Quali le ragioni della fede e della speranza cristiana per l’uomo moderno? Il non credente quali ragioni oppone alla fede?

Movimento di Laici per un Apostolato Itinerante
Studentato salesiano “Gerini”

Roma – 29 febbraio 2004

Ringrazio anzitutto di avermi invitato a celebrare con voi il vostro Congresso nella prima domenica di Quaresima. Mi offrite così l’opportunità di santificare una festa e certamente di non fare penitenza! Soprattutto ammiro il vostro coraggio, nell’affidare una riflessione tanto importante in una giornata tanto significativa “a scatola chiusa” al Parroco di S. Maria Maddalena de’ Pazzi! Naturalmente farò di tutto per non disattendere la fiducia riposta in me, per la quale sono di fatto debitore ai cari coniugi Renzulli.

Il tema dell’intervento

Indicandomi il tema del mio intervento, mi era stato anche proposto di apportare modifiche, qualora lo avessi ritenuto opportuno. In realtà credo che il tema sia stimolante per più di un motivo, che tra breve andrò ad indicare. Mi sembra opportuno fare alcune precisazioni proprio a partire dal tema, che me ne offre l’opportunità.

Anzitutto si tratta di due interrogativi. Domande dirette, che invocano risposte altrettanto dirette e circostanziate. E qui s’impone la prima precisazione. Ci sono domande le cui risposte non possono dirsi mai esaurienti. Così come ci sono occasioni, e la presente potrebbe essere una di queste, in cui ogni affermazione sarà sempre necessariamente approssimativa. Ritengo appartenga alla virtù della sapienza l’essere in grado di discernere i limiti della nostra comprensione. Sarà quindi saggio affrontare il nostro argomento senza temere la nostra incapacità di comprenderlo fino in fondo.

Osservando poi la formulazione delle domande ritroviamo due elementi comuni ad entrambe: “le ragioni” e “la fede”. Cerchiamo dunque le ragioni di qualcosa: ma mentre nella prima domanda cerchiamo le ragioni della fede e della speranza, nella seconda cerchiamo le ragioni della non fede e – aggiungerei – della non speranza. Si potrebbe obiettare a tale modo di procedere l’incongruenza di cercare una cosa e il suo contrario. Eppure credo vi siano sufficienti motivi per mantenere la formulazione delle domande e la ricerca stessa delle ragioni. Uno fondamentale: vogliamo capire. Vogliamo onorare Dio utilizzando lo strumento dell’intelligenza per capire. Tanto le ragioni della nostra fede, quanto le ragioni della non fede di altri. E capire è il fondamento dell’agire. Soprattutto per quanti si mettono al servizio di Dio e del vangelo in un progetto di vita missionario.

Quindi la fede, secondo elemento comune alle due domande. Si tratta della chiave di volta dei quesiti. Stranamente, rispetto al termine speranza ugualmente citato, la fede non riceve una specificazione. La speranza è cristiana, la fede è lasciata senza aggettivi, immersa nel suo assoluto non legarsi a una confessione particolare. Se a prima vista tutto ciò potrebbe sembrare strano, ad un’analisi più approfondita dobbiamo ammettere invece che si tratta di qualcosa ben fondato. L’uomo, così come lo conosciamo noi, è strutturato per compiere atti di fede: per esempio nel suo futuro, nelle relazioni umane, nei processi innescati dalle sue azioni. Atti di fede ragionevoli, non “fideistici”, e per questo atti di fede pienamente umani. Tra tutti gli atti di fede, uno in particolare si distingue: l’atto di fede trascendente, che noi cristiani riconosciamo essere “teologale” ovvero di origine divina, dono di Dio all’umanità finalizzato al conoscere lui. Per tutto
questo non mi trovo d’accordo con quanti soffrono della tentazione di “ridurre” l’atto di fede ad una base
puramente emozionale, sentimentale, irrazionale. Pascal, un nome per tutti: “La fede è differente dalla dimostrazione: l’una è umana, l’altra è dono di Dio […] e fa dire non
scio ma credo” (Pascal, citato da Franceschelli, in MicroMega, 258).

