La parola di Dio

 

La Parola di Dio,

fonte di luce e di forza

per un itinerario di conversione

personale e comunitario

Relazione

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Domus Aurea

21.7.1998

Ugo Quinzi

Il tema che mi è stato assegnato è decisamente molto stimolante. Nel presentarlo, poi, ho una grande fortuna: parlo alle Figlie della Chiesa, il cui interesse e amore per la Scrittura, per la Parola di Dio è radicato e tangibile. Perciò non sarà necessario in questa sede cercare argomentazioni in difesa dell’ascolto e della contemplazione della Parola; e allo stesso tempo non sarà necessario sostenere e incoraggiare ad attingere alla fonte inesauribile della Scrittura.

Quindi le mie due relazioni terranno conto più che altro di una riflessione intorno alla Parola, vista nella sua dimensione teo-logica e antropo-logica, soterio-logica e pneumato-logica (prima relazione); e nella sua dimensione spirituale e pastorale (seconda relazione).

Parte Prima

Dimensioni Dia-Logiche del Verbo

Sviluppo storico del Verbo

Per riflettere sulla Parola

Il primo punto da mettere in rilievo è senza dubbio il seguente: per riflettere sulla Parola di Dio dobbiamo “parlare”, dobbiamo “parlarne” e dobbiamo “lasciarla parlare”. L’azione mentale per cui riflettiamo è essa stessa parola, e detto ciò possiamo introdurre il concetto di logoV: un termine greco molto conosciuto, il quale traduce, come è noto, tanto il termine italiano “parola” quanto quello di “pensiero”, “ragionamento”. Il quarto vangelo sfrutterà ampiamente la duplice possibilità offerta dal greco per identificare in Gesù di Nazaret il LogoV divino, la Parola e il Pensiero di Dio.

Il fatto di dover parlare per riflettere sulla Parola ci spinge a ricordare che la Parola di Dio fin dall’inizio fu parola pensata, detta, riflettuta. Lo fu per lui, se ci riferiamo al suo LogoV; lo fu per gli uomini se ci riferiamo al processo di trasformazione attraverso il quale la Parola di Dio ha assunto la connotazione di parola umana. La Parola in quanto scrittura, lo sappiamo, è molto più recente. Gli uomini parlavano di Dio e con Dio, e Dio ha parlato agli uomini, molto prima che tutto questo diventasse libro. In un certo senso possiamo dire che esiste un’incarnazione del LogoV che è anteriore a quella di Gesù, è l’incarnazione della Parola rivolta all’uomo in forma umana (cfr Fil. 2,7).

Parlare la Parola come atto comunicativo: l’intelligenza

“Parliamo la Parola” attribuendo a questa azione un valore che si spinge ben oltre il semplice significato del discorrere. La Parola prende corpo attraverso le parole. Dio non ha rifiutato che questo accadesse. Non ha rifiutato, in particolare, di rivestirsi dell’intelligenza umana per farsi conoscere come Dio. In realtà proprio perché l’intelligenza umana, insieme alla volontà, caratterizzano l’immagine e la somiglianza con Dio non era affatto sconveniente che Dio le utilizzasse come strumenti, anzi si potrebbe quasi dire che tali facoltà siano state date all’uomo esattamente per consentirgli di entrare in comunicazione con lui.

Perciò nel nostro “parlare la Parola” si rintraccia una scintilla dell’attività divina di comunicazione; infatti mentre l’intelligenza si sofferma a intus-legere, a leggere dentro, secondo l’etimologia latina, a capire, ad ordinare il senso, si affaccia anche contemporaneamente sul versante della sua divinizzazione. Il “riflettere la Parola”, il “parlare la Parola” è una partecipazione allo stesso LogoV divino, all’intelligenza con la quale Dio attraversa la storia umana “con ogni sapienza e intelligenza” (cfr Ef 1,8). L’atto di comunicazione di Dio raggiunge il suo vertice: la Parola uscita dalla sua bocca torna a lui in modo perfetto, cioè divino, attraverso l’intelligenza umana, operando contemporaneamente la divinizzazione della creatura (cfr Is 55, 11).

Non restare in silenzio, mio Dio”

Con tali premesse facciamo alcune considerazioni:

  1. la Parola è l’attività principale di Dio. È pensiero, è comunicazione di sé, è azione nel creato. E in rapporto a Gesù di Nazaret, è autentica creazione e generazione. Il LogoV divino porta con sé una energia vitale e vitalizzante l’accesso alla quale è immediato, senza condizioni; il LogoV esiste per la comunicazione, e questa azione esige e comporta vita: “non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1).

  2. ogni essere umano è in grado e viene messo nelle condizioni di ascoltare il Dio che parla. Da una parte, infatti, l’intelligenza che ci accomuna e ci rende simili a Dio è il sistema di coordinate entro cui si rende possibile ogni comunicazione, senza la quale l’intelligenza stessa non avrebbe senso; dall’altra risulta inconcepibile una intelligenza che non venga raggiunta dal LogoV divino, il cui atto di esistere è un atto comunicativo. Nessun uomo è sordo alla Parola, né esistono uomini con i quali Dio resta muto: “non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1).

  3. l’esigenza connaturata nell’atto della Parola è una esigenza di intelligenza. Fonte e bersaglio della Parola è l’intelligenza: “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45). Questa pone in movimento attorno a sé l’intero universo delle facoltà umane necessarie a far sì che la Parola, da mera astrazione concettuale, diventi mentalità e comportamento, sia amabile e sensibile, coinvolga in altri termini tutta la persona umana. La comunicazione è un atto secondo cui non entrano in relazione delle “parole” o dei “concetti”, ma delle persone. È un atto personale: “non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1).

Parlare della Parola come atto relazionale: la persona

Abbiamo anche suggerito che della Parola dobbiamo “parlarne”. In effetti giungendo a questo punto siamo in grado di fare altri passi nella prospettiva di portare la nostra attenzione sulla Parola in quanto “personificata”, e dunque carica di valenze etico-spirituali.

Della Parola si può parlare perché il LogoV divino ha una densità ben diversa da tutti gli altri logoi. Superata la prima fase: “Dio parla in un modo o in un altro” (Gb 33,14), prendiamo atto che le parole in Dio sono concentrate in “Parola”, in LogoV. Il “modo” di tale concentrazione noi lo chiamiamo “persona”.

La Parola, infatti, non è riducibile alle “idee” sussistenti fuori del mondo (Platone), né ai concetti astratti di una Mente superiore (Aristotele). Per analogia, nessun “io” umano si può comprimere nell’idea di “uomo” o nei concetti della sua intelligenza. L’atto della Parola, l’affacciarsi sul cosmo di un LogoV divino in atteggiamento di comunicazione, implica l’affermazione dell’“Io” divino in relazione con un “tu”, sia trascendente, sia non trascendente.

E mentre l’atto umano della parola comunica e afferma solo parzialmente la persona umana che lo compie (nessun io umano si ritrova perfettamente nella sua parola), l’atto divino della Parola è perfetto, cioè comunica e afferma integralmente la divinità di Dio. La Parola si manifesta come “soggetto” personale, ovvero non solo come insieme di idee, concetti e strumenti di comunicazione, ma anche come essere-in-relazione, cioè Persona.

L’atto comunicativo di Dio è atto personale sia in rapporto alla Persona divina che lo compie, sia in rapporto alla concentrazione personale che comunica e afferma. In questo senso si può dire che non è improprio “parlare della Parola”. L’intelligenza umana, quando riflette sulla e parla della Parola, compie un atto personale alla cui radice si colloca un altro soggetto in relazione, anzi il soggetto in relazione che è Dio. Parlare della Parola è un “parlare di Dio”.

