Quale grande amore
Questo articolo è la meditazione dettata durante un corso di Esercizi Spirituali. Per il corso completo e il download dei testi clicca qui.
Preghiamo
O Dio, che ci chiami a celebrare nella fede la risurrezione del tuo Figlio, fa’ che possiamo rallegrarci con lui insieme ai tuoi santi nel giorno della sua venuta. Tu vivi e regni per sempre. Amen.
Dalla persona all’azione
Con questa meditazione conclusiva intendo dare qualche spunto di riflessione continuando ad interrogarci intorno al senso delle parole dell’omelia agli Ebrei dalle quali è tratto il tema degli Esercizi: ἀφορῶντες εἰς τὸν τῆς πίστεως ἀρχηγὸν καὶ τελειωτὴν Ἰησοῡν, fisso lo sguardo su Gesù “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento”.
Molti di noi ricorderanno che nella precedente traduzione si diceva che Gesù era “l’autore e il perfezionatore della fede”. Così ancora oggi leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica nn.147; 165. Ovviamente il senso è lo stesso: riconosciamo in Gesù la fonte e il culmine della fede. Mentre però la traduzione precedente sembra mettere maggiormente l’accento sulla persona di Gesù in quanto autore e perfezionatore, nella traduzione attuale cogliamo in modo specifico le azioni che Gesù compie, quelle di dare origine e portare a compimento la fede.
Così ora possiamo continuare a tenere fisso lo sguardo su di lui, sul Signore Gesù, osservandolo mentre opera, mentre agisce rispetto alla fede.
In principio era il Verbo
Il termine ἀρχηγὸν (“archegòn”) tradotto come “colui che dà origine” (“autore”) contiene un importante riferimento lessicale al suo interno. Infatti il greco ἀρχὴ vuol dire “principio”, “origine” e si tratta di una parola di non poco conto nella Bibbia. Infatti il libro della Genesi si apre con essa: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). Con questo accento la creazione di Dio si colloca come un principio temporale. Curiosamente, però, l’espressione ebraica Be-Reshith (בראשית in ebraico) non solo può essere resa con “in principio” ma può anche voler dire “il Principio”. Perciò non pochi commentatori ebrei pensano che l’espressione debba suonare come: “Il Principio creò il cielo e la terra”.
Di quale “Principio” si tratta? La tradizione rabbinica ritiene che tale Principio sia la Sapienza di Dio, espressa in modo intellegibile agli uomini come Torah (Legge). Rileggiamo il Salmo 104,24: ”Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con sapienza, la terra è piena delle tue creature”. Quindi Dio crea tutto ciò che esiste “consultando” la sua Torah; come per l’architetto un progetto così fu la Torah per Dio. La tradizione ebraica è concorde nell’indicare nella Torah la manifestazione della “logica” divina, il suo “pensare” e il suo “agire” in favore del suo popolo Israele. Questi non è privo di guida perché la Torah lo fa essere un popolo privilegiato (Dt 14,2) rispetto a tutti gli altri popoli.
L’evangelista Giovanni conosce bene tutta la densità di significato che la tradizione ebraica attribuisce alla Torah e quel sottile riferimento al “Principio” che ha creato tutte le cose. Allo stesso tempo ha incontrato il Cristo e ha potuto fare una radicale esperienza di quanto altri, prima di lui, potevano solo immaginare o sperare. Perciò leggiamo nel suo vangelo l’interpretazione “autentica” della Genesi, proprio all’inizio (1,1), quasi una “nuova” Genesi.
In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Non possiamo giocare con le parole della Parola di Dio, ma sappiamo bene che l’insegnamento della Tradizione e del Magistero ha raccolto senza difficoltà nelle parole di Giovanni la tradizione e l’insegnamento ebraico. La Sapienza di Dio, il suo Logos, è il Principio dal quale ha origine la creazione ed è il Principio dal quale ha origine la “nuova creazione”.
Tenendo fisso lo sguardo su Gesù vediamo che la sua prima azione è un’opera creativa. Ci rendiamo conto che mentre diciamo con le parole del Simbolo di credere in Dio Creatore, non possiamo fare a meno di includere anche il suo Verbo. Infatti “per mezzo di lui tutte le cose sono state create” (Simbolo niceno-costantinopolitano). A Nicea, dove venne introdotta questa formula nel 325, si discuteva principalmente sulla divinità di Gesù. Affermando che egli ha partecipato in qualche modo alla creazione si intendeva confermare la natura divina del Figlio.
