: per la Chiesa, per le famiglie, per il nostro popolo italiano e per i suoi governanti, per tutti i Paesi martoriati dall’oppressione, dalla fame e dalla guerra, per il mondo intero. Uniti alle nostre comunità cristiane, confermiamo la volontà di vivere, come Francesco, per il Vangelo della pace, in comunione con Dio e fra di noi, a servizio degli uomini nella predilezione degli «ultimi»: per demolire con loro gli idoli, per eliminare le violenze ed emarginazioni, per riscoprire i valori del bene comune, per progettare insieme il domani, per avere la forza di affrontare i sacrifici necessari, per dare al mondo la vera visione dell’esistenza e un nuovo gusto di vivere, il gusto della pace che viene da Dio” (Messaggio dei Vescovi italiani alla comunità ecclesiale e al Paese, n. 6). Mi sembra che queste parole sintetizzino bene il primo e fondamentale approccio alla nostra questione. Il dibattito sulla globalizzazione vede spesso confronti con toni accesi, perché si tratta di un tema particolarmente avvertito. Ma non è lo spirito di contrapposizione che può farsi garante di soluzioni o di dialogo, bensì lo spirito della pace, spirito che entra in modo costitutivo nel vostro essere francescani, cioè prosecutori ideali e interpreti dello spirito di Francesco di Assisi. In questo caso il discorso che stiamo facendo può giungere a conclusioni proficue solo a condizione di essere sottratto al tumulto dei sentimenti contrapposti che inevitabilmente si presentano al cuore e alla mente. Al loro posto è necessario che prendano il sopravvento sentimenti di pace ispirati a giustizia e verità, che come sappiamo nono sono realtà di pertinenza esclusiva di una parte, ma sono frutto di una laboriosa ed infaticabile ricerca.

4. Ecco allora che l’altro atteggiamento, dopo la pacificazione degli animi, necessario per riflettere e meditare correttamente e “spiritualmente” il nostro tema è quello di porsi umilmente nel clima di una ricerca comune delle implicazioni che comporta il vivere da consacrati nella società aperta alla globalizzazione. Poiché la verità e la giustizia non sono mai un privilegio singolare di qualche fortunato vivente, così anche tutto ciò che riguarda il bene del genere umano nel suo complesso non può soggiacere ad una visione unilaterale, per quanto corretta e ispirata, soprattutto su temi tanto delicati come quello del destino dell’umanità.

La vita consacrata nel Concilio e nel Magistero

5. Potremmo ora domandarci: è legittimo che una persona consacrata si occupi delle realtà mondane, come quelle che riguardano i fenomeni sociali? E fino a che punto una persona consacrata resta fedele alla propria vocazione tipicamente religiosa rivolgendo la propria attenzione agli sviluppi delle realtà mondane? Di certo la vita consacrata rivela al mondo che il suo destino non ha pieno compimento se non nel futuro radioso della vita eterna: “La professione dei consigli evangelici appare come un segno… Poiché il Popolo di Dio non ha qui una città permanente, ma va in cerca di quella futura, lo stato religioso… meglio testimonia la vita nuova ed eterna… e meglio preannunzia la futura resurrezione e la gloria del Regno celeste” (LG 44,c). In qualche modo, primo compito ecclesiale della vita consacrata è quello di spingere gli uomini a guardare al futuro con uno sguardo fiducioso, aperto all’azione positiva di Dio sulla e nella storia degli uomini. In altre parole la nostra storia non è una “storia alla deriva” ma una storia piena di senso, tutto dovuto all’evento della redenzione operata da Cristo.

6. I padri conciliari non tacciono nemmeno la seconda caratteristica della vita consacrata: la professione dei consigli evangelici è un segno “il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana” (LG 44,c). Dunque nella vita consacrata si trova inscritta una connaturata capacità di spingere i fedeli di Cristo ad essere coerenti con la loro vocazione battesimale. Un compito, questo, che si affianca alla terza caratteristica, cioè quella di essere – proprio i religiosi – impegnati in prima linea nella missione di tutta la Chiesa: “La vita spirituale [dei religiosi] deve pure essere consacrata al bene di tutta la Chiesa. Di qui ne deriva il dovere di lavorare, secondo le forze e il genere della propria vocazione, sia con la preghiera, sia anche con l’opera attiva, a radicare e consolidare negli animi il Regno di Cristo e a dilatarlo in ogni parte della terra” (LG 44,b).