Le ragioni della fede e della speranza cristiane

Chiedendoci quali siano le ragioni della fede e della speranza cristiane ne troviamo, perciò, una remota, fondante, ed è Dio. La fede e la speranza cristiane sono virtù, cioè abitudini buone, che hanno Dio come autore. Ne troviamo una più prossima, l’uomo stesso strutturato per compiere atti di fede e di speranza. Ma è esattamente la specificazione “cristiane” ad offrirci ulteriori suggestioni per determinare le ragioni di tali atti, riportandoci alla persona di Gesù di Nazareth.

Di fatto è in lui che il cristiano riconosce la realizzazione di quel progetto di vita e di redenzione che passa sotto il nome di storia della salvezza. La tensione che si sviluppa a partire dalla persona di Gesù è quella che S. Paolo ben definisce nell’immagine dell’uomo nuovo opposta a quella dell’uomo vecchio: Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore (Col 2,9-10). L’immagine offerta così direttamente non è però approfondita nella lettera ai Colossesi. Meno diretta altrove, viene però maggiormente delineata in vari passaggi. Come per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita (Rm 5,18). Evidente il riferimento al peccato originale; l’uomo vecchio appartiene all’umanità determinata dall’incomunicabilità con Dio e con il fratello, dalla vittoria dell’egoismo sui rapporti autentici. L’uomo nuovo vive nel regime della santificazione, conseguita dall’opera di sanazione di Gesù. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù (Rm 6,11).

Lragioni della fede (la virtù per mezzo della quale conosciamo Dio) e la speranza (la virtù per mezzo della quale conosciamo il nostro destino) cristiane riposano perciò in Cristo, e più specificamente nella sua opera di rinnovamento dell’uomo, di redenzione delle relazioni con Dio e con i fratelli, di apertura di orizzonti trascendenti. La salvezza di cui parlano queste ragioni è una salvezza che ha a che vedere con il delicatissimo rapporto tra uomo e Dio. Crediamo e speriamo perché Gesù ci ha spalancato le porte del paradiso. Crediamo e speriamo per raggiungere Gesù in paradiso e aiutare i nostri fratelli e le nostre sorelle a fare altrettanto. Nell’esprimere questi due atti di fede e di speranza l’uomo moderno non trova ragioni diverse dall’uomo di ogni tempo, del passato come del futuro.

La categoria della salvezza

Sulla categoria della salvezza si gioca un piccolo grande equivoco che appartiene all’uomo moderno forse non meno che a quello del passato, ma certamente con risvolti inediti. Non entreremo nella difficile determinazione di quella categoria che individuiamo come “uomo moderno” preferendo lasciare il suo significato al senso comune. Vi dedicheremo comunque una riflessione un poco più oltre.

È incontestabile il fatto che in un modo o nell’altro l’uomo di sempre abbia cercato un riscatto dai suoi limiti. Quelli che gli impone il suo ordine biologico (la malattia, l’invecchiamento, la morte); quelli che gli impone il suo ordine fisico (lo spostamento da un luogo ad un altro, il sollevamento di grandi pesi, la visione di cose molto lontane, eccetera); quelli imposti dall’ordine sociale e così via. Il riscatto dai limiti, visto come una sorta di salvezza senza la necessità della presenza e dell’opera di Dio, viene così a configurarsi come una realtà tipicamente terrena senza nessun riferimento al trascendente. Per chi si contenta, quella potrebbe essere la salvezza tout court. Che ha anche un certo fondamento. L’uomo è divino, perché non potrebbe tentare una salvezza con le sole sue forze? Idea forse di origine platonica, certamente rousseauniana; e più vicino a noi il complesso fenomeno della secolarizzazione (Viano, in MicroMega, 207ss). Forse le due salvezze, quella offerta da Dio in Gesù e quella ricercata dall’uomo con tutte le sue forze, non sono incompatibili tra loro, a patto che si pongano senza venire opposte e che siano comprese come due testimonianze. Sempre ricordando che non si deve mai ridurre il messaggio cristiano ed evangelico al suo contenuto morale (cfr Franceschelli, in MicroMega, 275).

