Riflessioni per le nozze d’argento del Secondo Sinodo di Roma
Aggiornato: 6 luglio 2018
Il 29 maggio 1993 si celebrava la Veglia di Pentecoste. Per Roma quella data era rivestita di un significato speciale.
Era un sabato sera caldo e soleggiato. Il sagrato di piazza San Pietro era affollato dai sacerdoti romani concelebranti, convocati per l’occasione insieme a tutto il popolo di Roma che riempiva la piazza. Tra le autorità era seduto anche il Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro (qui il protocollo del cerimoniale della visita).
Si concludeva il Secondo Sinodo di Roma, annunciato da Papa Giovanni Paolo II durante la Veglia di Pentecoste del 17 maggio 1986 (qui), aperto solennemente il 3 ottobre 1992 nella Basilica Lateranense (qui). Il prodotto finale del Sinodo fu il Libro del Sinodo (qui) che il Papa promulgò il 24 giugno 1993 (qui).
Il 29 maggio 2018, XXV anniversario del Secondo Sinodo di Roma, è passato un po’ in sordina. Nessuna menzione, nessun ricordo, nessun convegno. Come già il Primo Sinodo di Roma, voluto da Giovanni XXIII nel 1960 (qui l’allocuzione di apertura, qui l’allocuzione di chiusura). Entrambi finiti abbastanza presto nel dimenticatoio.
Non era proprio ciò che si aspettava Giovanni Paolo II, a riascoltare le parole pronunciate durante l’omelia di quella sera.
[Del Libro del Sinodo] ho già potuto apprezzare la completezza dei contenuti, la solidità teologica nutrita di parola di Dio e di magistero pontificio e conciliare, e specialmente la tensione missionaria e l’afflato pastorale. Esso potrà ben rappresentare quasi un breviario o una regola pastorale per il cammino della Chiesa di Roma sulle strade della nuova evangelizzazione, verso e oltre l’atteso Giubileo dell’anno 2000.
Vorrei sottolineare fin d’ora le proposte che lo qualificano e che dovranno costituire quasi i grandi indicatori del nostro itinerario: anzitutto la consapevolezza della singolare vocazione della Chiesa di Roma, del servizio cioè di fede e di amore a cui essa, sede di Pietro, è chiamata, verso questa Città e verso le Chiese sorelle sparse nel mondo intero. Inoltre, l’adempimento quotidiano e capillare del triplice ufficio di Cristo, che si attualizza nella Chiesa attraverso l’annuncio e la catechesi, la preghiera liturgica e personale, la testimonianza della carità: un adempimento sempre più improntato al dinamismo missionario della nuova evangelizzazione ed efficace soltanto sulla base di una concreta e partecipata spiritualità e vita di comunione nella nostra Diocesi. E ancora, un impegno pastorale di speciale intensità su quelle frontiere, come la famiglia, i giovani, le responsabilità sociali e politiche, la cultura, lungo le quali si può e si deve costruire il volto cristiano della Roma del 2000.
Cosa ne è stato di tutto questo? Senza un’analisi approfondita è praticamente impossibile determinare se la Chiesa di Roma abbia saputo raccogliere, nel corso di questi 25 anni, i frutti che lo Spirito Santo prometteva nel 1993.
Perciò, lungi dal tracciare un bilancio del percorso sinodale, mi arrischio in alcune riflessioni di carattere personale.
L’Italia (e Roma) di 25 anni fa
L’Italia di allora si trovava in piena crisi politica, devastante a tal punto da passare alla storia come la fine della Prima Repubblica. Era in corso quella operazione giudiziaria che tutti ricordano come Mani Pulite. Nel giro di un paio di anni i partiti politici classici (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito Socialista Democratico, Partito Repubblicano, Partito Liberale) furono spazzati via rimpiazziati da Forza Italia di Silvio Berlusconi.
Presidente del Consiglio nel 1992 è Giuliano Amato, il dottor sottile. La crisi economica in Italia è così grave che l’11 luglio viene varato un decreto legge da 30.000 miliardi di lire con il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari degli italiani. Non basta. Il 16 settembre 1992 passerà alla storia come il mercoledì nero per la Gran Bretagna e l’Italia. Approfittando della debolezza delle due nazioni, il finanziere György Schwartz (meglio conosciuto come George Soros) guida una speculazione vendendo sterline a pronti contro termine per un valore complessivo di 10 miliardi di dollari: la Banca d’Inghilterra fu costretta a svalutare la sterlina e lui si portò a casa in un giorno solo circa 1,1 miliardi di dollari. Stesso gioco fece con l’Italia per una perdita valutaria di circa 48 miliardi di dollari, cosa che costrinse Amato a svalutare del 30% la lira e ad uscire dal Sistema Valutario Europeo, il serpente monetario dentro al quale le fluttuazioni del cambio verso il dollaro erano fissate con limiti predeterminati. Il Governo varò quindi per l’anno successivo una manovra monstre da 100.000 miliardi di lire, tra tagli alle spese, nuove tasse e prima riforma delle pensioni.