7. Il compito profetico della vita consacrata, sia nel ricordare il destino ultimo del mondo, sia nel soccorrere il mondo per “anticipare” quasi l’esperienza del riscatto finale, viene ripreso da Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Vita Consecrata (ViCo, 1996). “La vita consacrata ha il compito profetico di ricordare e servire il disegno di Dio sugli uomini… È progetto di un’umanità salvata e riconciliata. Per compiere opportunamente questo servizio, le persone consacrate devono avere una profonda esperienza di Dio e prendere coscienza delle sfide del proprio tempo, cogliendone il senso teologico profondo mediante il discernimento operato con l’aiuto dello Spirito. In realtà – continua Giovanni Paolo II – negli avvenimenti storici si cela spesso l’appello di Dio a operare secondo i suoi piani con un inserimento attivo e fecondo nelle vicende del nostro tempo” (ViCo, 73). Nella visione proposta da Giovanni Paolo II la vita consacrata sembra rappresentare un discernimento profetico in azione. In effetti osservando la stessa storia della spiritualità, che è storia di Chiesa, ci possiamo facilmente rendere conto che una caratteristica comune a tutti i santi e soprattutto ai fondatori è stata quella di cogliere con impressionante adesione alla realtà e alle sue esigenze i segni attraverso i quali riconoscere dove era più urgente che il vangelo di Gesù fosse annunciato, nelle parole e nelle opere. Per quanto riguarda i religiosi del nostro tempo, Giovanni Paolo II sostiene che lo Spirito Santo “chiama la vita consacrata ad elaborare nuove risposte per i nuovi problemi del mondo di oggi… La dedizione [dei religiosi] dovrà essere, ovviamente, guidata dal discernimento spirituale, che sa distinguere ciò che viene dallo Spirito da ciò che gli è contrario… In questo modo la vita consacrata non si limiterà a leggere i segni dei tempi, ma contribuirà anche ad elaborare ed attuare nuovi progetti di evangelizzazione per le odierne situazioni” (ViCo, 73). Si tratta quindi di coltivare “una solida spiritualità dell’azione, vedendo Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio” (ViCo, 74). Qualunque sia il significato che vogliamo attribuire alla vita religiosa, come esperienza del tutto speciale all’interno della Chiesa, quest’ultima espressione diventa basilare per indirizzare le proprie scelte spirituali.

8. A conclusione di questa prima parte possiamo dunque abbozzare un primo approccio alla visione della vita consacrata nella società globalizzata. Anzitutto il primo e fondamentale contributo che la vita consacrata fornisce alla Chiesa e al mondo è di iniettare tra gli uomini la speranza gioiosa nel futuro, mostrando il valore dell’azione di Dio nella storia umana, un valore trascendente, sempre più forte del peccato e della morte. Non meno importante è il contributo a sollecitare tutti i credenti nei loro impegni religiosi, etici, sociali, quasi a costituire una sorta di anima critica delle comunità dei cristiani, nel senso più francescano possibile. Ma sembra decisivo, a questo punto, rammentare il ruolo profetico svolto dalla vita consacrata in termini di risposta ai segni dei tempi riconosciuti con discernimento spirituale. Resta ora da domandarsi in cosa consistano i segni dei tempi che la società della globalizzazione sembra lanciare verso i cristiani.

Società moderna e globalizzazione

9. Nessuna presunzione di essere esaustivo. Consentitemi una battuta per cominciare. Quando ho scritto al computer il testo dell’intervento, il programma di videoscrittura mi ha sottolineato in rosso la parola “globalizzazione”, ritenendola un errore ortografico, in quanto la parola non era presente nel suo vocabolario. Mi è sembrato anche questo un “segno profetico” sulla necessità di aggiornare i miei programmi, forse troppo impegnati in linguaggi piani e non sempre aderenti alla modernità. Un peccato a quanto sembra comune negli ambienti ecclesiali…