Categoria complessa quella della salvezza, ma sulla quale si gioca il nostro piccolo grande equivoco. Fa paura il limite che richiede la salvezza: “la terra … non ha in sé alcuna consistenza, nulla che la salvi dalla caducità, per cui è nell’idea stessa di creazione la negazione dell’autosufficienza della terra” (Galimberti, 493); “Al ‘regno di Dio’ subentra quello che Bacone chiama il ‘regno dell’uomo’, dove si cerca di realizzare quello che non la fede in Dio ci si limitava ad attendere” (Galimberti, 496). Non è perciò così paradossale ascoltare pensatori moderni che non solo decretano la fine delle religioni, in particolare il cristianesimo, che con la loro ansia di una salvezza futura ed eterologa rispetto all’uomo mortificherebbero l’autonomia e l’autosufficienza della terra, ma addirittura pensano ad un superamento della stessa categoria di salvezza, integrandola all’interno dei sistemi umani. La salvezza diventa tecnologia, oppure politica, oppure scienza. Il tramonto delle attese dell’uomo, questa disillusione cosmica novecentesca, coincide con l’assorbimento del concetto di salvezza in ogni altra cosa che dentro il tempo umano riesca a riscattare un poco l’uomo dai suoi limiti. E con l’affermazione che nessun Dio potrà salvarci (cfr Galimberti, in MicroMega, 198) si apre l’orizzonte di una tragica orfananza.

La morbosità del gruppo come soluzione dell’orfananza

Non è un caso che mentre il pensiero, e se vogliamo anche i gusti sociali, sembrano andare nella direzione di un ateismo sistematico e pratico, quanti si vogliono ancora specchiare in un progetto divino si coalizzano e si raggruppano. Il fenomeno delle sette, tanto diffuso nel presente come nel passato, ci mostra il lato patologico e morboso della necessità di con-vivere la propria fede. Il gruppo assume una forte valenza sacrale: “Il sacro, elemento primario della socialità è, infatti, tale a condizione di opporre e di separare nel momento stesso in cui mette in contatto e riunisce. Lo spirito di setta, accompagnando all’attaccamento viscerale e fanatico per la propria ristretta cerchia un’ostilità (più o meno manifesta) verso l’ambiente esterno,
realizza in pieno la duplicità del sacro che si esprime nel privare, nel proibire, nel costruire gli interdetti e al contempo si manifesta nell’eccesso e nel dispendio delle energie tese nello sforzo estremo della fusione. In questo senso si può dire della setta quelle che Michelet aveva già segnalato come tendenza di ogni ordine e cioè che è incline a sviluppare una feroce religione di se stessa” (Maniscalco, 84).

Mi sono permesso questa lunga citazione perché credo che lo sviluppo tutto moderno, sia fuori che dentro le chiese ufficiali, di gruppi e di sette sia un fenomeno che risponde all’esigenza dell’uomo moderno di ritrovare ragioni di fede e di speranza come risposta al suo senso di orfananza. Il gruppo supplisce all’assenza di Dio. Assenza non tanto “fisica”; anzi, pare addirittura che ci si “raggruppi” nel suo nome. Quanto un’assenza “salvifica”; Dio c’è ma non ci salva, il concetto stesso di salvezza è precluso dall’orizzonte della fede. Esattamente come è escluso dall’orizzonte della fede il destino finale dell’uomo, cioè il paradiso, cioè la vita per sempre (=eterna) trascorsa con Dio. In questo senso ritengo sia sempre doveroso che i credenti in Cristo esercitino una forte vigilanza su se stessi e sulle realtà ecclesiali a cui si appartiene, perché si eviti di defenestrare Dio dalla propria fede nella pia intenzione di servirlo in nome degli ideali del proprio gruppo. Interessante al proposito riflettere sulla seguente considerazione fatta per il contesto delle sette: “Spesso la capacità e il desiderio di sottoporsi a regolo ferree non appaiono autonomi, in quanto generati da una singola ‘predisposizione’ psicologica, ma derivano dalla profonda convinzione che occorra una guida di un’autorità rigorosa (sia essa rappresentata dal leader o dalla regola stessa del gruppo) per soddisfare l’urgenza delle proprie ambizioni (sociali, politiche, religiose, magiche, estetiche, scientifiche,…), per indirizzare i propri slanci verso un interesse superiore che li possegga, verso un ideale che li trascenda” (Maniscalco, 146).