Professare la fede in un Dio creatore e creativo implica risvolti spirituali e morali non indifferenti nei credenti. La “creatività” di Dio, infatti, obbliga a ripensare molti dei nostri schemi mentali, accettando che l’inesauribile vitalità del Verbo orienti la nostra vita verso la vita e non verso la morte. Ritengo sia compito del fedele interrogarsi e dare risposte su quanto nella società umana appartenga ad una cultura di morte e vada in qualche modo ri-orientato. Dalla difesa della vita nascente a quella della anzianità e della malattia, dall’accudimento dell’ambiente e delle creature che insieme con noi lo occupano a quella della giusta ridistribuzione delle risorse, dall’assunzione di uno stile di vita sobrio ad un uso solidale della ricchezza, per non parlare delle nostre comunità ecclesiali dove la vitalità stessa della fede può essere messa a repentaglio da comportamenti superficiali e irresponsabili di pastori, religiosi e laici: non c’è campo dell’agire umano nel quale un fedele non possa incontrare sfide che lo obblighino a seguire con creatività il Verbo della vita nella sua opera creativa.
Nuova creazione
Nell’Apocalisse di Giovanni ritorna il tema del “Principio”, con una speciale autopresentazione di Gesù: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine”(Ap 22,13). Questa presentazione giunge non propriamente nelle prime pagine del libro, ma verso la fine. La visione di Giovanni si fa complessa, sembra proiettarsi verso il futuro, in realtà l’immagine è viva e presente, ma appartiene ad un’ordine completamente diverso dal precedente.
Il Verbo, che è “Principio” alla base della creazione “in principio”, si dilata ed espande la sua opera creativa fino alla “nuova creazione” “alla fine”.In modo originale Gesù si presenta come “Principio” solo alla fine, solo quando tutto è stato “compiuto”, realizzato nella nuova creazione. Di essa parla esplicitamente proprio l’Apocalisse (21,1): “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più”. La “rivelazione” giovannea si colloca a metà strada tra qualcosa già avvenuto (“risurrezione”) e qualcosa che deve ancora venire (“escatologia”, gli ultimi eventi). Quel che lui “vede” è una realtà nuova già creata in procinto di manifestarsi ma ancora non pienamente compiuta.
Ed è al tempo stesso una realtà totalmente spirituale e completamente materiale. In ciò non è improprio trovare l’eco della predicazione del Signore intorno al “regno dei cieli”, mostrato già presente e ancora da realizzarsi. Infatti il Signore, che ha inteso creare l’umanità senza la partecipazione dell’uomo, pare intenzionato ad operare una “nuova creazione” solo con la collaborazione dell’uomo. In questa direzione possiamo rileggere persino il salmo 127,1: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”. Dio e uomo appaiono indissolubilmente legati nella realizzazione dell’unico progetto di convivenza e di familiarità e questo progetto appartiene e coinvolge molto da vicino la Chiesa (cfr LG 1: “La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano ”).
A questo punto c’è da chiedersi quale sia la condizione perché l’opera di costruzione non sia destinata al fallimento. Una parabola piuttosto dimenticata, ma la cui lettura viene consigliata guarda caso proprio in occasione della celebrazione del sacramento del matrimonio, ce lo ricorda:
Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande (Mt 7,21-27).
Non intendo fare un’esegesi puntigliosa di questa pericope, già da sola particolarmente eloquente. Voglio solo sottolineare il doppio avvertimeno che proviene dal Signore: 1) entrerà nel regno dei cieli chi compie la volontà del Padre e 2) l’uomo saggio ascolta le parole del Signore e le mette in pratica. La “nuova creazione” è un atto creativo e collaborativo di Dio insieme al credente, atto che si fonda sulla roccia di Cristo, sul suo insegnamento, sul suo esempio, sulla sua redenzione; da lui ha “inizio” la costruzione del regno dei cieli, e insieme a lui i credenti si nutrono della volontà del Padre.