In principio era il Verbo”

Affermare la Parola, come l’essere-in-relazione di Dio, come Persona, apre la strada a qualche altro pensiero:

  1. l’esperibilità di ogni soggetto umano in quanto persona prende piede dal potersi archetipicamente relazionare con una Persona che è “in principio” (entharch). Per ogni essere umano, infatti, è necessario attingere al fondamento di un “in principio”, senza che questo richiami la struttura di un episodio temporale. Lo statuto della persona si regge sull’assunto che la persona non sia una idea o un concetto (e pertanto sottoponibile all’arbitrio oscillante, presuntivo, nebuloso della riflessione umana), ma che un soggetto in relazione preceda e comunichi le proprie stesse idee e concetti; e che perciò la persona sia bisognosa di ritrovarsi in un Pensiero e in una Parola, in un LogoV che l’ha individuata quale “tu” reciproco per principio: “in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Giovanni gli rende testimonianza” (Gv 1,1.15).

  2. la Parola di cui parlare è un soggetto trascendente, divino, personale, capace di azione e creazione, che concentra in sé il Pensiero e la Parola di Dio. La relazione fondamentale che si prospetta, allora, è tra Dio e il suo dis-simile. L’uomo si trova, in questo sorprendente coinvolgimento relazionale, a fronteggiare i suoi limiti più evidenti. Egli non è Dio, eppure può relazionarsi con l’assoluto. Egli non è la parola, il pensiero, eppure fa la parola, fa il pensiero. L’atto di rivolgersi all’uomo da parte del Verbo pone fine ad una distanza incolmabile e rivela l’attitudine connaturata dell’uomo ad aprirsi al trascendente:“in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Giovanni gli rende testimonianza” (Gv 1,1.15).

  3. la Parola può allora essere ri-detta. Infatti è essa la via principale attraverso cui può avvenire la comunicazione della persona. Già Agostino aveva messo in rilievo che al fine della intelligibilità della parola occorre che essa venga trasmessa. E del resto la parola è naturalmente un atto di passaggio, passaggio di contenuti, passaggio di “persone”. La persona passa all’altro attraversando la parola. Perciò la Parola di Dio deve incontrare il suo mezzo esattamente nell’uomo; Dio passa all’uomo tramite la Parola ridetta dall’uomo: “in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Giovanni gli rende testimonianza” (Gv 1,1.15).

Lasciar parlare la Parola come atto salvifico: Gesù di Nazaret

La partecipazione dell’uomo all’epopea della formazione e della trasformazione del LogoV divino viene richiesta dalla stessa logica della parola. Stiamo parlando del processo, conosciuto per l’esperienza e per la ricerca medica, di “assimilazione”.

Sappiamo che la nutrizione degli esseri viventi, cioè l’atto attraverso il quale si reperiscono le sostanze e le energie per vivere e costruire il proprio organismo, costituisce una delle occupazioni fondamentali dei viventi. Si raccolgono le sostanze nutritive, dall’acqua, dalla terra, dai vegetali, dagli animali, si scompongono nei mattoncini di molecole che le costituiscono, e poi si utilizzano quei mattoncini per i propri bisogni. Si assimilano, si rendono simili. Non si possono prendere le sostanze nutritive così come sono, sono inutilizzabili se non vengono fatte proprie, cioè adatte ai propri scopi biologici. È sorprendente osservare come l’animale più grande della terra, la balena, si nutra di animali microscopici presenti negli oceani, di plancton.

Il processo di assimilazione non è né mera passività (gli alimenti non ci vengono dati già pronti, e spesso bisogna lottare per conquistarseli, e poi devono essere affidati al laborioso compito degli enzimi) né, più evidentemente, disordinato accatastamento nel proprio organismo. Una volta introdotti nel corpo, essi ne seguiranno le leggi e gli sviluppi.

L’esempio è valido anche per il pensiero. Si dice dello studioso che ha “assimilato” il pensiero di altri studiosi, l’ha fatto “proprio”. E se lo studioso è in gamba non lo restituirà tal e quale, ma lo sintetizzerà in modo originale.

L’atto salvifico della Parola trova una corrispondenza in tali parabole. L’uomo possiede davvero il LogoV di Dio (“noi abbiamo il pensiero di Cristo”, 1Cor 2,16), e a sua volta ne è posseduto. Egli, nella misura in cui digerisce attivamente, si appropria e assimila la Parola (“non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”, Mt 4,4), viene ad esserne costruito come organismo spirituale, trascendente e divino. L’uomo può utilizzare la Parola, il Pensiero di Dio, per architettare la sua vitalità e raggiungere i suoi scopi di crescita. L’uomo può liberarsi dall’ansia di dover rispondere tutto solo ai misteri della vita e ai perché della storia, alla dissipazione delle sue energie, delle quali non saprà più nulla dopo la sua scomparsa: lui frammento, di fronte all’abisso del cosmo. Egli può restituire un senso alle azioni e alla materia bruta, all’amore e alla spiritualità degli esseri.

Ancor più. La Persona che è tale LogoV divino deve essere contemporaneamente Persona tale da potersi assimilare dal più piccolo al più grande degli uomini, dal più misero al più straordinario: deve essere, ed è, l’uomo per eccellenza, il Vero Uomo, che riassuma in sé, che ricapitoli (cfr Ef 1,10) l’intera umanità di tutti i tempi, umanità reale, storica, ancor prima che ideale, senza tempo.

L’evento della salvezza, tramite il quale l’uomo arriva al rapporto salvifico con Dio, si effettua nella storia: Dio non pone o non dice un segno o una parola all’uomo, ma fa dell’uomo stesso, in tutta la sua incertezza e debolezza e incompletezza, il linguaggio nel quale Egli esprime la parola della piena salvezza. Dio si serve anche di un’esistenza distesa nel tempo, come uno scritto nel quale Egli imprime per l’uomo e per il mondo, il segno di un’eternità sovratemporale” (von Balthasar, 61), cioè Gesù di Nazaret.

La riflessione del teologo fa eco ad una espressione che troviamo in Paolo, e che ora ci risulta anche più facile da collocare: “Voi [corinzi] siete una lettera [una cifra di eternità, una composizione del LogoV divino, una Parola salvifica] di Cristo composta da noi [apostoli], scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2Cor, 3,3).

L’atto salvifico della Parola si compie nel gesto divino di assimilare a tal punto l’uomo a sé da consegnare del tutto se stesso all’uomo. Lasciar parlare la Parola vuol dire, dunque, un lasciarsi implicare e assimilare da parte dell’uomo nel LogoV divino dentro la storia umana che ha assimilato il LogoV divino.

Affermazione e superamento della Scrittura

Il beffardo dispetto degli dei

La Parola di Dio, Parola comunicativa, relazionale, salvifica, ha diviso, che noi ce ne accorgessimo o no, l’umanità in due versanti: da una parte troviamo l’uomo ideale, l’uomo dell’umanità astorica, l’uomo platonico e filosofico. Di fronte a questi si pone, in tutta la sua statura, l’uomo reale, l’uomo della storia umana, l’uomo biblico e teologico. Con l’apertura di tale solco inizia per la Parola di Dio un lungo percorso di “cosificazione” che la porterà a diventare Scrittura. Esso segue senza tentennamenti l’aspirazione umana a determinare la sua memoria storica sottraendola all’arbitrio, e alla evaporazione, della memoria, individuale o collettiva che sia, dei propri simili.

La scrittura, come svolta epocale nella storia dell’umanità, rappresenta un vero dono degli dei. Fa sentire l’uomo in grado di sfidare i secoli e l’ampiezza delle generazioni. Con la scrittura il suo pensiero attraverserà, immutato, sempre presente, il futuro ch’egli non vedrà mai.

