La fede e l’esultanza del cuore
La fede e l’esultanza del cuore
Omelia per il Pellegrinaggio giubilare in occasione della memoria del Cuore Immacolato di Maria
Is 61,9-11
1Sam 2,1.4-8
Lc 2,41-51
Come nel vangelo la Sacra Famiglia ci viene mostrata durante il pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme in una carovana familiare, così questa comitiva, quasi famiglia, in modo familiare, si è messa “in carovana” per compiere il suo pellegrinaggio giubilare a S. Pietro in Vaticano, celebrando nella Cappella delle Partorienti. Possiamo dire che la liturgia odierna comprende, abbraccia in certo modo la nostra storia. Vediamo perciò di trarne tutto il profitto possibile.
Vorrei mettere in evidenza due elementi, tra quelli che mi sembrano più significativi al nostro scopo: la fede e l’esultanza.
Maria e Giuseppe attendono per 12 anni che il loro figlio Gesù sia abbastanza forte per affrontare il viaggio, pure non molto lungo ma all’epoca certamente non banale, verso la Città Santa in occasione della Pasqua. Un nucleo familiare mostra di praticare insieme la fede e la Sacra Famiglia diventa esempio del modo in cui la fede si vive e si trasmette. Esempio per le famiglie ad ogni livello, non solo per la famiglia quale nucleo della società umana ma anche per le famiglie religiose dei consacrati e delle consacrate. La fede è dono che Dio fa ordinariamente attraverso la testimonianza della vita di altre persone. Non ci possiamo dare la fede da soli, la riceviamo di continuo, la corroboriamo di continuo, la rinnoviamo di continuo. Senza con questo avere la pretesa di diventare giudici o “educatori” della fede altrui. Il delicato riguardo di Maria e Giuseppe nei confronti di Gesù è stato quello di avergli consentito di crescere, di svilupparsi, di vivere la sua infanzia senza imporre a lui un modello di fede e tradizioni che non sarebbe stato capace di capire e di tollerare e per 12 lunghi anni hanno rinunciato loro due, i genitori all’espressione della propria fede. Nel suo insegnamento, molti anni più tardi, il Signore se la prenderà esplicitamente contro gli scribi e i farisei che “legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23,4). Di sicuro Gesù ha imparato da Maria e Giuseppe che la fede si trasmette nel rispetto dei tempi e delle forze di ciascuna persona e non imponendo scelte, per quanto giuste. Quanto abbiamo da imparare nelle nostre comunità!
Maria e Giuseppe si stupiscono di vedere Gesù tra i dottori del Tempio di Gerusalemme. Si rendono conto in quel momento, con apprensione e forse con un pizzico di amarezza, che Gesù sta crescendo e rivendica spazi di autonomia. Sono costretti ad ammettere che Gesù li sorprende e in qualche modo li supera nelle loro stesse previsioni. I genitori pensavano di far fare una prima esperienza al loro figlio. Invece è il loro figlio che fa fare una prima esperienza a loro: l’esperienza della supremazia del Padre. Si compie per Maria, e sicuramente anche per Giuseppe, quanto i Padri Conciliari con espressione felice sostengono della Madonna: “la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce” (LG 58). Maria e Giuseppe pensavano di portare il loro figlio in un pellegrinaggio per trasmettergli la fede ricevuta dai loro padri, invece è il Figlio che li fa avanzare nella fede nel Padre e li obbliga a “cercarlo”. Lo smarrimento del vangelo non è quello di Gesù, che pare tutt’altro che smarrito, ma quello di chi ha perduto il Signore e deve persino tornare indietro sui suoi passi per cercarlo. Ricerca del Figlio, incontro con il Padre: questo è un autentico pellegrinaggio della fede, la peregrinatio fidei che la Chiesa riconosce anche la Vergine Maria ha compiuto.