Esperienza di gioia
Il tema del “Principio” è molto caro all’Apostolo Giovanni che non perde occasione per tornare a sottolinearlo in ogni suo scritto. Prendiamo per esempio la sua prima lettera (1Gv 1,1-4):
Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi),quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
In questa citazione troviamo espressi un gruppo di temi che abbiamo cercato di riflettere nel corso delle passate meditazioni: ciò che abbiamo udito (l’ascolto), ciò che abbiamo veduto (la visione), ciò che abbiamo contemplato (la contemplazione dei cieli aperti), ciò che abbiamo toccato (la corporeità e la sua importanza), di ciò rendiamo testimonianza (la verità). Giovanni spiega quel “ciò” come “il Verbo della vita”; forse potremmo tradurre anche, senza peccare d’infedeltà al significato del greco Logos, “la Ragione Ultima della vita”, “la Logica della vita”, “il Progetto della vita”. Giovanni vuole rassicurare chi legge: non sto raccontando esagerazioni – sembra dire –, favole artificiosamente inventate (cfr 2Pt 1,16) e cose incredibili, dal momento che sono in comunione con il Padre e con il Figlio almeno quanto lo siete voi.
Da quale sospetto deve difendersi Giovanni? Cosa ci sarebbe di tanto incredibile che potrebbe risultare inaccettabile ai suoi ascoltatori? “Ciò” che annunzia è davvero tanto sconvolgente?
Intanto c’è da dire che la ragione per la quale Giovanni scrive “queste cose” è per infondere gioia nei suoi lettori. Il credente di sicuro non può comportarsi da musone. È destinatario e latore di una lettura gioiosa della vita. Ripenso alle parole profonde e semplici di Paolo VI che nell’anno santo 1975 sente la “felice necessità” di indirizzare ai fedeli un’esortazione apostolica sulla gioia cristiana e nello Spirito Santo, Gaudete in Domino:
Ci sarebbe bisogno di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali. Molto spesso partendo da queste, il Cristo ha annunciato il Regno di Dio (I).
I credenti sono in cammino “come Cristo” e sulla sua via comprendono l’importanza di annunciare il Regno di Dio come regno di gioia e beatitudine. Il Papa molto sapientemente osserva che il cristiano, condividendo la condizione creaturale nella quale Dio ha già disseminato “molteplici gioie”, deve essere “uomo capace di gioie naturali”.
Il Papa insiste però che occorre andare oltre:
Il tema della presente Esortazione va ancora oltre. Perché il problema ci appare soprattutto di ordine spirituale. È l’uomo, nella sua anima, che si trova sprovvisto nell’assumere le sofferenze e le miserie del nostro tempo. Esse lo opprimono quanto più gli sfugge il senso della vita; non è più sicuro di se stesso, della sua vocazione e del suo destino, che sono trascendenti. Egli ha desacralizzato l’universo ed ora l’umanità; ha talora tagliato il legame vitale che lo univa a Dio. Il valore degli esseri, la speranza non sono più sufficientemente assicurati. Dio gli sembra astratto, inutile: senza che lo sappia esprimere, il silenzio di Dio gli pesa. Sì, il freddo e le tenebre sono anzitutto nel, cuore dell’uomo che conosce la tristezza(I).
Con estremo acume e senso della realtà Paolo VI osserva che di fronte ad alcune condizioni di sofferenza e di miseria gli uomini sembrano incapaci di reagire e soprattutto di aprirsi alla speranza; avendo abbandonato Dio sono molti coloro che conoscono la tristezza. Benedetto XVI direbbe: vagano nel deserto. Dunque come sperare di essere testimoni gioiosi del vangelo? Paolo VI indica più avanti chi è l’artefice della gioia cristiana e come essa si diffonda:
Lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, dei quali egli è il reciproco amore vivente, è comunicato d’ora innanzi al Popolo della nuova Alleanza, e ad ogni anima disponibile alla sua azione intima. Egli fa di noi la sua abitazione: dulcis hospes animae. Insieme con lui, il cuore dell’uomo è abitato dal Padre e dal Figlio. Lo Spirito Santo suscita in esso una preghiera filiale, che sgorga dal più profondo dell’anima e si esprime nella lode, nel ringraziamento, nella riparazione e nella supplica, Allora noi possiamo gustare la gioia propriamente spirituale, che è un frutto dello Spirito Santo: essa consiste nel fatto che lo spirito umano trova riposo e un’intima soddisfazione nel possesso di Dio Trinità, conosciuto mediante la fede e amato con la carità che viene da lui. Una tale gioia caratterizza, a partire di qui, tutte le virtù cristiane. Le umili gioie umane, che sono nella nostra vita come i semi di una realtà più alta, vengono trasfigurate. Questa gioia, quaggiù, includerà sempre in qualche misura la dolorosa prova della donna nel parto, e un certo abbandono apparente, simile a quello dell’orfano: pianti e lamenti, mentre il mondo ostenterà una soddisfazione maligna. Ma la tristezza dei discepoli, che è secondo Dio e non secondo il mondo, sarà prontamente mutata in una gioia spirituale, che nessuno potrà loro togliere (III).