L’uomo moderno di fronte all’uomo nuovo

Abbiamo appena toccato la prima delle due domande e delineato uno scenario di risposta. La realtà mi sembra molto più complessa di quanto non appaia anche dalle parole che finora ho speso. Basti pensare alla categoria dell’uomo moderno. Alcuni potrebbero farci notare che la modernità ha varie velocità: una è la velocità dell’uomo occidentale, altra di quella africano, altra ancora di quello asiatico o sudamericano. Inoltre ci si potrebbe osservare che quasi tutti i pensatori sono d’accordo nel ritenere che l’uomo occidentale sia un uomo post moderno, cioè sia un uomo che ha superato da molto tempo l’euforia di essere diventato moderno abbandonando al suo destino l’uomo antico e medievale e si è impastoiato nella fatica di dover addirittura ritrovare le ragioni dell’umano vivere quotidiano, figuriamoci quelle della fede.

Mi porrei ora da una prospettiva, che potrebbe chiamarsi la prospettiva del missionario, dell’evangelizzatore. In tale prospettiva è urgente che un missionario si appresti, prima di affrontare lo sforzo
di una catechesi esplicita, a ricostruire il tessuto umano su cui il vangelo può essere scritto. E qui non c’è differenza tra società europea e società africana, tra illustre pensatore tecnocrate e umile oscuro operaio. La ricostruzione del tessuto umano è
già essa stessa vangelo. È liberazione dell’uomo dai sinistri effetti dell’egoismo. L’uomo nuovo che il Messia ha inaugurato, l’uomo transtorico, pronto per l’eternità, è l’uomo amorevole, fedele, buono. Il cristiano pone l’uomo moderno di fronte all’uomo nuovo. Il moderno invecchia, e troverà sempre nella persona del Messia la novità che ricerca.

La seconda domanda: contorni del non credente

Passiamo ora alla seconda domanda. Mi interessa in particolare definire subito i contorni della figura del non credente. Come vi è noto, in preparazione al Sinodo Diocesano di Roma fu condotta un’indagine sociologica che fotografasse la realtà romana. L’indagine è datata, ma alcune informazioni ci sono ancora utili.

Alla domanda “Lei si ritiene appartenente ad una chiesa, denominazione, organizzazione religiosa?” rispose no solo il 12,9% degli intervistati. Tranne una irrisoria percentuale di mancate risposte, tutti gli altri si sono dichiarati appartenenti ad una organizzazione religiosa, e l’86,5% alla chiesa cattolica. Alla domanda “Lei si ritiene credente?” rispose di sì l’82,6%, mentre gli indifferenti e gli atei insieme risultavano il 10,8% cioè meno ancora di quelli che dichiaravano di non appartenere a qualche organizzazione religiosa. Se dovessimo trarre qualche conclusione a partire da questi numeri, dovremmo dire che il fenomeno della mancanza di fede è un fenomeno particolarmente limitato.

Le prospettive cambiano quando si comincia ad indagare sul rapporto di coloro che si dichiarano credenti con la propria fede e la propria organizzazione religiosa. La domanda era la seguente: “Se lei in qualche misura si ritiene una persona religiosa con quale frequenza partecipa alla pratica religiosa?”. Il 39,6% ha risposto raramente, mai e solo il 27,0% dice di praticare spesso. Inoltre mentre il 74,9% dichiara di non appartenere a gruppi, associazioni, movimenti collegati alla chiesa cattolica, solo il 5,20% dice che frequenta gruppi formativo-religiosi. Se ne deduce, in soldoni, che tra la consapevolezza di credere e la prassi religiosa
nonché quella collegata al rapporto con gli altri credenti si apre una voragine difficilmente interpretabile. Benché il sospetto di trovarsi di fronte ad un
ateismo di fatto sia molto forte.

