Storie di ordinaria santità: i preti ammazzati dal fascismo
Ripropongo un articolo dal titolo “25 aprile: il martirio dei preti per la libertà” pubblicato da Avvenire il 22/4/2012 a firma di Agostino Giovagnoli.
Sono tanti i sacerdoti uccisi dai nazisti, dai fascisti o dai loro alleati in Europa. In Germania furono ammazzati 164 preti diocesani e 60 religiosi, molti dei quali morti nei campi di sterminio. Ci furono preti uccisi anche nella Francia di Petain e nell’Italia fascista, nell’Olanda e nel Belgio occupati dai tedeschi e in tanti altri Paesi europei. In Polonia il loro numero fu particolarmente alto: tra il 1939 e il 1945 morirono qui circa 3.000 preti, di cui 1.992 nei campi di concentramento e in particolare 787 in quello di Dachau (tra di loro vi fu il vescovo Michal Kozal).
Le circostanze e le motivazioni della loro cattura e del loro assassinio furono molto diverse. In Germania, il giovane gesuita Alfred Delp fu ucciso perché accusato (ingiustamente) di complicità nel fallito attentato contro Hitler. In Olanda, padre Tito Brandsma fu arrestato e mandato a Dachau, dove venne ucciso nel 1942, per la sua opposizione al nazismo e, in particolare, per la sua strenua difesa della libertà religiosa. In Polonia fu decisivo l’intento di distruggere ciò che i tedeschi consideravano la massima espressione dell’identità nazionale polacca e, quindi, della resistenza nei confronti dell’occupante: la Chiesa cattolica.
Questa volontà distruttrice si inserì inoltre nel clima del forte disprezzo tedesco verso i polacchi che, in quanto popolazione slava, consideravano inferiore. Ma anche in Polonia, la Chiesa non fu avversata dal nazismo solo in quanto presidio del sentimento nazionale e l’espressione «nazione martire» usata da Giovanni Paolo esprime giustamente qualcosa di più e di diverso dalle sofferenze subite per motivi nazionalistici e politici. In ogni caso, anche qui le vicende dei tanti sacerdoti uccisi dai nazisti sono diverse le une dalle altre: si pensi solo a san Massimilano Kolbe, martire della carità. In Italia, molti preti furono uccisi per ragioni connesse alle attività pastorali proprie del loro ministero.
Le loro vicende mostrano anzitutto i profondi legami che univano il clero e la popolazione: vivendo in mezzo ai loro fedeli, cercarono di proteggerli dalla violenza e di alleviarne le sofferenze.
Moltissimi furono i preti uccisi per aver nascosto o salvato ebrei. Don Aldo Mei, parroco di Fiano, vicino Lucca, fu arrestato e fucilato per aver dato rifugio a un giovane ebreo. Lasciò scritto: «Muoio anzitutto per un motivo di carità, per aver protetto e nascosto un carissimo giovane. Raccomando a tutti la carità».
Anche don Pietro Pappagallo di Roma venne ucciso alle Fosse Ardeatine per aver dato rifugio a ebrei e ad altri perseguitati. Benché legato, riuscì a liberare le mani e a benedire i suoi compagni di sventura pochi istanti prima di essere fucilato.
In altri casi, i sacerdoti vennero uccisi durante una strage, per aver voluto condividere fino in fondo la sorte del proprio popolo. A Monte Sole, sull’Appennino emiliano-romagnolo, furono cinque i sacerdoti uccisi, tra cui don Ubaldo Marchioni, di 25 anni, di cui è avviata la causa di beatificazione, morto ai piedi dell’altare, subito dopo aver distribuito l’eucaristia.
Altri sono stati assassinati, perché hanno cercato di proteggere uomini e donne vittime della violenza nazifascista, come don Antonio Musumeci, parroco di Messina, intervenuto per chiedere di risparmiare due anziani coniugi malmenati dai tedeschi. Don Gino Cruschelli di Napoli fu invece ucciso nel settembre 1943, per aver preso le difese di giovani rastrellati perché andassero a combattere per il Reich. Altri morirono perché accusati di aiutare i partigiani, ma in realtà la loro colpa fu soprattutto quella di ospitare perseguitati di ogni tipo: politici, militari alleati, giovani in fuga dell’esercito di Salò, come Pasquino Borghi di Reggio Emilia.