10. La globalizzazione è un fatto “moderno”. L’origine di questo termine “moderno” è cristiana. Lo usò tra i primi S. Agostino per significare la novità introdotta dal cristianesimo rispetto alle religioni “antiche”. Nacque quindi come termine antinomico: la nuova era cristiana si oppone alla vecchia era pagana. Ne deduco la forte consapevolezza dei nostri Padri rispetto alla forte vitalità e alla incredibile capacità di rinnovamento del cristianesimo. Mi sembra importante ribadirlo, per sgomberare immediatamente il campo da una possibile obiezione “globale” al nostro discorso. Molti cristiani, infatti, anche tra le persone consacrate e tra le gerarchie della Chiesa, si comportano come se (o addirittura teorizzano che) il cristianesimo non avesse più nulla da dire alla società “moderna” e che la globalizzazione, come fenomeno non religioso, non possa ricadere nelle “competenze” di una qualunque fede religiosa. La storia dell’occidente cristiano ci sta a ricordare che la fede cristiana, proprio per aver portato all’uomo la rivelazione di Dio, ha rivelato anche la profonda dignità di ogni persona umana, e conseguentemente ha portato ad una costruzione della civiltà secondo un indirizzo più centrato sulla persona. Un processo non privo di ombre, ma senza dubbio nemmeno privo di meriti.

11. Tralascio ogni altra considerazione storica per giungere a parlare di globalizzazione e mi soffermo su quello che possiamo, oggi come oggi, comprendere del fenomeno in se stesso. Possiamo riconoscere nella società moderna alcune caratteristiche che la distinguono dalle società antiche. Riassumo quanto afferma Maria De Falco Marotta nel suo Verso una globalizzazione etica? Conoscere, capire e valutare il più importante fenomeno del nostro tempo, Elledici, 2002 (pp. 41s):

  • Lo sviluppo delle scienze e della tecnologia ha contribuito come fonte principale della crescita economica e del cambiamento sociale e come maggiore capacità di controllo della variabilità dell’ambiente naturale e dell’incremento demografico.
  • L’industrializzazione… ha aumentato enormemente la capacità di produrre e scambiare bene e servizi.
  • Il progressivo formarsi di un mercato capitalistico globale e l’intensificazione dell’interdipendenza economica… ha definito il processo di modernizzazione.
  • La differenziazione strutturale e la specializzazione funzionale delle diverse sfere della vita sociale hanno dato vita a nuove forme di potere e di lotta di classe comportando problemi di integrazione e di governabilità.
  • La trasformazione delle classi sociali ha comportato il declino dei contadini.
  • Lo sviluppo politico ha creato nuovi problemi di rapporti internazionali.
  • La secolarizzazione come «disincanto del mondo» tra le varie cose ha comportato la privatizzazione della fede.
  • Sono emersi i tipici valori della modernità: individualismo, razionalismo, utilitarismo.
  • Gli sconvolgimenti demografici hanno comportato l’esplosione del fenomeno dell’urbanizzazione con la creazione di strutture particolarmente complesse.
  • La democratizzazione dell’istruzione e lo sviluppo della cultura di massa hanno riscontro nell’orientamento della società verso il consumo piuttosto che verso la produzione.
  • Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione materiale e simbolica avvicinano e uniscono le società più disparate.
  • La comprensione del tempo e dello spazio e la loro organizzazione avviene secondo le esigenze della produzione materiale e della competizione sul mercato mondiale.

Come si può facilmente desumere anche da un semplice elenco di caratteristiche, ci troviamo di fronte ad un fenomeno complesso, quello della società moderna, che praticamente non tralascia nessun aspetto della vita di una persona, nemmeno quello religioso e relazionale.

12. In questo quadro la globalizzazione pare diventare la conseguenza più visibile della trasformazione sociale in atto. “Accade una crescente integrazione su scala mondiale non solo delle transazioni di beni, servizi, capitali, forza lavoro e materie prime, ma anche dei centri decisionali e delle comunicazioni materiali (trasporti, infrastrutture) e simboliche (conoscenze, informazioni, simboli, immagini)… Proprio il processo di globalizzazione determina la differenza fondamentale tra la prima e la seconda modernità” (ivi, pp. 45-47); dove per prima modernità si intende quella in cui società e Stato nazionale sono praticamente sovrapponibili, e i confini geografici del secondo sono il contenitore della società stessa. Nella seconda modernità la società diventa trans-nazionale e sfugge al controllo e al potere di un singolo Stato.

13. Ma la globalizzazione è un fenomeno irreversibile, per vari motivi (ivi, pp. 51s):

  1. La crescente estensione geografica del commercio internazionale.
  2. La rivoluzione permanente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
  3. La rivendicazione dei diritti umani che si pongono universalmente.
  4. I flussi di immagine dell’industria culturale globale.
  5. La policentrica politica mondiale post-internazionale.
  6. La questione della povertà globale.
  7. Il problema delle distruzioni globali locali.
  8. I conflitti trans-culturali locali.

