Vi lascio la pace
Esercizi Spirituali – Figlie della Chiesa, Domus Aurea, Ponte Galeria (RM)
Omelia della VI domenica di Pasqua
Siamo accolti dal giorno del Signore, accogliamo il giorno del Signore!
Ci sono molte somiglianze tra lo shabbat ebraico e la dies dominica cristiana. Per esempio entrambi sono giorni di festa. Entrambe sono feste religiose. La radice di fede è comune. Si potrebbe continuare, ma ci fermiamo perché voglio invece sottolineare alcune differenze di non poco conto che passano tra i due giorni.
La prima grande differenza che osserviamo tra lo shabbat ebraico e la dies dominica è nel significato stesso del nome. Shabbat proviene dal verbo ebraico lishbot (לשבות) che letteralmente significa smettere. Dio interruppe ogni attività nel giorno di sabato. Dies Dominica diventa un giorno di nuova creazione, nessuna inattività, al contrario nuova forza vitale.
La seconda differenza è che lo shabbat fa parte del ciclo della settimana. Dio riposò il settimo giorno che lui aveva creato e così anche l’uomo. Dio condivide il tempo dell’uomo. La dies dominica, invece, esce dalla settimana, supera il sabato, è un giorno posseduto da Dio, è suo. E l’uomo può condividere il tempo di Dio.
La terza differenza è che la celebrazione dello shabbat è stata comandata da Jahvè. Al rispetto assoluto di questo comando il popolo di Israele associa la consapevolezza di rendere culto a Dio. La celebrazione della dies dominica non è stata comandata da Gesù. Il Signore non ha comandato esattamente di celebrare e santificare un giorno della settimana, ma ha comandato ai suoi discepoli, semmai, “Fate questo in memoria di me“. Ha comandato l’eucaristia. Ha comandato l’amore fraterno. La comunione. L’unità. Il soccorso del povero. L’accoglienza dello straniero. Il discorso della “santificazione del tempo” nella preghiera comunitaria è successivo, secondario, proviene dall’esperienza materna della Chiesa. Sarebbe alquanto strano se un credente rispettasse il precetto della Chiesa celebrando la messa domenicale e poi si astenesse dall’amore o dalla comunione o dall’attenzione al bisognoso. Questa sarebbe autentica contraddizione della volontà del Signore, al punto che sarebbe difficile far riconoscere il volto di Cristo in una comunità autocelebrate e distratta dai compiti assegnatigli da Gesù.
Con il popolo di Israele, la Chiesa, nuovo popolo di Dio, condivide la certezza che shabbat e dies dominica provengono da lui come un dono. Mentre però lo shabbat è festa a sé, non ha legami con altri giorni santi del calendario ebraico, la dies dominica trova la sua collocazione e il suo senso solo nella prospettiva della Pasqua del Signore Risorto. Il giorno del Signore è giorno di risurrezione. Tanto più importante poi se collocato in quel tempo liturgico che ci fa rivivere la cinquantina in attesa dell’Ascensione del Signore e della venuta dello Spirito Santo. Il Concilio di Nicea (325) aveva addirittura stabilito che in questo periodo fosse proibito pregare in ginocchio e fare penitenza!
La dies dominica ci accoglie come sempre, oggi in modo forse speciale. Stiamo celebrando una settimana di Esercizi Spirituali, stiamo chiedendo al Signore di illuminarci con la sua gloria. Vogliamo rinnovare la nostra fiduciosa adesione a lui. Qualcuno è scoraggiato, altri possono avvertire il peso e la fatica della propria esperienza umana e cristiana, molti sono sinceramente grati per i doni ricevuti, condividiamo con tutto il genere umano gioie e dolori, successi e fatiche. Tutto portiamo dentro questa dies dominica nella quale siamo accolti affinché il Signore “faccia nuove tutte le cose”.