Quest’oggi noi siamo pellegrini insieme come un’unica famiglia, passiamo una Porta Santa, professiamo la nostra fede. Tutti gesti che prima ancora di evocare il significato giubilare ci riportano a quell’esigenza primaria di prendersi cura di una fede dinamica quale è la nostra. Se ci rendessimo conto che la fede da noi professata e praticata è una fede da arrivati allora vuol dire che abbiamo fatto un viaggio in carovana ma abbiamo lasciato Cristo da qualche altra parte. La fede non è rappresentata dal fatto che noi abbiamo portato il Signore nel nostro viaggio, ma che il nostro viaggio, il nostro pellegrinaggio è un inseguire il Signore, un ricercare continuamente il Signore, un incontrare il Signore laddove lui ha deciso di lasciarsi incontrare.
La Scrittura sembra unanime nel riferire un’esultanza interiore, del cuore, dell’anima, di fronte a questo incontro della fede. In Isaia, uno dei capitoli finali del libro, sembra del tutto dimenticato il travaglio del profeta che ha caratterizzato tutto il percorso precedente. “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio”. Isaia vede finalmente realizzate le promesse di salvezza, di pace e di giustizia che nella prima parte del suo libro aveva inseguito attraverso il tormento della lotta e della condanna.
Anche l’anima di Anna, madre del profeta Samuele, la storia della quale ha inizio nell’intima sofferenza, tutta femminile, della sterilità, “esulta nel Signore” quando vede finalmente compiersi la promessa. Una promessa implicita, intessuta di un dialogo interiore, di preghiera e donazione. Circondata dall’affetto del marito. Promessa che, realizzata, vince debolezza e fame, povertà e addirittura morte. Anna, vinta dalla vita, esulta intimamente perché è riscattata dal Signore.
Infine Maria, la cui anima magnifica il Signore e il cui spirito esulta in Dio suo Salvatore, si unisce in modo speciale a questo coro di esultanza. Lei non ha personalmente vissuto una condizione come quella di Isaia o come quella di Anna: non pare essere stata personalmente tormenta da lotte interiori o esteriori; non sembra aver personalmente sperimentato un fallimento esistenziale. Se per lei cercassimo motivi di esultanza in una dialettica tra una condizione di partenza negativa e la realizzazione di una condizione finale positiva non ne troveremmo.
Maria, madre di Gesù, non esulta perché – quasi utilitaristicamente, con un pizzico di egoismo – ha soddisfatto qualche suo bisogno personale ma esulta della sovrabbondanza della grazia riversata da Dio sugli uomini. Esulta non perché Dio ha soccorso lei, ma perché ha soccorso Israele attraverso di lei, umile e serva. Il cuore di Maria si mostra aperto, “magnanimo”, grande e accogliente: Maria non pensa tanto a sé quanto a coloro che per il suo sì sono raggiunti dalla salvezza. Davanti agli occhi di Maria sono i poveri e gli umili, oppressi da coloro che possiedono ricchezze e vivono con superbia; la sua esultanza è nel vederli circondati dalla grazia del Signore, e lei ne è la prima testimone e il privilegiato strumento.
Preghiamo il Signore che ci faccia prendere consapevolezza, nel nostro pellegrinaggio della fede, di quanta grazia ci ha circondati. L’amore, il perdono, la misericordia, i carismi, la famiglia, la Chiesa… quanti motivi di esultanza e di riconoscenza abbiamo! Mi sorprende come tante volte la nostra tristezza, i nostri musi lunghi, l’ostinazione davanti a piccoli dettagli che consideriamo ostacoli insormontabili per la nostra felicità (come certi asini piantati nella loro posizione, che non vogliono più camminare…) ci facciano perdere di vista tutto il bene ricevuto. Il Signore, a imitazione di Isaia e di Anna, ci dia un’anima capace di gioire ed esultare riconoscendo tutti i benefici che abbiamo ricevuto.
Maria ci sia accanto, poi, perché impariamo ad esultare per il bene degli altri. Impariamo a diventare strumento, a lasciare che il destinatario della grazia non sia più io ma il mio prossimo attraverso di me, e a gioire che il Signore circondi di attenzioni e di consolazione anche le persone meno considerate, gli emarginati e gli esclusi, chiamando me a diventare strumento attivo di tanta misericordia.