14. Di fronte a temi così problematici e ampi non sono pochi gli autori (ma anche le persone più semplici!) ad invocare il ritorno alle radici etiche dell’uomo. In ogni ambito in cui l’uomo svolge la sua azione – è questo il pensiero centrale – egli si muove sempre eticamente. Non esistono in altre parole azioni o campi di azione neutri. Un forte richiamo venne a suo tempo dal noto teologo Hans Küng, Etica mondiale per la politica e l’economia, Queriniana 2002 (ma l’opera originale è del 1997) che mi sembra particolarmente interessante per chi volesse approfondire l’argomento. La globalizzazione, allo stesso modo della società moderna, interpella (e provoca!) la coscienza cristiana con una serie di formidabili domande che espongo senza alcuna intenzione di farlo in modo completo:

  1. La comunità cristiana ha saputo integrare il processo della modernizzazione e della globalizzazione all’interno della sua riflessione e della sua prassi, oppure si è nostalgicamente ancorata a modelli sociali non più in linea con i tempi?
  2. Le comunità cristiane sparse nel mondo hanno saputo vivere “cattolicamente”, cioè universalmente, la loro comunione, oppure si sono affermate chiese a velocità diverse con inevitabili incomprensioni e impoverimenti teologici e culturali?
  3. I fedeli sono stati sollecitati dai pastori a non rifugiarsi nel tranquillizzante mondo delle facili interiorità, ma a confrontarsi mossi dalla παρρησία (la franchezza apostolica) della fede con le sfide del mondo attuale per condurlo a Dio?
  4. Le persone consacrate, dal canto loro, hanno saputo rinnovare la propria mente (= μετάνοια = conversione) perché i carismi dei loro fondatori fossero ri-compresi alla luce delle mutate condizioni sociali e al fine di affrontare con rinnovato coraggio le situazioni spesso drammatiche dei tempi moderni?

Sono queste le domande che ci aprono alla terza ed ultima parte della mia riflessione, alla ricerca di qualche contributo “spirituale” che possa costituire la base di supporto delle proprie riflessioni personali.

Verso una solida spiritualità dell’azione

15. Qualsivoglia genere di risposta si intenda dare alle ineludibili domande poste alla nostra fede, la base di partenza sarà sempre la stessa: preghiera e contemplazione come slanci di amore verso Dio Padre da cui riceviamo esistenza, energia e vita. Ma anche come supplica di ispirazione e illuminazione, di effusione di Spirito Santo su di noi e su quanti nel mondo hanno responsabilità circa i destini degli uomini. In questo senso le persone consacrate sono da ritenersi al primo posto, un segno nel cuore del mondo per restituire al rapporto con il trascendente quel primato senza il quale ogni altro tipo di azione rischia di restare senza frutti.

16. Un secondo passo da compiere, a mio avviso, nella direzione di integrare senza timore la società moderna e i suoi fenomeni più rappresentativi (globalizzazione) con gli aspetti della fede vissuta è quello da intraprendere nella direzione della visibilità del bene. In altri termini, se nella società moderna “quello che non si vede non esiste” allora vuol dire che i credenti, e tra i primi le persone consacrate, devono agire in modo tale da far continuamente apparire il bene, il vero, il giusto, il bello appetibili all’uomo. In due sensi: l’uno antropologico (le virtù sono belle) e l’altro teologico (“vedano gli uomini le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” Mt 5,16).

17. Tra i vari compiti che, a questo punto, emergono per la vita consacrata nella chiesa è quello di rileggere il proprio carisma alla luce delle esigenze dei segni dei tempi. Povertà, castità, obbedienza sono i tre gioielli della vita consacrata. La perdita o la diminuzione di uno dei tre rappresenta un disastro per l’intera Chiesa. Lungi dal suggerire di rifugiarsi in radicalismi senza futuro, mi sembra però di straordinaria importanza che ogni religioso e ogni religiosa così come ordine, congregazione, istituto siano pronti a verificare la rispondenza della pratica dei consigli evangelici con il significato dei consigli stessi. Povertà significa povertà, e non altro, e così castità e così obbedienza. Non è in gioco solo la credibilità di una qualsiasi forma di evangelizzazione adottata, ma è in gioco il valore soprannaturale delle azioni compiute. La povertà, la castità, l’obbedienza hanno una finalità trascendente (sono voti) e per questo gli effetti positivi della loro pratica sono ben più forti del segno che essi rappresentano (logica della sproporzione dei segni). Al tempo stesso sarà di estrema importanza ritrovare l’adesione alla regola del proprio fondatore nella disponibilità a disfarsi di ciò che allontana dal suo spirito e nell’abbracciare, non senza sacrificio, quanto oggi vi risponde di più. Non sempre terreni, case, conventi, chiese, parrocchie, noviziati rappresentano un aiuto al proprio carisma, e in qualche caso ne sono l’esatta contraddizione.

