Può un padre permettere di perdersi e morire?

Arturo Martini (Treviso 1889- Milano 1947) - Il Figliol Prodigo (1926 – Acqui Terme, Casa di riposo Ottolenghi)

Arturo Martini (Treviso 1889- Milano 1947) – Il Figliol Prodigo (1926 – Acqui Terme, Casa di riposo Ottolenghi)

Nel racconto lucano che passa sotto il nome di “parabola del figliol prodigo” la figura che di sicuro andrebbe messa in rilievo è quella del padre. Per quanto questa figura occupi una posizione apparentemente defilata, in realtà è stato ben dimostrato dalla teologia del Nuovo Testamento che l’obiettivo del Signore Gesù era proprio quello di rivelarci – con un esempio sconvolgente – qualcosa di più intorno al cuore di Dio.

Un cuore paterno, un cuore misericordioso. Un cuore attento all’uomo, soprattutto all’uomo perduto, morto, al peccatore.

Sulla prima parte del capitolo 15 del vangelo di Luca ho già avuto modo di dire qualcosa in questo articolo. Vorrei a questo punto aggiungere alcune riflessioni sulla seconda parte, quella compresa tra i versetti 11 e 32, senza dimenticare l’incipit: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano. Allora disse loro…“.

Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

 

Fa bene rileggere o riascoltare queste parole. San Giovanni Paolo II le tenne ben presenti scrivendo la sua enciclica Dives in Misericordia, nn. 5-6 (1980). Il santo papa, perfettamente in linea con la sua antropologia e con il pensiero costante rivolto alla redenzione umana che lo accompagna fin dalla sua prima enciclica, ha una intuizione felicissima: con il ritorno del figlio a casa “il padre è consapevole che è stato salvato un bene fondamentale: il bene dell’umanità del suo figlio. Sebbene questi abbia sperperato il patrimonio, è però salva la sua umanità. Anzi, essa è stata in qualche modo ritrovata… si può dunque dire che l’amore verso il figlio, l’amore che scaturisce dall’essenza stessa della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad aver sollecitudine della dignità del figlio” (n. 6).

Il papa colloca la rivelazione della misericordia del padre (analogia di quella del Padre celeste) al momento dell’accoglienza del figlio che torna; spiega anche che l’attesa attenta, la corsa, la commozione sono tutti indizi di quel cuore paterno che, pieno di amore, spinge interiormente alla conversione e mostra come “la fedeltà del padre a se stesso è totalmente incentrata sull’umanità del figlio perduto, sulla sua dignità“.

Tale prospettiva, nella quale si mette in luce costantemente la fedeltà del Padre e la sua misericordia come ispiratrice di ogni suo atto, ci consente di fare una virata di 180° rispetto al momento del ritorno del figlio, spostarci cioè al momento della sua partenza.

Perché il padre ha ceduto alle richieste del figlio minore? Perché ha permesso che egli partisse e lo abbandonasse? Perché ha consentito che egli si esponesse a pericoli sproporzionati, ben conoscendo la sua indole e la giovane età?

Difficilmente si potrebbe sostenere che il padre ha ceduto per debolezza; il seguito della parabola ce lo mostra tutt’altro che fragile genitore. Non ha ceduto nemmeno per giustizia; non era tenuto a riconoscere al figlio minore una parte di patrimonio prima della sua morte. Non ha beneficato e lasciato partire il figlio neanche in prospettiva dello sviluppo di un progetto industriale; le intenzioni del figlio sono chiare fin dalle prime battute del racconto, e il figlio maggiore le conosceva bene dal momento che, senza nemmeno aver visto rientrare il fratello, può indicarlo al padre come “questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute“.

La storia evangelica, tra le sue pieghe, riesce a rivelare il volto di un padre tanto fedele alla sua paternità al punto di permettere a suo figlio persino di perdersi, persino di morire – o di rischiare di morire. Perché un padre dovrebbe arrivare a tanto? Con San Giovanni Paolo II possiamo rispondere che così accade perché il padre non può non essere fedele a se stesso, in una fedeltà incentrata sull’umanità del figlio, sia quando costui da perduto viene ritrovato, sia prima, quando da accolto vuole allontanarsi dal padre.

Tale è il costante comportamento di Dio, Padre celeste, il quale nella fedeltà a se stesso trova più rispettoso per la dignità umana lasciare che la sua creatura liberamente scelga di allontanarsi da lui, persino di combatterlo. Solo basandosi su questa fedeltà è possibile all’uomo compiere il percorso inverso, perché nessuna creatura troverà lesivo della sua dignità avvertire l’attrazione della fedele misericordia di Dio sulla sua libertà.

Di sicuro questa riflessione impone di ripensare anche alcune posizioni pastorali, soprattutto laddove la Chiesa, nella fedeltà al suo Signore, pur non potendo consentire al peccato e non dovendo scendere a compromessi con il male, anzi chiamando con il loro nome peccato e male, è chiamata ad avere sollecitudine dell’umanità dell’uomo, a prendersene cura, ad accoglierne la libertà nel pieno rispetto della sua dignità. Riconoscendola misteriosamente presente tanto nella conversione quanto nell’allontanamento.