Un entusiasmo senza precedenti avvolge questo dono degli dei. Colui che sa scrivere e che sa leggere diviene il sacerdote di una nuova umanità, quella che appartiene al futuro. La sua persona considerata sacra.

Eppure l’uomo che sa scrivere e sa leggere sembra ingenuamente dimentico che l’aver consegnato il suo pensiero, il suo logoV, alla fissità della scrittura, mentre lo sottrae all’arbitrio della memoria, lo espone all’usura del tempo. Quel tempo che egli intendeva sfidare titanicamente diventa il giudice della sua scrittura: il tempo corrode il suo logoV, lo tarla, lo fa apparire insufficiente, sempre più insufficiente in ragione dell’aumentare della distanza che separa lo scrittore dal lettore. Il dono degli dei, allora, visto dal loro futuro, sembra assomigliare a un beffardo dispetto.

Condizionamenti della Parola

Anche la Parola, consegnata alla Scrittura, seguirà la “passione” della “cosa” che è divenuta. L’uomo storico del passato, e in particolare l’uomo israelita, resta il testimone più diretto del processo che ha condotto alla “cosificazione” della Parola. Entrando in rapporto con la storia umana, storia di persone, la Parola viene recintata, viene de-limitata dai contorni precisi di esperienze geografiche, temporali, culturali, linguistiche, politiche, sociologiche, mitologiche. Una massa enorme di condizionamenti esterni preme su di essa.

C’è di più. Il processo di “cosificazione” della Parola avanza di pari passo con l’introduzione di un altro solco all’interno della storia umana. L’uomo della storia biblica si distanzierà sempre di più dall’uomo della storia umana. L’uomo moderno si sposta da una parte all’altra della terra con gli aeroplani. L’uomo biblico continuerà, nei secoli, a percorrere il deserto a piedi, a rimanervi per quarant’anni, a cercare di raggiungere una terra promessa, tanto desiderata quanto sofferta. L’uomo moderno osserverà il cosmo con gli occhi avveduti del matematico o del fisico, l’uomo biblico continuerà, nei secoli, a guardare le stelle pensando al loro misterioso inseguirsi in quel cielo che è la dimora di Dio.

È vero che l’uomo biblico giungerà un giorno a calpestare la terra promessa e guarderà le stelle cercandovi quella che conduce al neonato Messia di Betlemme; ma anche tali conquiste saranno, per sempre, parte di un libro, fissate su una “cosa”, sottoposte all’usura del tempo e alla non più completa traducibilità nei linguaggi successivi. E non sarà così solo per un giorno, o solo per un’epoca. Sarà così per sempre, per il tempo che procederà contemporaneo all’immutabilità, alla fissità dell’uomo biblico rispetto alla dinamicità, all’instabilità dell’uomo storico.

Processi di cosificazione: il limite

Prende chiaramente piede una conflittualità, una contraddicibilità interna della Parola: essa procede come LogoV divino, come Pensiero sovratemporale e sovraspaziale, per ri-dire la Persona divina nel suo sempre; eppure si rivolge ad un tu immanente, plasmato di tempo e di spazio, la cui esistenza appare segnata dal carattere della crescita, e perciò soggiacente alla logica del già e non ancora. All’intelligenza della Parola si frappone un ostacolo, intrinseco a lei, costitutivo. Il LogoV divino può essere ricevuto completamente solo da un essere divino. Nessuna mediazione, nessun compromesso, nessun ridimensionamento sono accettabili, pena la perdita di senso. Il primo limite della Parola è interno: può essere contraddetta (contro affermata, falsificata) per il fatto di essere unica, come Dio, e perciò decifrabile unicamente da lui.

L’uomo storico del passato ignora l’esistenza di questo limite. Accetta semplicemente come un dato la possibilità che Dio “parli”. Grazie ai suoi condizionamenti (grazie!) geografici, temporali, culturali, linguistici, eccetera, non ha difficoltà, né se ne sorprende, a porre la Parola di Dio tra le varie parole, tra le varie “cose”, del suo mondo, grande quanto si vuole, eppure così angusto per Colui che è veramente Dio. Non si stupisce del fatto che il medesimo Dio che “abita nei cieli” sia quello che si possa “incontrare”, che Dio “getti nel mare cavallo e cavaliere”, che Dio “spieghi le sue ali” o che “passeggi nel giardino dell’Eden”; che Dio “si irriti” o “si adiri”, e che in lui “si muovano le viscere” o “frema il cuore”.

L’uomo storico del passato fa uso del suo linguaggio metaforico, parziale, esemplificativo come di un linguaggio sufficiente ad esprimere il divino, senza comprendere che mentre fa così non fa altro che “incontrare” o “far parlare” il Dio delle metafore, il Dio degli esempi, il Dio parziale della sua intelligenza.

“L’empio dice: Dio non esiste” (Sal 53,2; 9,25). Ma quale Dio? Quello del LogoV divino, o quello della metafora umana? Quello che intende rivelarsi o quello compreso e metaforizzato dall’uomo biblico? Il Dio vivente e agente o quello fissato per sempre nella “cosa” della Scrittura? Il Dio della sua divinità o il Dio delle illusioni umane?

Dio indossa i filatteri

Così anche Dio è costretto a piegarsi alla logica del linguaggio umano. Infatti, mentre il senso del pensiero viene consegnato alla scrittura, esso finisce per diventare una macchina che genera ermeneutica, interpretazione. La scrittura fissa un senso, quello dello scrittore, ma non può bloccare lo straripante succedersi di senso che il lettore coglie secondo la propria prospettiva. E secondo il proprio limite, naturalmente. Proprio in ciò si trova la legittimità della domanda: chi garantisce all’empio che la sua empietà è ingiustificata? Chi garantisce, in altri termini, al lettore della Scrittura, di trovarsi davanti all’autentico LogoV divino?

Per comprendere la serietà di queste considerazioni diamo un’occhiata ad una testimonianza che ci proviene dai primi interpreti della Scrittura, i rabbini ebrei. Anche le loro interpretazioni sono divenute scrittura, libro. Ne è prova il famoso Talmud, giunto a noi in due versioni, una palestinese e una più famosa babilonese. Da quest’ultima leggiamo un brano in cui i rabbini cercano di convincere il discepolo intorno alla convinzione che anche Dio portasse i filatteri (“Filatteri, dal greco phylasso, «custodisco», perché servono ad allontanare influssi malèfici; si tratta di due capsule di pelle, di cui una viene posta sulla fronte e l’altra sul braccio. Le capsule contengono scritti in pergamena: Deut. 6,4-9; 11,13-21; Es. 13,1-10; 13,1-16”, nota 109 nel testo citato di seguito):

Disse Rab Abìn bar Rab Adà in nome di R. Jishàq: Da cosa risulta che il Santo, Egli sia benedetto, si metteva i filatteri? Da quanto è stato detto: “Il Signore ha giurato per la sua destra e il suo braccio potente” (Is 62,8). “Per la sua destra” è la Legge, secondo quanto fu detto: “Dalla Sua destra una Legge di fuoco per essi” (Dt 33,2). “E per il suo braccio potente”, sono i filatteri, secondo quanto fu detto: “Il Signore dà potenza al suo popolo” (Sal 29,11). E da dove risulta che i filatteri sono (fonte di) potenza per Israele? Da quanto sta scritto: “E vedranno tutti i popoli della terra che il Nome del Signore è proclamato sopra di te e ti temeranno” (Dt 28,10).