Trovare riposo e intima soddisfazione nel possesso di Dio, conosciuto per la fede e amato con la carità: tale si configura la gioia cristiana, la gioia dei figli. Gioia incontenibile al punto da non potersi restringere al solo ambito, per quanto esteso, dei credenti.
La gioia ampia e profonda, che fin da quaggiù si diffonde nel cuore dei veri fedeli, non può che apparire «diffusiva di sé», proprio come la vita e l’amore, di cui essa è un sintomo felice. Essa risulta da una comunione umano-divina, e aspira a una comunione sempre più universale. In nessun modo potrebbe indurre colui che la gusta ad una qualche attitudine di ripiegamento su di sé. Essa dà al cuore un’apertura cattolica sul mondo degli uomini, mentre gli fa sentire, come una ferita, la nostalgia dei beni eterni (IV).
Così mentre ad essere beneficati da questa gioia sono anzitutto i credenti essa non lascia spazio ad alcun ripiegamento egoistico, perché i veri destinatari sono il popolo, anzi tutti gli uomini.
Ci chiamiamo figli di Dio
Avevamo chiesto poco sopra: da quale sospetto deve difendersi Giovanni? “Ciò” che annunzia è davvero tanto sconvolgente? Penso che sia il momento giusto per dare una risposta appropriata. Peraltro non dimentichiamoci nemmeno di aver rimandato a qualche successiva meditazione l’argomento dell’amore, dicendo che la carità si lega alla questione della fede in modo inscindibile e la supera: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1Cor 13,13).
Il momento giusto per parlarne ci viene offerto sempre dall’Apostolo Giovanni nella sua lettera (1Gv 3,1-3), nella quale fa sintesi tra l’esperienza gioiosa dell’amore con l’apertura alla speranza e l’aspirazione alla purezza. E in tale sintesi annuncia quel che sembrava tanto inverosimile, una figliolanza che non è solo “per dire” (“essere chiamati”) ma è reale già da ora per quanto non ancora completamente visibile.
Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
La figliolanza annunziata da Giovanni riesce davvero ad essere sconvolgente. Essa si presenta come una similitudine forte, più forte di quella adamitica (cfr Gn 1,26). Infatti la somiglianza a Dio nella “nuova creazione” si fonda non tanto sulla volontà di Dio di dare all’uomo una forma appropriata per entrare in relazione con lui, ma sulla visione di Dio “così come egli è”, visione che è capace di divina trasformazione, di “divinizzare” l’uomo.
Così Stefano: mentre la sua fede era arrivata a pienezza, mentre lui la confessava davanti agli uomini, mentre i cieli si aprivano e lui poteva finalmente contemplare Dio così come egli è, nella gloria della sua rivelazione, della sua presenza dentro la storia umana, della sua creatività ed azione incessante, della sua vitalità, nella presenza alla sua destra del Figlio di Adamo, il Giusto e Signore, mentre accadeva tutto questo “videro il suo volto come quello di un angelo” (At 6,15).
Che il Signore voglia trasfigurare il nostro volto a immagine del suo volto glorioso!
Il Principio e la Fine
Ricordiamo che il tema degli Esercizi ci presenta la figura di Gesù come colui che “porta a compimento” la nostra fede. Come già il termine greco ἀρχηγὸν faceva pensare al “principio”, così il termine τελειωτὴν lascia filtrare il concetto di “fine”. Ed infatti troviamo sulle labbra di Gesù crocifisso l’annuncio della conclusione della sua missione: “Tutto è compiuto (τετέλεσται, tetèlestai)!” (Gv 19,30). Quello che l’italiano traduce con tre parole, in greco è una sola.