Dentro questa dies dominica noi veniamo anche glorificati dall’ascolto della Parola di Dio. Deve essere motivo di vanto per i credenti ascoltare il Signore che si rivolge a noi chiamandoci per nome e riservandoci la rivelazione della sua Spaienza. Tra le varie espressioni ne voglio mettere in risalto una che possiede un “sapore” tipicamente pasquale: “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace; non come la dà il mondo“.
Vi lascio la pace. Gesù pronuncia queste parole, ricordate dall’evangelista Giovanni, durante l’ultima cena, dunque prima della risurrezione. Ma tutti gli evangelisti concordano sul fatto che il saluto rivolto dal Risorto ai suoi discepoli è stato: “Pace a voi“. Tale era il saluto in uso presso gli ebrei. Gesù non si discosta dall’abitudine di augurare la pace durante un incontro. E al tempo stesso lascia la pace come eredità ai suoi discepoli celebrando con loro la prima eucaristia.
Conosciamo l’importanza della “pace” nel mondo antico, soprattutto semitico. Ancora oggi, come anche ai tempi di Cristo, il saluto tra gli ebrei è Shalom, pace. Tra gli arabi è Salam aleik, pace a te. Comprensibilmente gli uomini del deserto dovevano apprezzare l’importanza della pace in un ambiente ostile. Un incontro casuale con qualche viandante poteva trasformarsi in un delitto, in un evento di morte sulle strade carovaniere. E le guerre? Ci sono ancora oggi, forse peggiori che nel passato, ma presso popolazioni inermi e indifese, nemmeno costituite come nazione, il terrore del popolo più forte doveva essere paralizzante. Per questo l’augurio e il saluto di pace rappresentava il gesto con il quale si voleva rassicurare l’altro intorno alle proprie intenzioni, e viceversa.
Cosa potevano pensare del Gesù risorto i suoi discepolli? Lui, l’uomo forte tornato alla vita, lui, vero Dio giudicato e condannato dagli uomini, avrebbe perdonato? Avrebbe avuto pietà? Nell’augurio di pace del Signore c’è iscritta tutta la tenerezza e l’autentica superiorità di Gesù-Dio. Questo gesù, tradito persino dai suoi, ucciso in modo infame, ora risorto, non è venuto con intenzioni bellicose, ma pacifiche: pace a voi.
Dobbiamo aggiungere: non è venuto a sottrarre qualcosa ai suoi discepoli, a privarli di quanto essi desiderano di benessere e di felicità. Se oggi a un discepolo dovesse essere chiesta una testimonianza intorno al Gesù risorto, dovrebbe essere capace di rispondere: con la povertà Cristo non è venuto a togliere qualcosa, a condannare l’uomo a privazioni e stenti; con la castità Cristo non è venuto a togliere qualcosa, a soffocare le legittime aspirazioni affettive e gli istinti più umani; con l’0bbedienza Cristo non è venuto a togliere qualcosa, a ridurre l’uomo in una nuova e più subdola schiavitù. E lo stesso vale per la bontà, per le virtù, per la pazienza: Cristo non è venuto a togliere qualcosa all’uomo, ma a realizzarlo compiutamente, ad assicurargli un cammino dello spirito pacifico e pacificante.
Vi lascio la pace, non come la dà il mondo. Se fossimo convinti davvero che il mondo dia una pace autentica, che risolva tutti i conflitti esteriori ed interiori, dovremmo subito lasciare la celebrazione. Dovremmo andar via di qui e trovare un modo rapido per fare molti soldi, dovremmo lottare per la carriera, per trovare posti gratificanti e per raggiungere, anche all’interno delle nostre comunità cristiane, una visibilità e una fama invidiabili, dovremmo preoccuparci di come trascorrere il tempo spensieratamente e di come divertirci. Ma sarebbe una falsa pace, quella che deriva dalle promesse, spesso nemmeno mantenute, del mondo.
Vi lascio la pace. L’eredità pasquale che abbiamo ricevuto come suoi discepoli è la pace. La sua pace. Noi siamo chiamati ad accoglierla sempre, specialmente oggi nella dies dominica che accoglie noi.