Inoltre fu insegnato: R. Eliezer il Grande disse: Qui (Dt 28,10) ci si riferisce ai filatteri della testa. Disse Rab Nahmàn bar Jishàq a Rab Hijjà bar Abìn: I filatteri del Signore del mondo che cosa contengono di scritto? Ed egli gli rispose: “E chi è come il Tuo popolo Israele, popolo unico sulla terra?” (1Cr 17,21). (Il Trattato, 94)

È chiaro che le citazioni riportate vengono utilizzate secondo il metodo proprio dell’interpretazione rabbinica; secondo i metodi occidentali non sarebbero sufficienti per dimostrare le affermazioni dei maestri. In particolare per la nostra mentalità è assolutamente inconcepibile l’immagine di un Dio che indossi i filatteri, oggetti che allontano i malefici: che bisogno ne avrebbe?

Dio è un interprete, insieme all’uomo

Consegnato alla Scrittura, il LogoV divino ne segue il destino fino in fondo. Se la scrittura umana viene affidata all’interpretazione di un soggetto umano, anche la Scrittura si affida all’interpretazione di qualcuno. Ma trattandosi del LogoV divino quel “qualcuno” in grado di interpretarla senza comprometterne il senso è solo Dio. Dio è l’interprete più attendibile, più sicuro di se stesso.

Resta in piedi il problema: chi può garantire il lettore biblico dal cadere in errore nell’ermeneutica della Scrittura?

Davanti a tale formidabile questione, le strade che si sono aperte agli occhi dei credenti in Dio dal Gesù di Nazaret in poi sono due: quella della Umanità del Figlio di Dio, e quella della ispirazione dello Spirito di Dio. In entrambe queste strade Dio consegna il suo LogoV in modo completo all’uomo, e le indica come sorgenti della corretta interpretazione di se stesso.

Entrambe sono vie di verità. Dice Gesù di se stesso: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); e dello Spirito dice ugualmente che esso è “Spirito di verità” (Gv 5,26). Entrambe si uniscono inscindibilmente all’uomo. Gesù prega il Padre: “Io in loro e tu in me” (Gv 17,23); e riguardo allo Spirito i primi credenti sanno che: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi” (Rm 8,14s).

Entrambe queste vie hanno comunicato e comunicano la Parola. Prega ancora Gesù: “Le parole che tu hai dato a me io le ho date a loro” (Gv 17,8). Così per lo Spirito conferma: “La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,24-26).

C’è di più. Se Gesù sa che le Scritture parlano di lui (“Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza”, Gv 5,39), nondimeno gli apostoli sanno che lo Spirito di Dio è l’unico in grado di scrutare le profondità di Dio (1Cor 2,10). E così dicendo, finalmente, la Scrittura indica a chiare lettere quali sono i suoi interpreti principali: il Figlio di Dio e lo Spirito di Dio, interpreti di Dio perché con Dio compartiscono il suo LogoV divino. Lo stesso Dio, poi, si incarica di dare all’uomo la capacità di interpretarlo: “Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita” (1Cor 3,5s).

La fede come superamento della Scrittura

L’incontro con la Scrittura deve dunque considerarsi come l’accesso agli interpreti del LogoV divino, il Figlio e lo Spirito. In realtà il rapporto esistente tra Scrittura, da una parte, interpreti del LogoV divino, dall’altra, e lettore biblico come soggetto in relazione con loro merita ancora qualche osservazione.

La Scrittura esiste in funzione dell’uomo, non in funzione di Dio. Dio non aveva bisogno di lasciare alla memoria storica di nessuno il suo LogoV divino. Dunque nel concedere agli uomini di mettere per iscritto la sua Parola, Dio segue la logica che lo ha animato fin dal primo giorno del creato: come ogni opera di Dio proviene dal suo LogoV divino, così anche la sua Parola, e persino la Scrittura, è una Opera di Dio.

Di fatto ciò che la Scrittura dice, prima ancora di dire un qualche concetto specifico, è che

Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1Tm 1,17) per il suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto. (DV,2)

In altri termini, scopo ultimo della Scrittura non è di “dimostrare” Dio, bensì di rendere accessibili nel tempo le sue opere, particolarmente il suo desiderio di rivelare agli uomini se stesso e renderli partecipi della sua natura divina. L’accesso alla Scrittura richiede la fede in Dio, e se la comunica, la comunica a chi già la possiede. Dalla Scrittura può scaturire la conversione a modo di perfezionamento, non a modo di passaggio dalla non-fede alla fede in Dio. Così il Concilio:

A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede (cfr. Rm 16,26; rif. Rm 1,5; 2Cor 10,5-6), per la quale l’uomo si abbandona a Dio tutto intero liberamente, prestando «il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela» e dando il proprio assenso volontario alla rivelazione fatta da lui. Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muove il cuore e lo rivolge a Dio, apre gli occhi della mente, e dà «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità».

Affinché poi l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni. (DV,5)

Se la Scrittura appartiene alla sfera della fede, allora occorre sempre ricordare che è la fede a superare la Scrittura, e non viceversa. Se noi siamo salvi, è per la fede, e non per le opere della legge, come afferma l’apostolo con vigore (cfr Gal 2,16 e par.). Per essere precisi, si tratta della fede in Cristo, che ha portato a compimento il Pensiero di Dio sulla salvezza dell’uomo; tutto ciò che possediamo ecclesialmente (sacramenti, scrittura, gerarchia, mezzi di grazia) sono finalizzati al conseguimento e al perfezionamento di tale fede.

Dio, che aveva già parlato a più riprese e in diversi modi per mezzo dei profeti, «ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti il Figlio suo, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini», «proferisce le parole di Dio» (Gv 3,34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della presenza e manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti e, infine, con l’invio dello Spirito di verità, porta a perfetto compimento la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina, cioè manifestando che Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e per risuscitarci alla vita eterna. (DV,4)

Parte Seconda

Dimensioni Perfettive del Verbo

Fonte di luce e di forza

Nel seno della chiesa

Abbiamo concluso la prima parte con un riferimento indiretto alla chiesa. Infatti abbiamo ripetutamente citato la Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II. In quell’occasione la chiesa ha riflettuto sulla Parola di Dio, in modo autorevole, come del resto ha sempre fatto anche in passato.

La Scrittura, infatti, è stata consegnata da Dio non all’uomo ideale, astratto, ma all’uomo reale e concreto della storia quotidiana. Ed è stata consegnata come memoria collettiva dell’opera di Dio per e con l’uomo. Il soggetto di questa consegna è un popolo: etnico prima, Israele, universale (cattolico) dopo, come prosecuzione effettiva del primo.

La chiesa, perciò, avverte a pieno titolo la propria responsabilità in ordine alla interpretazione e alla proclamazione della Parola. Essa sa che tra la sua azione di predicazione e la Scrittura, depositaria della Parola di Dio, esiste un profondo legame. “La predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere conservata con successione continua fino alla fine dei tempi” (DV,8).

La predicazione

Del resto questa coscienza è viva già in un uomo come Paolo. Egli scrive ai Tessalonicesi: “Il nostro vangelo non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione” (1Ts 1,5) e “Noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale opera di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Ts 2,13).

Prima ancora dunque di affrontare una qualsiasi proposta di itinerario di conversione fondato sulla Parola di Dio, dobbiamo prendere atto che il punto di partenza, imprescindibile per ogni credente, risiede nell’accoglienza della predicazione.

La parola della predicazione è divina, e lo è sempre, a condizione che emerga dalla vivente tradizione apostolica della chiesa. Non solo la comunità cristiana, ma anche la fede del singolo credente si nutre e si edifica a partire da questa parola.

Tutti i credenti sono soggetti di predicazione

Un autentico itinerario di conversione guidato dalla Parola di Dio non potrà che prendere inizio dalla predicazione, accolta e donata. In questo settore della vita della chiesa dobbiamo riconoscere che ogni battezzato gode di identici diritti e di analoghi doveri.