Ateismo come fenomeno del credente

Sono convinto che occorra per un momento abbandonare l’idea che l’ateismo sia quel fenomeno intellettuale riservato a categorie molto limitate di aristocratici pensatori, oppure di abbrutiti mentecatti. La stessa indagine, appena citata, ci offre un contributo significativo sull’atteggiamento dei credenti rispetto alla propria fede. Gli intervistati pensano che i segni visibili della presenza della chiesa cattolica nella città di Roma siano per il 54,3% la presenza del Papa, per il 31,1% la vita e le attività delle parrocchie. Si deve dire che, invitati ad indicare l’oggetto della “missione” della Chiesa, gli stessi hanno risposto per il 48,4% trattarsi di “evangelizzare, predicare la parola di Dio, di Cristo” e il 30,4% “stare dalla parte dei deboli, poveri, emarginati”. Ma quando si domanda di indicare le modalità dell’annuncio evangelico, una percentuale che varia tra il 50 e il 78 percento si rifiuta di rispondere. Dei restanti il 29,1% sceglie l’indicazione di “dare testimonianza di povertà e semplicità” mentre tra la minoranza viene più gettonata l’ipotesi di “non aver paura dei potenti” (media 2,36%).

Al termine di questo excursus pongo una domanda che trovo inquietante ma ineludibile: è possibile che esista un’esperienza religiosa in cui il credente “creda di credere”? Un’esperienza religiosa, cioè, in cui la fede è supportata solo dalla convinzione che si stia credendo in qualcosa, ma dove l’oggetto della fede sia sfumato, consumato, inesistente, autoreferenziale? L’indagine socioreligiosa del 1987 non risponde a questa domanda, ma ci fornisce degli elementi che sembrano andare nella direzione di una risposta positiva. La categoria del “non credente” sembra essere ampiamente superata dalla categoria dell’“ateo di fatto”: per quest’ultimo il dichiararsi credente è un prerequisito necessario. Solo chi si dichiara credente può essere “ateo di fatto”.

Le ragioni del non credere

Non posso eludere la domanda di questo intervento. Ma mi permetto una piccola correzione. È impossibile infatti radunare sotto l’unica categoria del “non credente” un mondo che appare variegato e pieno di sfumature. Insomma occorrerebbe chiedere ad ogni singolo non credente (ideologico o di fatto) le ragioni per cui si oppone alla fede, anche quando questa opposizione non è completamente esplicita. Dobbiamo evitare però le trappole del soggettivismo. Per questo credo che sia utile procedere chiedendosi piuttosto se esistono e quali possono essere le ragioni del non credere. Per non ingaggiare, cioè, la fatica della fede cristiana. Indico così alcune risposte, senza presunzione di esaurire lo scenario, e forse nemmeno di ricercare autentiche ragioni, accontentandomi di individuare alcuni sfondi comuni.

Tra le realtà storiche che hanno contribuito a sgretolare le ragioni della fede troviamo quella della “sfida modernista”, così elencate da Kurtz, 218:

  1. La sostituzione di tradizioni religiose con il razionalismo, lo scientismo, l’individualismo.

  2. La secolarizzazione della vita pubblica e la privatizzazione di quella religiosa, cosicché individui di fedi diverse possono condividere una vita sociale comune.

  3. La rivitalizzazione di formule tradizionali.

  4. La costruzione di forme quasi-religiose che adempiono a molte funzioni sociali e psicologiche, come la religione civile e il nazionalismo. 

  5. La creazione di nuovi tipi sincretistici di credenze e di pratiche religiose.

Più vicino ai nostri giorni dobbiamo segnalare il contributo che hanno dato le forme di urbanizzazione alla demolizione delle certezze rurali. Da una parte troviamo i piccoli centri periferici, fortemente integrati a livello sociale e ancorati a tradizioni che si manifestano anche con una pietà popolare spesso non del tutto purificata di elementi magico-superstiziosi, ma comunque testimonianza di un atto di fede semplice e condiviso. Dall’altra parte troviamo gli insediamenti urbani spersonalizzanti, incapaci di creare solidarietà e integrazione, macchine che bruciano tempo e risorse creando nuove forme di povertà e sottraendo all’individuo la completa gestione persino del suo tempo, e di quello che può dedicare all’interiorità, variamente intesa. È chiaro: luci e ombre non sono così nettamente delimitate. Ma gli scenari sono facilmente intuibili, e il vissuto quotidiano può esserne una piccola dimostrazione.

