Lo Spirito ci aiuti a capire il tempo presente e a fare scelte secondo la sua volontà. Riflessioni per la Chiesa di Roma
Le presenti riflessioni rispondono agli inviti del Vicario Generale pervenuti l’11.05.2020, accompagnato da una scheda di lavoro, e il 25.05.2020, accompagnato da un allegato per il ritiro di Pentecoste per il clero.
Per mia sensibilità personale ho trovato la scheda di lavoro e l’allegato per il ritiro troppo verbosi e dispersivi (4 pagine e 9 pagine, fitte fitte); anche il ricorso ad un numero spropositato di domande (14 nella prima e 24 nel secondo) mi è apparso di poco aiuto, soprattutto quando certe immagini – nel tentativo di stabilire metafore evocative e paradossali – si sono dimostrate addirittura controproducenti e “umoristiche” (due esempi tra tutti: “Dov’è il Signore Risorto in questo momento?”; “Pascolare un gregge significa dargli un recinto funzionante o portarlo ai verdi pascoli?”).
Metodologicamente non so che genere di destinatari avesse in mente l’autore dei due documenti, ma ho avuto la percezione di uno standard mediamente basso.
Alcuni contenuti mi sono sembrati discutibili. Un primo contenuto compare nella scheda, dove si afferma che “il Signore, in tutto questo tempo, ci ha dato una formidabile occasione di rinnovamento saltando lentezze e passaggi farraginosi: accogliamola!” (il grassetto è nel testo). Per quanto sia chiaro il fatto che nessuno trovi nella pandemia un riflesso della volontà divina, a mio avviso non viene sufficientemente evidenziato che le occasioni di rinnovamento che il Signore ha dato alla Chiesa di Roma sono state molte e per nulla farraginose (Concilio e Sinodo, solo per citare le due ultime più grandi) mentre la pandemia costringe a considerare che i ritardi accumulati nel passato urgono oggi la necessità di rapide iniziative.
Un secondo contenuto compare nell’allegato dove si scrive che “interpretare noi stessi e la realtà in cui siamo immersi non consiste nel raccogliere dati statistici, ma nell’entrare nello stesso sguardo con cui Dio guarda le cose”. I dati statistici non interpretano, per definizione, semmai pongono domande e “fotografano” noi stessi e la realtà in cui siamo immersi e che aiutiamo a divenire, e sono solo uno dei molteplici strumenti a nostra disposizione. Anche le domande (24 domande!) del testo vorrebbero fissare la “fotografia” di pensieri e di sensazioni di chi legge. Se non abbiamo chiara la “fotografia” da interpretare, hai voglia ad avere lo “stesso sguardo con cui Dio guarda le cose”! Si rischia di fare voli pindarici con la nostra fantasia.
Altri contenuti mi sono apparsi molto appropriati e stimolanti. In generale ho trovato positivo il tenore con il quale si spinge ad una riflessione di senso: “Non è affatto scontato che si debba ritornare a fare tutti ciò che facevamo prima”, scrive il Vicario Generale l’11.05.2020. E rivolgendosi al clero con la consueta enfasi il 25.05.2020 cerca in sostanza di ricordare il Vangelo: “Noi pastori siamo certamente chiamati ad essere uomini impregnati di Spirito Santo per continuare ad «ungere» il Popolo con quell’olio denso e sano di cui ha davvero bisogno, olio che guarisce, rafforza, illumina ed indica la strada da percorrere insieme”. Fatta la tara del tono un po’ paternalistico e l’abbondante ricorso a metafore da decifrare, guarigione, forza, luce, sinodalità sono altrettante vie evangeliche nelle quali ogni battezzato svolge il suo ruolo, ruolo che per i ministri ordinati è probabilmente da riprogettare.
Quest’ultimo argomento è stato anche oggetto di “fraterne chiacchierate” tra preti il giorno 30.05.20, quando, in occasione della festa di Santa Dinfna presso la SRP Samadi, il Vescovo Libanori si è trattenuto a pranzo insieme a d. Bortolotti, d. Dello Iacovo, d. Matichecchia, d. Quinzi e d. Tavolacci. Ritengo quindi si sia interpretato correttamente il senso delle parole del Vicario Generale che invitava a “condividere con altri presbiteri, in piccoli gruppi del tutto spontanei e informali, quanto emerso nella preghiera”. Sempre restando fermi nella distinzione tra lo stile della “condivisione spirituale”, feconda di comunione ecclesiale e pastorale, e lo stile dei “gruppi di auto mutuo aiuto”, di cui evidentemente anche i preti hanno bisogno, come evidenziato al Vescovo Libanori, con le posizioni del quale mi sembra di poter riconoscere una certa sintonia.
La premessa delle mie riflessioni è di carattere personale. Ho quasi 60 anni, 30 di ministero. Nella migliore delle ipotesi, se Dio concede vita e salute, ho davanti a me meno ministero attivo e con minori forze di quello trascorso, una quindicina di anni al massimo. Quindici anni non sono un orizzonte umano nel quale introdurre trasformazioni radicali e goderne i risultati. Come ho ricordato nel nostro incontro osservando i monti all’orizzonte del panorama, io “vedo” la Chiesa come sarà, ma sono sicuro che non la raggiungerò. Ciò vale per molti altri tra noi.