Ha diritto a ricevere una predicazione intelligente e appetibile, fondata sul cuore del vangelo: Cristo – dice Paolo – mi ha mandato a “predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo… Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,17.21).

Ma ogni credente ha pure il dovere di essere pronto a donare ai propri fratelli la Parola di Dio, facendosene tramite nella predicazione. Se una predicazione autorevole può essere, ed è, quella che proviene dai ministri ordinati, nondimeno appartiene ad ogni battezzato il dovere di farsi annunciatore del vangelo. L’evoluzione del pensiero della chiesa al proposito è evidente se si confrontano il Codice di Diritto Canonico del 1917, che vietava la predicazione dei laici e dei religiosi (Can. 1342, 2; Signorile, 35), con il Codice di Diritto Canonico del 1983 (Can. 766; Signorile, 75) che la consente, pur a certe condizioni.

Al di là delle diverse interpretazioni resta valido il principio secondo il quale tutti i battezzati sono soggetti di predicazione.

Una comunità “predicante”

Le acquisizioni del Concilio, confluite nella redazione del Codice di Diritto Canonico, valgono per l’intera chiesa e vanno tenute presenti anche nelle singole comunità religiose. All’interno di esse deve essere sempre più maturato:

  • un attento e intelligente sviluppo della predicazione omiletica, eventualmente richiedendo ai presbiteri che prestano servizio di prepararsi, di seguire filoni tematici inerenti la lectio continua delle letture del giorno e di offrire validi supporti di riflessione infrasettimanale sulla Parola domenicale;

  • un consapevole contributo dei singoli membri alla maturazione cristiana dell’intera comunità, con la possibilità, programmata e a turno, di annunciare il vangelo alla propria comunità in occasioni diverse dalla celebrazione liturgica;

  • un’offerta efficace e semplice al popolo di Dio, che si è chiamati a servire in vari modi, di una predicazione continua, svolta dai membri della comunità, che imparano a superare incertezze e paure perché a tutti i credenti sia consentito di non mancare dell’alimento della Parola.

Nel solco di un carisma

Occorre infatti essere sempre molto avveduti, perché quello che noi facciamo non falsifichi quello che noi crediamo e predichiamo. In particolare sarebbe quantomeno contraddittorio che noi, persone consacrate o ministri ordinati, ci facessimo promotori di un laicato aperto e impegnato nella conoscenza e nell’annuncio della Parola, incoraggiandoli a questo con l’esortazione evangelica dell’assistenza dello Spirito (cfr Mt 10,19-20), e poi non ci trovassimo, noi, ingaggiati in prima linea nel medesimo compito.

L’intuizione del carisma delle Figlie della Chiesa va certamente in questa direzione. Le Costituzioni offrono un sicuro sostegno all’assunzione di impegni diretti. Da una parte si osserva tra le prime realtà proprio quella di essere al servizio di una chiesa impegnata “a portare l’annuncio del vangelo a tutti gli uomini” (Cost. 77); dall’altra si riafferma che tutta la vita delle Figlie della Chiesa, “consacrata all’Amore, è annuncio del Vangelo” (Cost. 78).

In definitiva il carisma ricevuto non può spingere verso altra missione che non sia quella della Chiesa: “l’evangelizzazione, la promozione della vita cristiana nei fratelli, per l’edificazione del Corpo di Cristo e la salvezza del mondo” (Cost. 79). In particolare l’evangelizzazione trova la sua sorgente nell’Eucaristia e si plasma secondo le necessità locali (cfr Cost. 80).

Difficoltà e riserve: la prima conversione

Ciò nonostante nessuno può nascondersi l’esistenza di difficoltà e di riserve nel proporre tale via di collaborazione alla fede degli uomini e delle donne del nostro tempo (cfr 2Cor 1,24).

Difficoltà di ordine naturale: timidezza, scarsa dimestichezza con l’espressione in pubblico, sensazione di impreparazione, timori di incapacità o di impossibilità.

Difficoltà di ordine comunitario: organizzazione interna delle attività non sempre compatibile con un ulteriore impegno, rapporti interni alla comunità di appartenenza che possono non facilitare un discorso franco e aperto, compatibilità con la regola e le finalità dell’istituzione.

Riserve di ordine ecclesiologico: si tratta semplicemente di un pio desiderio o di una reale esigenza evangelica? Come si deve considerare la predicazione in rapporto con i ministri ordinati e le attività da loro proposte? Quali forme di interazione con l’ambiente circostante vengono richieste e possono legittimamente essere prestate? In che modo considerare il contributo che può recare la vita religiosa, in particolare quella femminile, allo sviluppo della predicazione?

Tutto questo richiede certamente una adeguata riflessione, personale e collettiva. Ma richiede anzitutto una prima conversione. Proprio sul tema di una partecipazione delle famiglie religiose alla “nuova evangelizzazione” (nuova nell’entusiasmo, nuova nei metodi, nuova nelle forme) si gioca la credibilità e il futuro della stessa vita religiosa. L’amore per l’uomo, ogni uomo e ogni donna, passa attraverso “la parola della predicazione”, tanto che Gesù stesso, alle folle disperse e sfinite, ancor prima del miracolo del pane, offre il miracolo dell’ammaestramento: il Maestro e i discepoli “partirono sulla barca verso un luogo solitario… Sbarcando, Gesù vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”; dopo, e solo dopo, “spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i pesci fra tutti” (Mc 6,32.34.41).

Conversione come perfezione

Soprattutto per coloro che intendono servire Dio e i fratelli su una via di totale dedizione, il concetto di “conversione” va applicato in senso strettamente evangelico, facendo memoria dell’episodio del giovane ricco, riportato dai sinottici. Quel giovane ha sempre osservato i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 19,18-19). A lui Gesù dice espressamente: “Se vuoi essere perfetto…” con quel che segue (Mt 19,21).

Come il giovane ricco dobbiamo riconoscere anche noi che la ricchezza, ogni ricchezza, costituisce un ostacolo grande sulla via della perfezione. Si tratti della ricchezza materiale, si tratti della ricchezza straordinaria di beni spirituali che riempiono le nostre comunità, se il credente non si adopera per farne parte ai poveri non avrà alcun tesoro in cielo.

La perfezione della vita religiosa passa, oggi come sempre, attraverso la capacità di condividere con i poveri di questo mondo i beni che ci provengono da Dio. Primo tra tutti il bene della sua Parola, rivolta agli uomini come ad amici.

La tua Parola nel rivelarsi illumina” (Sal 119,130)

Solo cogliendo in questa prospettiva il significato della conversione possiamo stabilire un itinerario che sia finalizzato al servizio della Parola. E d’altra parte si tratta di una dimensione, quella della perfezione, che si trova iscritta nella Parola stessa. Il linguaggio metaforico tipico delle espressioni di fede ci fa dire che dalla Parola promanano “luce” e “forza”. Sappiamo il valore carico di simbolismo attribuito a questi due termini.

Quel che dobbiamo mettere in risalto qui è il loro rapporto con un cammino di conversione. Esse ci dicono anzitutto che nel nostro itinerario non siamo soli. La Parola di Dio, consegnata alla Scrittura e alla predicazione, possiede intrinsecamente la capacità di rivoluzionare l’esistenza delle persone. Tanto di chi ascolta, quanto di chi predica.

Abbiamo già colto nello sviluppo del LogoV divino una dimensione personale tipica. Ecco ora che quell’affermazione di “personalità” della Parola trova nel “tu” del soggetto in ascolto il bersaglio della sua azione. Il lungo salmo 119 appartiene ad un genere letterario sapienziale il cui punto cardine è proprio l’azione della Parola nella vita dell’uomo. È l’accompagnamento della Parola a consentire all’uomo di crescere nella sua umanità, a consentirgli di conformarsi alla volontà divina, a consentirgli di penetrare con intelligenza superiore la realtà del mondo.