Amato aveva ricevuto l’incarico dal Presidente della Repubblica Scalfaro, uomo dall’inconfondibile rotacismo, eletto nell’anno in cui venne giù tutto, il 1992 (qui). Sfiorato dal sospetto di essere stato al soldo dei servizi segreti civili con finanziamenti illeciti, in una drammatica diretta televisiva il Capo dello Stato alza la voce: “Io non ci sto… a questo gioco al massacro. Occorre rimanere saldi e sereni poiché prima si è tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e infame degli scandali“. È il 3 novembre 1993.
Il “prima si è tentato con le bombe” si riferisce alle tragedie di quel convulso periodo. Il 23 maggio 1992 una bomba aveva ucciso Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti di scorta. Il 19 luglio 1992 un’altra bomba fa strage di Paolo Borsellino e della sua scorta. Il 27 maggio 1993 una bomba a Via dei Georgofili uccide cinque persone (tra le quali Caterina al suo cinquantesimo giorno di vita) e ne ferisce almeno quaranta. Il 27 luglio 1993 a Milano una bomba uccide cinque persone: una di loro è Driss Moussafir, arrivato dal Marocco per finire la sua vita sulla panchina dei giardini pubblici. Sempre il 27 luglio 1993 a Roma due bombe danneggiano le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro (qui).
Dall’aprile al dicembre del 1993 il Comune di Roma, dopo le dimissioni del socialista Carraro, era stato commissariato. Carraro era rimasto praticamente solo; attorno a lui la magistratura aveva fatto il vuoto, decimando con gli arresti assessori, capigruppo, presidenti di società (qui).
La Chiesa di Giovanni Paolo II
Quando Giovanni Paolo II annuncia il Secondo Sinodo di Roma (1986) è Pontefice da nemmeno 8 anni, essendo stato eletto il 16 ottobre 1978. Alla sua elezione ha trovato una Chiesa Cattolica stanca, agitata dalle tensioni interne tra le spinte di rinnovamento post conciliare e le reazioni di chiusura e a volte di smarrimento di chi non vuole accettare la fine di un’epoca. È inaspettatamente giovane, ha solo 58 anni. Si presenta con uno stile innovativo, diretto, sostenuto da una grande forza comunicativa. Anche il mondo della guerra fredda e dei due blocchi è stanco. E lui, che viene dalla Polonia e conosce bene da dentro il fallimento comunista, lo sa. E si prepara alla sua fine, che attende con pazienza e in qualche modo affretta, con quella data simbolica del 9 novembre 1989 (caduta del muro di Berlino) che i fortunati di quella generazione seguirono praticamente in diretta mondiale.
Giovanni Paolo II sa pure che è giunto il momento di chiudere i conti con il passato. Anche in Italia. Il 18 febbraio 1984 si firma la Revisione del Concordato Lateranense, archiviando gli ultimi brandelli del regime fascista, Italia e Chiesa Cattolica sono sempre più “libera Chiesa in libero Stato“. Il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II abbraccia in Sinagoga il rabbino capo di Roma Elio Toaff, già incontrato più volte fin dall’8 febbraio 1981 quando si conobbero di persona nella canonica della chiesa di San Carlo ai Catinari.
La Chiesa di Roma continuava con i suoi paludamenti e le sue ritualità alla ricerca di una identità molto difficile da acquisire. Ancora orfana dello Stato Pontificio, ancora legata all’aristocrazia nera e ai suoi interessi economico-finanziari non sempre propriamente evangelici, ancora diretta attraverso la Segreteria di Stato in una confusione di ruoli del Vescovo di Roma – Papa – Re non sempre facile da gestire. La scelta nel 1991 di Camillo Ruini come Vicario Generale per la Diocesi di Roma ed Ostia e come Presidente della Conferenza Episcopale Italiana si rivelerà per certi aspetti uno strumento utile a restituire alla Chiesa di Roma e d’Italia la credibilità di interlocutore politico e i fasti dai toni trionfalistici tanto cari al Papa regnante.
La pastorale che (non) fu
Oggettivamente si deve riconoscere il ruolo ricoperto dalla Chiesa cattolica in Italia e a Roma in tempi di sconcerto pubblico davanti alla caduta di istituzioni e di certezze, grazie alla figura e all’opera infaticabile di Giovanni Paolo II durante un lungo pontificato in grado di rappresentare un riferimento morale sicuro.
Ma la personalizzazione esasperata della Chiesa Cattolica, eclissata da un Papa gigante; la debolezza del clero, vescovi anzitutto, sempre meno liberi di sperimentare nuove forme di pastorale e sempre più imbrigliati da un profluvio di documenti magisteriali, e poi anche preti, spuntati come funghi nella foresta incantata della chiesa wojtylana; la stessa lunghezza di un interminabile pontificato che, soprattutto durante la malattia del Santo Papa, ha fatto nascere non pochi dubbi intorno al reale governo della Chiesa e ha visto piano piano irrigidirsi tutte le strutture gerarchiche senza più direttive attorno a temi fossilizzati… tutto questo (personalizzazione, debolezza del clero, lunghezza del pontificato) ha causato il definitivo scollamento pastorale della Chiesa dalla contemporaneità.