Quell’unica parola pronunciata al momento della morte indica che non vi era altro da aggiungere. Tutto ciò che compariva nel progetto iniziale, ciò che i profeti hanno annunciato, ciò che è scritto nella Legge e ciò che era volonotà di Dio Padre, la missione salvifica del Figlio, l’annuncio della buona notizia, la prossimità del Regno: tutto è compiuto, tutto ha raggiunto la fine.
Riprendiamo tra le mani il passaggio conclusivo dell’Apocalisse che abbiamo cominciato a leggere poco sopra (22,13-16).
Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine.
Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città.
Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna!
Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino”.
Gesù si presenta come colui che “totalizza la Parola”, prima ed ultima lettera dell’alfabeto greco; come colui che “totalizza i Numerabili”, primo ed ultimo di una serie (mi piace ricordare che nella Torah esiste il libro dei Numeri; che gli evangelisti Matteo 1,1-17 e Luca 3,23-38 narrano la genealogia di Gesù; che l’omelia agli Ebrei 11 enumera coloro che hanno creduto); come colui che “totalizza Causa e Fine”. In Gesù davvero “tutto è compiuto”, nulla rimane fuori del suo abbraccio pieno di misericordia e di compassione, nulla resta senza voce e senza risposta, né le gioie né le speranze, non le tristezze non le angosce (cfr GS 1).
Con il suo linguaggio fortemente evocativo l’Apocalisse esprime una beatitudine relativa a coloro che “lavano le loro vesti”, chiaro riferimento a quanto apparso in precedenza nella visione dell’apostolo, il corteo degli uomini (cfr 7,9) con vesti rese candide dal sangue dell’Agnello (cfr 7,14). Di sicuro possiamo leggere una molteplicità di significati in un gesto così carico di simbolismo. Ma in questo momento siamo spinti a riflettere su di un significato in particolare. Cioè su quanto sia indispensabile per l’uomo riconoscere che in Gesù “tutto è compiuto”: è compiuta una rivelazione, è compiuta l’umanità con il susseguirsi delle sue generazioni, è compiuto il senso dell’esistenza e della vita. E quanto possa essere difficile per molti svestire i panni della propria autosufficienza, una potente metafora per indicare che le difese umane di solito accettate dalla nostra intelligenza risultano così insufficienti nella logica divina dell’uomo divinizzato. Difese di razionalità, difese di benessere, difese di affettività, tutto quanto si pensa che possa “difenderci” dagli sguardi smaliziati e poco indulgenti degli altri.
Se in Cristo “tutto è compiuto”, e tale compimento avviene nella logica divina dell’Agnello immolato, questo significa che nulla è più potente della spoliazione e della rinuncia (cfr Fil 2,5-11) per conseguire la beatitudine del possesso e della vittoria: “Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città”; ma beati anche i poveri, i miti, i puri di cuore, i misericordiosi, i perseguitati (cfr Mt 5,3-11). Gesù porta a compimento la fede, e potremmo anche aggiungere, termina il suo cammino umano quando non ha più nulla da difendere, nemmeno la vita, né per difendersi, nemmeno dalla morte, ma è definitivamente e completamente abbandonato nelle mani del Padre.
C’è da dire, mentre il compimento è già in atto, che dal versante dell’esperienza umana fissando lo sguardo su Gesù e cogliendo la distanza sia temporale sia spaziale tra noi in cammino e lui alla destra del Padre la voce degli angeli risuona nel nostro animo come un canto: “Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11). La Chiesa vive nell’attesa che il “compimento” della sua fede raggiunga nel tempo e nell’eternità la sua dimensione definitiva, quella del ritorno glorioso del Figlio “quando tutto gli sarà stato sottomesso, [e] anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti ” (1Cor 15,28).
Così, nello stupore di un amore che ci ha eletti figli, durante questo tempo di attesa creativa le parole conclusive dell’Apocalisse (22,17.20-21) sigillano la fede che da Gesù ha avuto il suo inizio e in Gesù il suo compimento:
Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita.
Colui che attesta queste cose dice: “Sì, verrò presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù.
La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!