Peraltro il rinnovamento ecclesiale, l’obbedienza allo Spirito, non è un dato magico e infallibile. A frenare il rinnovamento ecclesiale possono contribuire molti fattori. Non c’è solo il classico “Si è fatto sempre così” o “Questo ha funzionato, perché cambiare?”. Può subentrare lo scoramento davanti ad un’opera che non tutti vedranno compiersi (“Chi me lo fa fare?”). Esistono poi resistenze interne sotto le spinte di un tradizionalismo (“La vera Chiesa è quella del passato”) che non esito a definire cancro ecclesiale al pari del suo reciproco, il modernismo (“La vera Chiesa è quella del futuro”). Non da ultimo si ritrovano immagini quantomeno impoverite dell’identità ecclesiale, poco nutrite dall’insegnamento conciliare.
Tra i tanti argomenti oggetto di riflessione e di preghiera in questo tempo, tre intendo brevemente condividerli qui. Un primo riguarda l’identità del sacerdote diocesano, un secondo il rapporto tra la Chiesa e la società civile, il terzo la Pastorale della Salute.
Identità del sacerdote diocesano
Sono certo che la pandemia abbia prodotto in molti sacerdoti un senso di frustrazione, a mio avviso almeno per due ordini di motivi. La pandemia: (1) ha messo in evidenza che la società civile e persino la comunità religiosa non possono fare a meno di interventi politici e sanitari ma possono fare a meno del ministero cultuale dei preti; (2) ha messo in evidenza il forte ritardo, per non dire la quasi totale assenza, dei ministri ordinati rispetto alla contemporaneità, nel senso di mezzi di comunicazione, di luoghi di relazione, di linguaggi.
La mia posizione è che sia necessario che il sacerdote diocesano ricuperi la sua intrinseca indole secolare. Tra un prete quasi monaco (per mentalità e stile di vita) e un prete secolarizzato (che si è arreso alla mondanità) esistono mille sfumature di identità e di prassi. Ma la qualificazione “diocesana” del prete, strumentale al suo servizio ministeriale, ha finito per oscurare e far dimenticare la sana dimensione “secolare” del prete, cioè quella costitutiva del servizio hic et nunc alla persona umana e alla comunità ecclesiale, quest’ultima non più identificabile sic et simpliciter con la società umana.
Nei fatti è possibile osservare che durante il lockdown i preti che meno hanno sofferto di carenze pastorali sono stati quelli il cui ministero non è stato in prevalenza occupato da compiti rituali e clericali, e che hanno saputo sviluppare relazioni umane al di là dei pur importanti valori sacramentali. Ma se anche non fosse possibile nella pratica reinventare un modello secolare di sacerdote diocesano in tempi ragionevoli, già sarebbero grandi conquiste per i prossimi quindici anni: (1) non alimentare nei preti regressioni adolescenziali con nostalgie di vago sentore seminaristico; (2) corresponsabilizzare maggiormente i preti cooptandoli in gruppi di lavoro tematici; (3) rivedere il modello di governo e di gestione delle comunità parrocchiali.
Rapporto Chiesa e società civile
Una felice intuizione della scheda di lavoro pone in evidenza che il mondo “ha bisogno che tutti, cristiani e uomini di buona volontà, collaborino insieme per superare questa fase ed aprire il varco ad una stagione nuova della nostra società”. Poco prima ha affermato che ha bisogno di Vangelo, ma ciò vale per tutti, a cominciare dai cristiani, che in questo senso non sono “distanti” dal mondo.
La condivisione da parte dei cristiani con tutto il genere umano di gioie e speranze, di dolori e sofferenze, tema che ha ispirato la Gaudium et Spes, rinnova alla Chiesa della pandemia la visione pastorale che il Concilio ha offerto al Popolo di Dio, quella di una Chiesa collaborativa.
Non è detto che la Chiesa debba specializzare proprie strutture, più o meno appoggiate dalla Gerarchia, per svolgere la sua azione nel mondo: l’associazionismo ecclesiale è importante, ma corre il rischio di trasformarsi in un ghetto.
Sono dell’avviso che lo stile ecclesiale vincente per il terzo millennio sia quello di comunità cristiane alleate con tutte le persone di buona volontà, indipendentemente dalla fede religiosa. Riconoscendo che il bene ha una Sorgente comune unica, affiancarsi ad Istituzioni, Associazioni, Enti, realtà di volontariato prestando in modo disinteressato la propria leale collaborazione è una forma di “inculturazione” del Vangelo, nel quale si ritrova tutta l’umanità, anche quella critica verso la Chiesa!