18. La vita consacrata ha, tra i suoi punti di forza, una diffusione planetaria. Forse si potrebbe definire la prima forma di “globalizzazione della solidarietà” ante litteram. Tale diffusione deve trovare la sua valorizzazione e il suo beneficio spirituale nel costituire un’autentica rete di comunicazione alternativa e parallela. I religiosi dovrebbero imporsi come l’autorevole referente e portavoce di tutti i senzavoce rappresentandoli di fronte alla comunità ecclesiale internazionale e di fronte alla comunità internazionale politica.

19. Nell’esigenza di visibilità ricordata sopra ricadono anche alcune realtà che devono interrogare la coscienza dell’uomo. Le condizioni subumane di individui e di popoli, le ingiustizie sociali, i milioni di persone che muoiono di fame, le gravi condizioni di prevaricazione internazionale: queste ed altre realtà esigono che sia dato loro uno spazio di visibilità. Come non ricordare, a questo punto, la lotta non violenta condotta dal Mahatma Gandhi per convincere una nazione di cultura e tradizione cristiana (il Regno Unito) a terminare l’ingiurioso dominio sull’India, lui di religione indù. Quella sua azione di disobbedienza civile e di non violenza ottenne che il mondo intero restasse disgustato dal comportamento dei britannici, e allo stesso tempo l’India ottenesse quell’indipendenza cui aspirava. Sembra quantomeno paradossale che i credenti in Cristo, dopo tre millenni di cristianesimo, non siano in grado di elaborare strategie di bene improntate alla non violenza e alla disobbedienza civile per condurre i potenti ad operare scelte finalizzate al bene comune.

20. Tutto ciò premesso, pare anche opportuno che gli stessi credenti non si nascondano la complessità di un problema che comporta anche la complessità delle soluzioni. Non esistono soluzioni facili, a portata di mano, indolori per tutti. Soluzioni del tutto prive di compromessi o assolutamente applicabili, in ogni contesto. Tale osservazione spinge a ritenere che occorra procedere da una parte circoscrivendo i problemi e affrontandoli in ordine di urgenza, per offrire soluzioni mirate. Dall’altra coinvolgendo le risorse umane disponibili con uno stile di collaborazione multidisciplinare, e dove non esistano tali risorse umane, formarle allo scopo. Non sempre la sola preparazione teologica può essere ritenuta sufficiente per essere un buon pastore o un buon consacrato… Rispetto al passato, ritengo sia ormai giunto il momento di superare la formale e rigida distinzione tra “discipline sacre” e “discipline profane”. Nei fatti questo superamento già è avvenuto (si pensi ai tanti laici specializzati nelle Pontificie Università). Manca il passo fondamentale per cui le nostre comunità cristiane, e le comunità consacrate, siano in grado di costituirsi come “laboratori etici” con l’apporto di competenze che provengono da diverse direzioni e in stretta collaborazione anche con realtà diverse da quelle strettamente religiose ed ecclesiali.

21. In definitiva la spiritualità che si potrebbe prendere in considerazione per affrontare il rapporto tra la vita consacrata e la società aperta alla globalizzazione viene racchiusa in 4 espressioni:

  1. Spiritualità dell’azione. Esige impegno e creatività, richiede preparazione e capacità collaborativa, richiede inclinazione al dialogo “empatico” con tutti.
  2. Spiritualità del progetto. Richiede di riconoscere le dinamiche dei segni dei tempi, richiede la capacità di interpretare il disegno della salvezza, richiede spiccate attitudini previsionali.
  3. Spiritualità dei piccoli passi. Richiede tempo, richiede di accontentarsi di successi piccoli, richiede la pazienza del coltivatore.
  4. Spiritualità dell’attesa. Richiede un buon rapporto con il futuro nelle mani della Provvidenza, richiede abbandono, richiede umiltà e vigilanza.

22. Non ci sono conclusioni. Ci affidiamo reciprocamente il compito di pregare e di lavorare perché il mondo sia sempre più pieno di Dio e l’uomo da lui redento sia sempre più immagine vivente dell’amore del Padre per tutte le creature. Amen.