Ma anche a consentirgli di far diventare un’esperienza di fede, autentica proclamazione delle opere di Dio: “Con le mie labbra ho enumerato tutti i giudizi della tua bocca… I tuoi fedeli al vedermi avranno gioia, perché ho sperato nella tua parola… Si volgano a me i tuoi fedeli e quelli che conoscono i tuoi insegnamenti… La mia lingua canti le tue parole, perché sono giusti i tuoi comandamenti” (Sal 119,13.74.79.172).

In tal modo possiamo anche dire che la parola della predicazione possiede non solo un carattere obbligativo, morale, ma pure un carattere di grazia: mentre l’uomo si trova a ridire le opere di Dio, o meglio, a ridire Dio stesso nella sua Parola, egli viene perfezionato da quella stessa predicazione. Cresce, si conforma ad essa, penetra la realtà, si fa diventare “vangelo” la vita della persona.

Itinerario personale

Perfezione come compimento del proprio essere personale

La visione evangelica della perfezione, che noi qui abbiamo voluto rendere come sinonimo di conversione, è lontana dalla visione di alcune filosofie. L’esortazione di Gesù: “Siate voi perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48) può addirittura spaventare, se letta sconsideratamente.

Ma se questa espressione viene guardata sotto l’angolo della vita del Maestro, allora diventa comprensibile anche per noi. Egli è “perfetto” perché “ha compiuto tutto” (“Tutto è compiuto!”, Gv 19,30). Il gioco di parole, inavvertibile in italiano, risulta facile da percepire nelle lingue neotestamentarie. In latino perficere è il verbo che, indicando la continuazione e il completamento dell’opera fatta, individua così la sua perfezione. È “perfetto” tutto ciò che è “compiuto”, al quale dunque non è necessario aggiungere nulla.

Cristo, con la sua croce, ha compiuto tutto ciò che egli poteva e doveva compiere. Ha condotto a termine, a “perfezione” il progetto personale iscritto nel suo essere personale: espresso dalla sua vocazione, dalla sua missione, dalle sue opere e parole, ha trovato la sua “perfezione” nel “compimento” di ogni cosa a lui possibile. Null’altro avrebbe dovuto fare di più.

Il compimento di ogni persona

Il secondo tratto caratteristico di un itinerario di conversione alla Parola e per la Parola, dopo quello di farsene annunciatori, è quello del “compimento”.

In realtà l’obbiettivo principale dell’intera storia della salvezza è di “compiere”, ovvero perfezionare, l’uomo. Così la Scrittura è asservita a questo compito. Dobbiamo certamente riconoscere che in essa, come in tutto il sistema religioso della nostra fede, esistono vari livelli di azione che consentono il compimento della persona.

Se osserviamo la Parola-Scrittura sotto l’angolo del suo rapporto con la divinità, possiamo rintracciarvi un livello ascendente, cultuale, e un livello discendente, di santificazione. Entrambi sono presenti, contemporaneamente e in egual misura. Il culto reso a Dio santifica, la santificazione dell’uomo da parte di Dio lo abilita al culto.

Se osserviamo la Parola-Scrittura sotto il profilo del suo rapporto con la vita umana, vi scorgiamo tanto una dimensione “performativa”, per cui la Parola di Dio opera sull’uomo, quanto una dimensione “trasfigurativa”, per cui l’uomo viene messo in grado di comprendere e trasformare la realtà secondo il pensiero di Dio.

Se infine osserviamo la Parola-Scrittura sotto il profilo della fede, possiamo trovarvi impresse le medesime caratteristiche della fede stessa. Le esprimo con le parole di un buddhista:

Nella tradizione buddhista, parliamo di tre diversi tipi di fede. La prima è la fede come ammirazione che si prova verso una data persona o una particolare condizione dell’essere. La seconda è la fede dell’aspirazione. C’è un senso di emulazione: si aspira a raggiungere quella particolare condizione. Il terzo tipo è la fede della convinzione. Penso che anche nella cultura cristiana si possano spiegare tutti e tre questi tipi di fede. Per esempio, un cristiano praticante, leggendo il vangelo e riflettendo sulla via di Gesù, può provare una forte devozione e ammirazione verso di lui. È il primo livello di fede, la fede dell’ammirazione e della devozione. Poi, mentre potenzia la sua ammirazione e la sua fede, può raggiungere il secondo livello, che è la fede dell’aspirazione… Poi, dopo avere sviluppato il senso dell’aspirazione, si può giungere alla convinzione profonda che sia possibile realizzare tale condizione profonda dell’essere. È il terzo livello di fede. (Dalai, 94)

Ammirazione, aspirazione e convinzione

Distinguiamo, perciò, anche nel nostro itinerario queste tre tappe di crescita nella fede:

  • L’ammirazione per la Parola. Questa espressione dice contemplazione, realtà a noi ben nota, ma con un senso estremamente attivo e partecipe: in essa riconosciamo i tratti di un Dio che ci meraviglia continuamente, che stupisce l’uomo perché lo supera. E non solo quando fa miracoli che sembrano straordinari, ma anche nell’ordinario di una vita in cui sa calarsi da Dio.

  • L’aspirazione alla Parola. La Parola è LogoV divino, Pensiero e Parola contemporaneamente. L’ammirazione per la Parola ci fa entrare in relazione con un Pensiero che supera i nostri pensieri, ma non in modo prevaricatorio, quasi a voler far pesare sull’uomo la sua finitudine; bensì in modo redentivo, indicando insomma la “via” attraverso la quale sfuggire dalla propria finitudine. Si tratta di un’aspirazione fatta di sospiri e gemiti interiori, di desiderio, di abbandono.

  • La convinzione della Parola. All’uomo viator, sempre in cammino verso la meta, la Parola si presenta come un punto di sicuro riferimento. Essa sembra dire: È qui la certezza che tu sarai compiuto, è qui la garanzia del raggiungimento della meta. Entrare nella logica della Parola significa, allora, non solo assumere una capacità critica sulla realtà, ma anche maturare la consapevolezza che tale realtà sta procedendo verso il suo pieno compimento.

La piccola via

Esiste una piccola via attraverso la quale tutto questo può diventare, e diventa, itinerario concreto. La piccola via è la persona umana, quella che sono io e quella che trovo al mio fianco. Esattamente perché il LogoV divino ha inteso parlare il linguaggio dell’uomo.

Possiamo tradurre quanto andiamo dicendo in vero e proprio “esercizio”. Ed è il terzo tratto caratteristico di un itinerario di conversione.

  • L’ammirazione per l’uomo. Leggere la storia con gli occhi di Gesù vuol dire soffermarsi ad ammirare l’opera del Padre, quella di un creato sorprendente e quella, soprattutto, di una creatura tanto grande come l’uomo: “Hai fatto l’uomo poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8,6-7). L’uomo così come Dio lo ha voluto, creato, redento, l’uomo “perfetto”, compiuto nella sua umanità, questo è l’uomo oggetto della nostra ammirazione. La Parola si fa carico di mostrarci come guardare a quest’uomo: ed ecco in che senso indirizzare la lettura della Parola Scritta, per riconoscerla presente e operante nei tanti frammenti di Parola quante sono le persone con le quali veniamo a contatto.