Don Delfino Angelici fu ucciso perché aveva difeso alcune donne dalla violenza dei tedeschi. E così via. Impegnati a difendere il loro popolo dalla violenza della guerra, furono puniti per la testimonianza di pace e di carità da essi data, spesso in modo semplice e concreto. Si tratta però di una testimonianza che non esprime solo il rifiuto della violenza, bensì anche una opposizione spirituale più che politica (spesso implicita ma non per questo meno profonda) all’ideologia nazifascista, di cui la violenza costituiva una componente essenziale.
È quanto emerge ad esempio, anche nel caso di don Pietro Morosini, legato alla Resistenza romana, ma che non fu un ‘semplice’ avversario politico e militare del nazifascismo. Il socialista Sandro Pertini ha lasciato di lui questa testimonianza: «Detenuto a Regina Coeli sotto i tedeschi, incontrai un mattino don Giuseppe Morosini: usciva da un interrogatorio delle SS, il volto tumefatto grondava sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà: egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva. La luce della sua fede. Benedisse il plotone di esecuzione dicendo ad alta voce: ‘Dio, perdona loro: non sanno quello che fanno’, come Cristo sul Golgota».
Il racconto di Pertini mostra che la testimonianza di don Morosini fu percepita da chi lo conobbe soprattutto come una testimonianza sacerdotale.
E, analogamente, sarebbe errato interpretare in chiave riduttivamente politica la vicenda di don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, ucciso dai fascisti dopo la sua protesta per le violenze contro i socialisti: il senso ecclesiale del cui sacrificio è stato sottolineato da Giovanni Paolo II nel sessantesimo della morte.
Proprio perché ispirata soprattutto da motivazioni religiose e pastorali, in un certo senso l’opposizione di tanti sacerdoti al nazifascismo è stata particolarmente efficace anche sul piano politico. L’uccisione di un così gran numero di sacerdoti rivela infatti un’incompatibilità profonda tra questa ideologia e il cristianesimo.
Di padre Tito Brandsma si conserva una predica molto eloquente, in cui affermava che «viviamo in un mondo nel quale si condanna persino l’amore chiamandolo debolezza da superare […] Dicono che la religione cristiana, con la predicazione dell’amore, abbia fatto il suo tempo e debba essere sostituita dall’antica potenza germanica […] Benché il neopaganesimo [il nazionalsocialismo] non voglia più l’amore, nondimeno noi vinceremo con l’amore questo paganesimo […] Guarda come si vogliono bene tra loro. Questa frase dei pagani in merito ai primi cristiani, i neopagani dovranno dirla nuovamente di noi. Così vinceremo il mondo».
La consapevolezza di questa contrapposizione profonda, peraltro, non è stata solo di alcuni sacerdoti. Il libro di Hubert Wolf su Pio XI e Hitler ha documentato efficacemente, sulla base dei documenti conservati nell’archivio vaticano, come, già prima della guerra, la convinzione del carattere anticristiano del nazismo fosse condivisa da gran parte dell’episcopato tedesco e da molti collaboratori del Papa, tra cui Eugenio Pacelli, anche se spesso si evitò di esprimere pubblicamente tale convinzione.
Lo stesso Pio XI giunse su queste posizioni, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Si trattava, del resto, di convinzioni fondate se, in un documento della Gestapo del 1937, si legge che «non vi può essere pace tra lo Stato nazionalsocialista e la Chiesa cattolica», e, in una circolare segreta del 1942, Martin Bormann scriveva: «le concezioni nazionalsocialista e cristiana sono incompatibili». Nel 1941 lo stesso Hitler affermò: «La guerra giungerà a conclusione e io avrò, nella soluzione del problema della Chiesa l’ultimo grande compito della mia vita».