Che fu della pastorale che il Papa del 1986 annunciava per il Sinodo?
Per me che da giovane seminarista avevo partecipato alla fase preparatoria e poi da giovane prete a quella celebrativa, il Sinodo rappresentava un autentico progetto pastorale. La Chiesa di Roma come sarebbe stata edificata negli anni successivi. Non a caso la Scrittura, ripresa dalla Lumen Gentium del Concilio Vaticano II, propone l’immagine della Chiesa come quella di un edificio il cui Architetto disegna e costruisce per il Regno dei Cieli.
Ma il silenzio che ha avvolto il XXV anniversario del Secondo Sinodo di Roma è significativo. Molti dei vecchi parroci hanno continuato a fare le cose che avevano sempre fatte come se il Sinodo non ci fosse mai stato; emblematica in proposito la preoccupazione ricorrente di stabilire con precisione l’età giusta per la catechesi e i sacramenti dei fanciulli (cfr il mio post Tra convegnismo e pragmatismo: visioni di Chiesa, dove tra le altre cose mi domandavo: “Cosa manca al processo pastorale della Chiesa di Roma? E mi sono dato una risposta, forse sbagliata…: manca il metodo“). Molti dei giovani preti ignorano il contenuto e a volte l’esistenza del Libro del Sinodo. In realtà la forza pastorale, progettuale e profetica del Secondo Sinodo di Roma sembra essersi arenata negli “uffici” pastorali del Vicariato e nell’amministrazione quotidiana delle Parrocchie.
Il Secondo Sinodo di Roma non è riuscito ad incidere a sufficienza nella vita della Chiesa romana e a realizzare i suoi obiettivi perché si sono continuati a privilegiare meccanismi personalistici e sono mancati strumenti di guida e di controllo che al di là dei mutevoli ruoli delle persone segnassero un cammino comune, sincronico (nello stesso momento) e diacronico (in tempi diversi), dell’unica comunità cristiana di Roma.
Il Secondo Sinodo di Roma non è riuscito a sviluppare le tematiche che si era posto perché la Chiesa di Roma ha preferito continuare a poggiarsi sulla debolezza intrinseca del clero, vescovi e preti, invece di puntare in modo determinato sul ruolo determinante del laicato. Ancora oggi si vedono tentativi di recuperare la retorica clericale nella speranza di restituire forza al clero. La strada tracciata dal Secondo Sinodo di Roma, nel solco del Concilio Vaticano II, andava in una direzione diversa, di servizio e di ministerialità diffusa.
Il Secondo Sinodo di Roma è invecchiato precocemente perché la Chiesa di Roma non si è mostrata capace di camminare insieme (sinodalmente) con la società civile e il mondo contemporaneo. Forte dei suoi riti arcaici e delle sue rassicuranti formule dottrinali, ha trascurato il confronto critico e costruttivo con quelli che il Libro del Sinodo ha definito gli ambiti privilegiati di impegno pastorale: la famiglia, i giovani, la responsabilità sociale, economica e politica, la cultura. Il progressivo allontanamento di tali realtà dal dialogo con la Chiesa non si sanerà facilmente con il ricorso ad un intimismo spiritualista, a meno che di pari passo non si costruiscano modelli nuovi di presenza nel mondo.
Il nuovo Vicario Generale per la Diocesi di Roma ed Ostia, Cardinale Angelo de Donatis, nel discorso per il convegno diocesano del 18 settembre 2017 (qui) richiamava all’attenzione della Diocesi il tema dell’educazione dei giovani e del coinvolgimento delle famiglie. La nomina di don Francesco Pesce (@dfrancescopesce) sempre nel settembre 2017 come Incaricato dell’Ufficio per la Pastorale Sociale del Vicariato, incarico vacante da anni, ha rimesso in moto un rinnovato interesse per le tematiche economiche e sociali.
Quanto tutto questo possa essere considerato un modo di interpretare il Secondo Sinodo di Roma è troppo presto da riconoscere. Di certo in tempi recenti il Vescovo di Roma e il suo Vicario si sono mostrati interessati ad altri temi (le “malattie spirituali” e la loro cura, qui), pare abbiano chiuso l’epoca del convegnismo ecclesiale e abbiano abbracciato uno stile di maggiore pragmatismo.
Ma ancora una volta è interessante osservare come nell’incontro del 14 maggio 2018 a S. Giovanni, mentre si è parlato “di un cammino ecclesiale che a Roma non inizia certo adesso ma piuttosto dura da duemila anni“, ad entrambi sia sfuggito di menzionare la tappa importante che quest’anno celebrava le nozze d’argento.