Perché il “Manifesto della comunicazione non ostile” non mi piace
Riproduco integralmente il testo dell’articolo di Benedetto Ponti, comparso a questo indirizzo.
Perché il “Manifesto della comunicazione non ostile” non mi piace
Vale la pensa di accettare la sfida e l’invito al dibattito rispetto all’operazione culturale lanciata con la kermesse “Parole O_Stili”, in particolare con riferimento al Manifesto che intende promuovere le “regole” della comunicazione “non ostile” sul web. Una sfida non semplice, per la verità, dal momento che il Manifesto si configura come una via di mezzo tra il decalogo e il manuale di stile, sì che la sua formulazione scivola di continuo dal primo al secondo registro. Non si comprende, detto in altri termini, se il decalogo viene proposto alla libera adesione dei “comunicatori”, oppure se intende formulare un insieme di indicazioni in qualche modo vincolante, quantomeno sotto il profilo della legittimazione all’esercizio della libertà di parola. Una ambiguità di fondo, che costituisce una prima ragione di perplessità, sotto il profilo del metodo, dal momento che su questo punto i documenti di accompagnamento al Manifesto (quantomeno, quelli reperibili sul sito dell’iniziativa) non forniscono alcun chiarimento.
Una seconda ragione di perplessità attiene alla centralità (negativa) assegnata al campo semantico dell’ostilità. Un campo semantico che risulta troppo ampio, con la conseguenza che finiscono — potenzialmente, ma anche inevitabilmente — nel mirino non solo i discorsi di odio, ma anche quelli che esprimono dissenso. Infatti, per quanto possa essere espresso in modo gentile, educato (e, al limite, ruffiano) il dissenso implica l’avversione rispetto ad una determinata tesi, idea, argomentazione, e quindi una ostilità di fondo, anche se attinente al merito di una questione. Insomma: breve (anzi logicamente impercettibile) è il passo che separa la condanna dell’ostilità dalla condanna del dissenso, con le conseguenze del caso.
Varrà la pena, su questo punto, richiamare le parole della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel noto caso Handyside vs United Kingdom, che — con una operazione semantica inversa a quella sopra paventata — si fanno carico di preservare l’agibilità del dissenso, anche nella misura in cui questo risulti offensivo, scioccante o corrosivo (e quindi, essenzialmente, ostile): “Freedom of expression…is applicable not only to ‘information’ or ‘ideas’ that are favourably received or regarded as inoffensive or as a matter of indifference, but also to those that offend, shock or disturb the State or any sector of the population”.
In questo senso, è concreto il rischio che il manifesto contro le “parole ostili” finisca per operare (certo, al di là delle intenzioni dei promotori) anche come “moderatore” del dissenso: un biglietto da visita davvero poco accattivante.
Se poi entriamo nel merito del decalogo, questi timori risultano confermati.
Infatti, il primo punto recita:
1. Virtuale è reale. Dico o scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.
In una riga, sono buttati al macero decenni di riflessioni sul ruolo dell’anonimato (e degli pseudonimi) come espediente non solo utile, ma spesso necessario all’esercizio della libertà di espressione. In particolare, l’anonimato si giustifica proprio nei contesti e nelle situazioni in cui pretendere il coraggio (di metterci la faccia) significherebbe esporre la vita, l’integrità e la libertà delle persone a rischi seri, concreti ed immediati. Sarebbe troppo lungo richiamare tutti i numerosissimi casi in cui la garanzia di una identità nascosta ha consentito l’emergere di notizie ed informazioni scomode (ma utili). Basterà ricordare il principio che protegge l’identità delle fonti giornalistiche, o ancora il ruolo essenziale giocato dal wistleblowing, entrambi indispensabili a contenere o disinnescare il timore di ritorsioni a fronte di un esercizio pieno della libertà di parola (il cd. chilling effect).
Sotto le vesti di un virile (“sii uomo, diamine!”) appello alla responsabilità personale, si nasconde dunque un principio essenzialmente illiberale, che sembra fare il verso (con una simmetria inversa davvero inquietante) al più noto “non ha nulla da temere, chi non ha nulla da nascondere”.
Il medesimo ordine di perplessità illumina la lettura critica anche del secondo punto del decalogo:
2. Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.
Anche qui, il richiamo alla responsabilità personale nell’esercizio della libertà di parola (le parole che scelgo) vale ad istituire un legame inscindibile tra ciò che dico e ciò che sono (ergo, con la mia identità: le parole raccontano la persona che sono, e mi rappresentano). Ma qui gli elementi di perplessità si moltiplicano. Non solo (di nuovo) la negazione del valore (o, quantomeno, del ruolo) dell’anonimato. Di più: sembra quasi che l’unico messaggio meritevole di essere curato e diffuso, sia quello che parla di sé, del proprio mondo. Insomma, una comunicazione tutta concentrata sulla dimensione personale (le parole rappresentano quello che sono), a tagliare via il racconto del mondo, lo sguardo sul mondo, anche quello che non mi rappresenta, nel quale non mi riconosco; insomma: ciò che è altro da me. Una dimensione adolescenziale della comuncazione, che nega la dimesione dialettica (quella del confronto) perché integralmente occupata nell’autorappresentazione.
***
Saltiamo ora al quarto punto del decalogo:
4. Prima di parlare bisogna ascoltare. Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.
Di primo acchitto, può apparire una saggia indicazione (ed in buona parte, lo è): chi potrebbe essere contrario all’onestà e all’apertura? Tuttavia, proprio la sintesi iniziale nasconde un tranello logico: se la prima cosa da fare è ascoltare, chi si incaricherà di parlare (per primo)? Allargando ulteriormente lo sguardo, l’invito ad ascoltare (prima di parlare) assume le sembianze del paterno rimprovero destinato all’adolescente impulsivo, incapace di dominarsi e poco riflessivo nei suoi ingenui (sebbene generosi) slanci. Chi usa la rete per esprimersi viene derubricato — by default —ad una condizione di minorità, che ha bisogno di nutrirsi dell’ascolto, prima di azzardarsi a parlare (prerogativa riservata invece a chi fa già parte del mondo degli adulti). Né è difficile scorgere, in questa rappresentazione, a chi dovrebbe essere riconosciuto, questo diritto alla prima parola (in ragione della saggezza, autorevolezza, maggiore età): si tratterebbe, niente meno, di quelle fonti di informazione “qualificate” (legacy media outlet), la cui rendita di posizione (e di credibilità) è stata messa in discussione proprio dall’avvento delle dinimiche informative abilitate dal web.
In questo senso, il manifesto rischia anche di apparire come il tentativo di riproporre la (più tradizionale) struttura gerarchica nella produzione, circolazione e fruizione delle informazioni (e delle idee), e segnala la profonda insofferenza (da parte di alcuni) nei confronti di un’ecosistema refrattario (o semplicemente inadatto) a riprodurre queste gerarchie (precostituite).
Pare opportuno, in questo senso, chiosare queste poche, sparse riflessioni sopra il Manifesto della comunicazione non ostile, con le parole di una lirica di Cat Stevens (con un titolo che è già tutto un programma…)
From the moment I could talk I was ordered to listen
Now there’s a way and I know that I have to go away
I know I have to go
[Father and Son, 1970; Tea for the Tillerman]