  • L’aspirazione all’uomo “compiuto”. Dall’ammirazione dell’opera di Dio passiamo al desiderio de vederla “compiuta” in noi. In me e nei miei fratelli o nelle mie sorelle. Tutto quel che scopro ammirando l’uomo, scorgendo i semi di bene che si trovano in ogni persona, alla luce della Parola-Scrittura, posso farlo mio, posso appropriarmene; e d’altro canto posso agire al fine di mettere coloro che trovo accanto a me nelle condizioni di diventare sempre più e sempre meglio “parola” vivente, compimento e perfezione dell’opera della salvezza.

  • La convinzione dell’uomo. Essere convinti che ogni persona può farcela, capaci di ridare speranza alle persone e alle società, perché l’uomo si trova preso dentro il vortice della redenzione di Cristo: con questo passaggio entriamo nell’ordine di idee di partecipare anche noi alla “scrittura” di una pagina di storia della salvezza. Essa ha inizio nel prendere con decisione tra le mani il proprio destino. So che da diverso tempo le Figlie della Chiesa stanno riflettendo sulla fisionomia da dare al progetto personale. Ebbene, proprio qui trova il suo giusto inquadramento: la novità assoluta della redenzione umana operata da Cristo rende l’uomo co-protagonista della propria salvezza. Il progetto personale si configura come uno strumento attraverso il quale, con sistematicità, ogni credente è chiamato a ridisegnare la propria vita secondo la verità della vocazione divina ricevuta in dono.

Tre impegni di sempre

Tale via, piccola e formidabile allo stesso tempo, si apre su un vasto orizzonte di impegni:

  1. l’impegno dell’intelligenza. Non sarà mai superfluo ricordare che la fede, e la lettura della Parola di Dio, richiedono “intelligenza”. Richiedono cioè da una parte studio appassionato della Scrittura, dall’altra scelta di guide sicure nel cammino di approfondimento, autori e testimoni esperti nel cogliere lo Spirito all’opera. E in questo dobbiamo sempre ricordare che i grandi maestri dello spirito sono assolutamente concordi, persino quando appartengono ad altre religioni:

Nel buddhismo, è ripetuto diverse volte che sulla via spirituale sono necessarie tanto la fede come la ragione. Nagarijuna, un maestro indiano del II secolo, nel suo famoso testo La preziosa ghirlanda afferma che un aspirante spirituale ha bisogno tanto della fede come della ragione, cioè della fede e dell’analisi. La fede vi porta a uno stato di esistenza superiore, mentre la ragione e l’analisi vi guidano alla liberazione completa. L’importante è che la fede provata nell’ambito della propria pratica spirituale si fondi sulla ragione e la comprensione. (Dalai, 95)

Primo impegno: studio della Scrittura e lettura di autori e testimoni

  1. l’impegno del cuore. Lungi dal riproporre in modo “pietista” l’approccio alla Parola di Dio, occorre invece offrire uno sguardo completo e sintetico sulla realtà della persona umana in relazione con la Scrittura. Infatti occorre evitare tanto ogni sorta di “sentimentalismo” isolato e intimista, con il quale l’ascolto della Parola verrebbe mortificato in senso individualista alla ricerca di un pacificante benessere spirituale; quanto l’esasperazione della ricerca di “esperienze” calde e coinvolgenti, dalle quali ricavare la rassicurazione intorno alla bontà della propria esistenza cristiana. Questi due estremi rischiano di rappresentare un impaccio sulla via della conversione. L’impegno del cuore deve essere letto, allora, come la partecipazione di tutto il proprio essere all’azione di Dio, una risposta integrale all’esigente “gelosia” divina (“La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”, Os 2,16), di un Dio che vuole “tutto”, perché nella sua Parola dona “tutto” se stesso.

    Secondo impegno: relativizzazione del proprio “sentimento” e lavoro di ricerca dell’essenzialità di Dio nell’aridità del quotidiano

  2. l’impegno delle forze. Nulla di quanto la Scrittura ci dona del Pensiero di Dio è da intendersi come una magia, o un automatismo. Per questo non valgono né i “fatalismi”, con i quali attendere passivamente che “accada” qualcosa; né le “tecniche” (tecniche ermeneutiche o di concentrazione o di contemplazione), da cui sperare benefici che ricadono, invece, sotto il diretto controllo e la responsabilità dell’uomo. L’azione alla quale la Parola di Dio chiama il suo ascoltatore è esprimibile in modo addirittura ovvio: l’adeguamento costante tra pensiero-parola e azione umane (tra logoV ed eqoV), riflesso dell’Archetipo divino, per cui in Dio sempre si ritrova un LogoV che al tempo stesso è Azione. In rapporto alla persona umana, tale adeguamento implica il rispetto del principio di gradualità, sotto cui si muove l’essere umano: l’impegno delle forze non ignora certamente le sconfitte, ma tiene conto più che altro delle vittorie quotidiane, che stanno a dire una risposta, forse parziale e ancora inadeguata, ma sempre in crescendo, alla Parola che interpella. In nessun altro campo, come in questo, è valido il motto che chi si ferma, e solo chi si ferma, è perduto.

Terzo impegno: minimizzazione di atteggiamenti fatalisti o tecnicisti e opera di graduale adeguamento al significato della Parola (un passo al giorno)

Itinerario comunitario

Vita comunitaria: una lettura sapienziale

La vita comunitaria rappresenta per la chiesa il rimedio trascendente contro la tentazione (ricorrente nel tempo) di fare della propria vita spirituale un assoluto. Ovvero di aspirare al raggiungimento di una beatitudine o di un ideale condizione paradisiaca nell’illusione della solitudine.

Persino la vita eremitica deve conservare il suo profondo legame ecclesiale; un vescovo invia, o riceve; la “lotta” dello spirito si fa ammaestramento e guida per i fratelli, o carico di sofferenze e di combattimenti altrui. In un certo senso l’eremita non fugge, ma entra nel cuore del mondo per farsi carico di tutto il mondo, del quale incarna tristezze e dolori, vittorie e gioie, e l’intero faticoso destino di redenzione.

Nemmeno quando si è certi che il proprio cammino proseguirebbe più spedito senza il “peso” di una comunità, ci si può sentire autorizzati a respingerla. Sarebbe troppo grande il rischio di presumere, o di aver presunto, di se stessi. Solitamente occorre respingere l’idea che una comunità, per essere tale, debba corrispondere a criteri di efficienza e di “santità” che risiedano in un giudizio diverso da quello di Dio.

Sul versante opposto, ogni tentativo di assolutizzare l’opera della comunità in favore del singolo deve essere ridimensionato. La vita comunitaria possiede alcuni benefici intrinseci, che ordinariamente riescono a raggiungere ogni membro: la risposta all’aspirazione umana di socialità; il sostegno nelle difficoltà, materiali, morali e spirituali; l’appagamento di alcuni elementari bisogni di sicurezza; la possibilità di esprimere le proprie potenzialità, ecc. Possiede anche alcuni limiti funzionali e strutturali, senza dubbio retaggio ed effetto del peccato.

La comunione dei santi

La prospettiva sotto cui si mostra utile, ed ecclesiale, osservare la realtà della vita comunitaria, e perciò la legittimità di un itinerario comunitario di conversione, è quella che nel Simbolo della fede professiamo come la comunione dei santi.

Di questa realtà creduta mi piace riprodurre la definizione del Catechismo: “Il termine «comunione dei santi» ha due significati, strettamente legati: «comunione alle cose sante [“sancta”]» e «comunione tra le persone sante [“sancti”]»… I fedeli [“sancti”] vengono nutriti del Corpo e del Sangue di Cristo [“sancta”] per crescere nella comunione dello Spirito Santo [“koinonia”] e comunicarla al mondo” (CCC, 948).

Essa ha il pregio di mettere in risalto le due direzioni della comunione (verticale, come dono, e orizzontale, come impegno), nonché la finalità implicita della comunione, che è un atto comunicativo dello Spirito al mondo.