In questo senso la collaborazione può diventare fattiva pure vincendo alcuni scandali, come – per esempio – quello sul quale già in passato mi sono espresso: se la Chiesa, i sacerdoti, intendono dare un contributo alla società italiana (i loro fedeli…) dovrebbero rinegoziare i termini del Fondo di Previdenza del Clero (INPS), che è in passivo (cioè deve essere integrato dalla fiscalità generale) in quanto eroga più pensioni rispetto ai contributi versati. Sarebbe un bel segnale evangelico se il clero italiano trovasse il modo di non pesare sulle finanze dello Stato italiano, favorendo realmente i suoi fedeli…
Pastorale della Salute
Prendo spunto da un paio di titoletti della scheda di lavoro (tempo di reimpostare la rotta… accogliamo questa occasione di rinnovamento…) per tornare su temi della Pastorale della Salute sui quali già mi sono espresso in passato e che vorrei riproporre.
- Tempo di segni forti. Sarebbe opportuno rinunciare da parte della Diocesi ad alcuni diritti dei Cappellani (e non solo…) che potrebbero farli apparire privilegiati rispetto ad altre categorie di persone (cfr GS 76): stipendi e rimborsi spese da parte degli enti presso cui si svolge servizio, per esempio, liberando risorse da impiegare per i bisogni dell’ente stesso, che sono volti alla salute e al lavoro di persone che sono al tempo stesso fedeli della Chiesa.
- Tempo di revisione delle strutture. Banalmente, un esempio: il servizio della Pastorale della Salute si inquadra per settori geografici ricalcando lo schema diocesano, senza considerare che i confini delle ASL (quindi personale, organizzazione territoriale, servizi offerti… possibilità di incontro…) si sono radicalmente trasformati nel tempo. Pensare il Cappellano in termini di “addetto al servizio religioso collegato alla Cappella collocata in una determinata struttura sanitaria” non rispecchia più né il senso di “pastorale della salute” né la realtà della sanità pubblica.
- Tempo di revisione dei metodi pastorali. Impossibile nel medio/lungo periodo sostenere una pastorale della salute con gli stessi ritmi attuali. Occorre ripensarla in termini di unità pastorali di più sacerdoti che prestano servizio in più strutture, con la partecipazione di diaconi e di incaricati di altre confessioni religiose (perché i malati non sono solo cattolici e l’ecumenismo non si fa solo a gennaio, e soprattutto molti malati guariscono e tornano alle loro occupazioni quotidiane…).
- Tempo di revisione di stili ecclesiali. Penso sia definitivamente concluso il tempo di rivendicare posizioni di rendita. Mettersi al servizio significa che il Vescovo Delegato, insieme ai Prefetti della Pastorale della Salute e ai Prefetti dei vari Settori, dovrebbe andare in ginocchio dai Direttori Sanitari e dai Dirigenti delle ASL, pregandoli di dire alla Chiesa di Roma di cosa hanno bisogno e cosa può fare la comunità cristiana per loro, per il loro personale, per i pazienti, nei luoghi di cura e una volta dimessi. E poi evidentemente farlo. Al tempo stesso non sono i Cappellani a dover chiedere ai Parroci di prestar loro attenzione, ma i Parroci dovrebbero supplicare l’umanità sofferente e chi se ne prende cura di poter fare qualcosa per loro.
- Tempo di collaborazioni nuove. Dobbiamo smetterla di pensare la pastorale come ad una forma applicativa di sacramentalizzazione. Ci sono persone e organizzazioni che annunciano meglio di noi la buona notizia dell’amore di Dio senza celebrare i sacramenti e con più credibilità. La Chiesa non è una ONG? Vero. Ma non è nemmeno un network televisivo, però c’è TV2000; non è una radio, ma c’è Radio Maria, non è internet ma ci sono le Messe su youtube. Non vogliamo essere diversi da noi, ma questo non ci deve impedire di collaborare anche con chi è diverso da noi, in particolare con quanti sono al servizio della salute e dei malati.
Per ciò che nello specifico attiene alla salute mentale, riporto alcuni passaggi della sintesi di un incontro avuto col Vescovo Ricciardi l’11.11.19:
- La base di partenza per una corretta impostazione della pastorale della salute mentale deve tenere conto di due prospettive:
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- non tutti i malati psichiatrici sono poveri, ma la maggior parte dei poveri sono malati psichiatrici; disagio psichico e povertà sono strettamente correlati tra di loro, perciò una valida azione di promozione e prevenzione della salute mentale ha effetti anche sulle condizioni sociali (comunitarie) delle persone;
- la visione di fondo della promozione e prevenzione della salute mentale coinvolge l’equilibrio della persona sotto tre punti di vista: equilibrio fisico, equilibrio psichico e equilibrio spirituale; su quest’ultimo la comunità cristiana ha più di una parola da dire.
- Per quanto riguarda il coinvolgimento delle Parrocchie, in considerazione della loro presenza capillare sul territorio, una loro funzione fondamentale sarebbe quella della prossimità con le famiglie di persone con disagio psichico, spesso impossibili da raggiungere attraverso le strutture pubbliche e di presa in carico del loro sostegno concreto e umano.
- Vi è da evidenziare che le medesime comunità parrocchiali sono perfettamente in grado di assumersi l’impegno di garantire nel loro territorio la presenza di almeno un gruppo appartamento (appartamento affittato a 3/4 persone con disagio psichico con elevato grado di autonomia, spesso però rifiutate dal contesto sociale e/o bisognose di integrazioni economiche).