Zibaldone della settimana – 13

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Meglio soli, che male accompagnati

Non c’è una sola solitudine


 

Meglio soli, che male accompagnati

Il mio caro collega don Marco ha scritto un tweet


 la cui immagine dice così:

Ne è nato uno scambio. Io rispondo che a me sembrerebbe un delirio a due: “Manco morto!“. Lui sostiene che “Meglio in due, reciprocamente rispettosi, che la solitudine o il nulla cosmico“.

Marco, qui continuiamo a giocare sull’equivoco. La premessa era la #formazionepermanentedelclero. Tu sei più giovane e più bravo di me, molto più integrato nel sistema. Io, vecchio e tardo di comprendonio, ancora non ho capito cosa intendete voi esperti.

SE la formazione permanente del clero è

  • un amico con cui parlare, ALLORA ho già tanti amici (e amiche), me ne scelgo uno, laico o prete fa poca differenza, e parlo con lui (lei)
  • uno sconosciuto con cui stare in silenzio, ALLORA salgo sulla metro, mi guardo attorno, almeno mi gusto un po’ di fauna locale, di sicuro non telefono al primo che càpita, non cerco un sito di incontri
  • aggiornarsi su argomenti non teologico-ecclesiastici, ALLORA mi iscrivo ad un corso, acquisto libri, vado a seminari, frequento associazioni, la curiosità intellettuale manco richiede di essere invitata
  • aggiornarsi su argomenti teologico-ecclesiastici, ALLORA mi rivolgo ad una Università Pontificia, qui a Roma c’è solo l’imbarazzo della scelta, mica aspetto che qualcuno mi dica di farlo
  • aggiornamento obbligatorio, ALLORA l’Amministrazione e i Sorveglianti fissino date e modalità, riducano gli impegni per il tempo necessario, uno si organizza e fa quello che gli dicono di fare
  • fare gite con colleghi, ALLORA se non mi pagate per parteciparvi no grazie, fare attività con colleghi di lavoro è lavoro, vacanze e gite sono out (oppure ricadono nella categoria un amico con cui parlare)

Purtroppo la formazione permanente del clero, quella che io conosco, non è niente. Lo ripeto: è fumo negli occhi, banalizzazione di ogni professionalità ministeriale.

32 anni di servizio, almeno una volta ogni 5/6 anni mi sarei aspettata una mail di questo tenore:

Reverendissimo eccetera eccetera, in considerazione del fatto che non risulta a questa Amministrazione che lei nell’ultimo lustro abbia soddisfatto gli impegni della sua formazione permanente, la sollevo da ogni incarico per permetterle di seguire il percorso formativo, le cui spese si intendono interamente a carico di questa Amministrazione, appresso indicato: (1) CORSO eccetera eccetera 30 giorni; (2) PELLEGRINAGGIO-STUDIO eccetera eccetera 15 giorni; (3) RITIRO eccetera eccetera 7 giorni; (4) WORKSHOP INTERDIOCESANO eccetera eccetera 7 giorni. Le comunico che l’Incaricato della sua supervisione è il dottor (reverendo – professor – eccetera eccetera) Tizio Caio. Al termine del percorso formativo le sarà rilasciato un attestato, unitamente alla valutazione dell’Incaricato. Di tali evidenze sarà fatta menzione nel suo fascicolo curricolare. Al termine del richiesto percorso formativo sarò lieto di valutare insieme a lei il prosieguo della sua collaborazione con questa Amministrazione.

Cordiali saluti.

L’Eminente Sorvegliante Vicario Generale

Naturalmente sono consapevole di essere io che sbaglio. Soprattutto in questi ultimi tempi, nei quali pare proprio che professionalità, competenza, preparazione, siano bestemmie che mettono in dubbio la “provvidente creatività spirituale” (aka, improvvisazione dilettantesca).

Solo di una cosa resto certo, della saggezza popolare: meglio soli, che male accompagnati. Altro che meglio in due.

***

Non c’è una sola solitudine

Sono sempre stato un po’ sorpreso del fatto che periodicamente o comunque sotto vari aspetti ogni tanto si rispolveri il tema della “solitudine dei preti”. E mi torna in mente il poeta:

Ognuno sta solo sul cuore della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Ognuno. Perché i preti no, non dovrebbero?

Certo, distinguerei tra solitudine e solitudine, non ce n’è una sola. Non c’è una sola solitudine, tanto che parlerei di solitudini al plurale.

C’è la solitudine scelta, della vocazione; e quella imposta, della vedovanza. C’è la solitudine psicologica dei depressi, quella relazionale dei timidi e quella del misantropo.

C’è la solitudine dell’insoddisfazione e quella della profezia. La solitudine del capo e quella della povero. La solitudine del malato e quella del soldato in combattimento.

La solitudine dei preti è una delle tante, numeri alla mano nemmeno la più diffusa, al confronto con altre nemmeno la più disumana.

Certo, pure dei preti non in sintonia con la loro solitudine occorre giustamente prendersi cura a livello professionale. Come si farebbe con qualsiasi altro soggetto sofferente.

La frequenza con cui in tempi recenti si ripropone l’argomento dimostra però che alcuni modelli educativi sono diventati insufficienti. L’insistenza con cui il tema si ripresenta fa sospettare che lo stesso modello di esercizio del ministero sia complessivamente da rivedere, non saprei dire se addirittura il modello antropologico: siccome quando la realtà dice una cosa e il modello un’altra è quest’ultimo a doversi aggiornare. Contra factum non datur ratio.

Poi ci sarebbe da chiedersi se la solitudine terrorizzante di Giacobbe o l'”oscura notte dello spirito” di Giovanni della Croce non siano state adeguatamente comprese a livello teologico-spirituale dai candidati all’ordine sacro. Forse si scoprirebbe che la fragilità umana lamentata da alcuni ministri incapaci di misurarsi con la solitudine nasconde una ben più radicale fragilità della vocazione che chiama in causa la fragilità di una Chiesa sempre meno capace di stare “sola cum Solo” e di discernere tra i suoi figli i segni di un autentico servizio ecclesiale.