In questo senso ogni itinerario di conversione di carattere comunitario non può non avere quale obbiettivo principale la crescita della comunione dei santi nell’unità con lo sguardo rivolto alla salvezza del mondo: “Padre, che siano una cosa sola perché il mondo creda” (Gv 17,21).

Parola e unificazione creativa

La vita comunitaria cresce nella comunione in tanto in quanto gravita attorno alle “cose sante”, prima tra tutte l’Eucaristia, lasciandosi interpellare dalla Parola creativa di Dio.

Tali mezzi di grazia hanno l’efficacia per realizzare quella unificazione integrale della persona umana e dei membri della comunità. L’unificazione delle virtualità della persona (della sua intelligenza, della sua affettività, della sua volontà, della sua libertà, e della sua corporeità), contro la dispersione del peccato e la disintegrazione della morte, appartiene realmente alla vocazione cristiana e abbiamo la fondata speranza che Dio si incarica di compierla in ciascun credente: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!” (1Ts 5,23).

La stessa chiusura della lettera ai Tessalonicesi indica chiaramente, sotto forma di esortazioni, ciò che può rappresentare lo scheletro di un cammino di perfezione.

Vi preghiamo, fratelli, di aver riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi. Vi esortiamo, fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti. Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. (1Ts 5,12-22)

Dicevo che questo brano rappresenta uno scheletro sul quale modellare un cammino di perfezione. In effetti le indicazioni che provengono da Paolo, e che sono realmente Parola di Dio, ci forniscono una serie di grandi strutture entro le quali deve essere collocata, con fedeltà creativa, l’azione dell’uomo e della singola comunità.

Non si tratta solo di adattamento o di inculturazione, ma anche di lettura critica della storia umana, alla luce della fede e in trasparenza all’azione dello Spirito; grazie a tali realtà la comunità religiosa diventa capace di “mediare” nella vicenda umana il dono della “comunione” dei santi, i cui beni diventano condivisibili con tutti gli uomini.

Un semplice cammino “sulla tua Parola”

Ricordando l’episodio di Luca in cui Pietro getta le reti contro ogni speranza “sulla Parola” di Gesù (cfr Lc 5,4-11), sono convinto che il medesimo atteggiamento di fiducia e di collaborazione debba alimentare nella semplicità l’itinerario di conversione delle comunità. Per questo vale la pena riprendere tra le mani in modo analitico il brano di Tessalonicesi.

  • Abbiate riguardo per quelli che faticano tra voi. Anche l’esercizio dell’autorità deve essere sempre rivisitato alla luce del bene comune e della Parola di Dio.

  • Vivete in pace tra voi. Se la pace non è solo assenza di conflittualità, allora essa richiede che i membri di una comunità agiscano ponendo gesti di pace, sia in modo “preventivo” (cioè per evitare conflittualità), sia in modo “terapeutico” (cioè per rimediare eventuali fratture).

  • Correggete gli indisciplinati. Nella comunità dei primi secoli, e nella chiesa di sempre, è molto vivo il senso della correzione di coloro che non intendono conformarsi alla “regola”. Per la sua delicatezza, tale raccomandazione esige l’acquisizione di una piena maturità umana e cristiana, e l’esercizio delle virtù evangeliche nella prospettiva di “guadagnare” il fratello (cfr Mt 18,15).

  • Confortate i pusillanimi. La testimonianza della Scrittura al proposito è unanime: il “conforto” nel timore significa il riconoscimento che il cammino di conversione impedisce di pensare solo a sé.

  • Sostenete i deboli. All’interno della comunità si deve prendere atto dell’esistenza di una distinzione tra “forti” e “deboli”. Questa distinzione lascia intuire il ruolo dei più “forti” verso coloro che per la loro debolezza hanno la tendenza a soccombere di fronte alle difficoltà (cfr Rm 15,1).

  • Siate pazienti con tutti. Come il popolo di Israele nel deserto, così la comunità cammina secondo il passo del più lento.

  • Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno. Un richiamo dai toni duri che fa risaltare l’altra parte dell’esortazione:

  • Cercate sempre il bene tra voi e con tutti. Nel “sempre” del versetto è insito il pensiero di una autentica “strategia” di bene messa al servizio della comunità e dell’umanità.

  • Siate sempre lieti. La tipicità della gioia cristiana, come effetto della redenzione e dono dello Spirito, si rinviene esattamente nella gioia.

  • Pregate incessantemente. Il compito di intercessione per il mondo, e al tempo stesso di santificazione del tempo e di unione con Dio, sono al cuore delle attività della comunità.

  • In ogni cosa rendete grazie. Potremmo quasi tradurre: in ogni cosa celebrate l’Eucaristia. Il senso di gratitudine a Dio coinvolge l’intera vicenda della comunità cristiana, persino nelle avversità e nel conflitto.

  • Non spegnete lo Spirito. L’attenzione alla realtà spirituale, cioè all’opera dello Spirito, si manifesta anzitutto nell’abbandono dei preconcetti per i quali, spesso, si precludono le vie del rinnovamento e del risanamento del mondo. A questo scopo attingiamo dall’induismo una considerazione che può valere anche per noi: “L’indù concepisce la sua religione prima di tutto come l’esperienza dello Spirito nell’uomo. L’uomo si ispira alle esperienze spirituali dei RISHI, dei sapienti e degli dèi. Per lui, l’Assoluto presente dappertutto, che egli chiama BRAHMAN o Signore supremo, o Isvara che ne è la personificazione, è la realtà stessa che si deve sperimentare e realizzare” (Dhavamony, 511).

  • Non disprezzate le profezie. Vi è una esigenza di “ascolto” delle varie voci all’interno della comunità che va oltre la cortesia e la prassi consolidata. È vittoria sulla tendenza a fare delle proprie sensibilità il metro di giudizio della volontà di Dio.

  • Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Una comunità creativa alla luce della Parola sa riconoscere il bene ovunque esso sia, e pertanto non esclude a priori nulla, anzi “esamina ogni cosa”. La stessa azione pastorale va continuamente letta secondo questo criterio.

  • Astenetevi da ogni specie di male. L’esortazione finale, che ricalca da vicino l’analoga detta in precedenza, corona l’itinerario di conversione: l’acuto discernimento di cui il credente è chiamato a rivestirsi spinge al rifiuto di qualunque cosa possa costituire opposizione al desiderio salvifico di Dio e alla crescita della persona umana.

Con grande fiducia nel Dio buono

Sarebbe un falso teologico fondare un cammino di perfezione solo sulle forze umane. Ma se dal punto di vista della fede possiamo sperare legittimamente nell’elevazione dell’intero creato a Dio, è solo a motivo della bontà del Creatore. A lui rivolgiamo il nostro amore e la nostra mente: “Il Dio della speranza vi riempia di ogni sorta di gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per virtù dello Spirito Santo” (Rm 15,13). Amen.

Bibliografia

  1. Il Trattato delle Benedizioni (Berakhot) del Talmùd Babilonese, UTET, Torino, 1968

  2. Hans Urs von Balthasar, Il tutto nel frammento. Aspetti di teologia della storia. Sezione settima. Preghiera e mistica. Volume XXVII, Jaca Book, Milano 19902

  3. Ettore Signorile, La predicazione dei laici. Corresponsabilità ecclesiale dell’annuncio: requisiti e norme, Piemme, Casale Monferrato 1994

  4. Dalai Lama, Incontro con Gesù. Una lettura buddhista del vangelo, Mondadori, Milano 1997

Mariasusai Dhavamony, “Dialogo cristianesimo-induismo” in Grande Dizionario delle Religioni, Cittadella-Piemme, Assisi-Casale Monferrato, 19902