Un aspetto che coinvolge in modo puntuale la realtà ecclesiale è l’incapacità di molte realtà ecclesiali, soprattutto delle parrocchie, a fare proposte di autentica crescita spirituale e di fede che giungano in modo efficace all’attenzione delle persone. È degna di nota a proposito l’indagine condotta da Allario, 49-58 riferita alla popolazione “anziana”, dalla quale emerge il dato già a noi noto della percentuale particolarmente elevata di coloro che si dicono credenti (86,4%) e che trovano nella parrocchia un punto di riferimento (61,9%), ma allo stesso tempo partecipano alle sue attività mai o qualche volta (64,5%). Un dato che fa riflettere sulla reale efficacia delle azioni pastorali e che in qualche modo ci fa ripensare alle parole della Gaudium et Spes che individua tra le cause dell’ateismo anche i credenti: “Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione” (19).

Le cose cambiano un poco se guardiamo l’universo giovanile (Martignago). L’80% si dichiara cattolico, ma solo il 45,5% dice di avere una matrice cattolica. Quel che non meraviglia più sono alcuni dati di cui siamo ormai consapevoli tutti: “Per il 55,6% dei giovani, credere in Dio è un bisogno dell’uomo… I dati mostrano una sensibile varietà di adesione ai contenuti della fede cristiana che, tuttavia, dovrebbero avere grandi ripercussioni sulla condotta di vita, in realtà però questo non si riscontra. Assai discontinua è la condivisione delle credenze circa gli ultimi eventi a cui va incontro l’uomo al termine della vita. Molti teologi e pastoralisti lamentano che sugli ultimi accadimenti sia calato il sipario dell’oblio anche in campo religioso. Oggi si parla poco della morte, del giudizio, dell’inferno, del paradiso, del destino ultimo ed eterno
dell’uomo, dell’‘altra dimensione’” (Martignago, 71s). Forse per questa ragione è sempre più attivo una sorta di
fai-da-te della ricerca delle realtà dopo la morte. Non a caso i giovani sembrano essere attratti dal paranormale, dallo spiritismo e dalla magia.

Fede e speranza: l’atto coraggioso di una beatitudine

A conclusione di questo mio intervento, del tutto sproporzionato alle dimensioni delle domande che mi erano state sottoposte, penso sia opportuno richiamare la nostra attenzione alle parole di una pagina del vangelo pasquale alle radici della fede cristiana: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiude, si fermò in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Poi disse a Tommaso: ‘Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!’. Rispose Tommaso: ‘Mio Signore e mio Dio!’. Gesù gli disse: ‘Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!’” (Gv 20,26-29).

Bibliografia
  1. Roma tra fede e indifferenza. Indagine socio-religiosa sulla Città in preparazione al Sinodo Diocesano, Città Nuova, 1988

  2. La figura di Cristo nella filosofia contemporanea, Paoline, 1993

  3. Le nuove forme di urbanità, FrancoAngeli, 1993

  4. L’economia al servizio dell’uomo. Valori ed efficienza, il Mulino, 1994

  5. Maria Luisa Maniscalco, Spirito di setta e società. Significato e dimensioni sociologiche delle forme settarie, 19942

  6. La città macchina del tempo. Politiche del tempo urbano in Italia, FrancoAngeli, 1998

  7. Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 1999

  8. MicroMega, Almanacco di Filosofia, 2/2000

  9. Teresa Martignago, Giovani: esperienza religiosa “cristiana” o frammenti di sacro?, MIR Edizioni, 2000

  10. Lester R. Kurt, Le religioni nell’era della globalizzazione. Una prospettiva sociologica, Il Mulino, 2000

  11. Mario Allario, I “nuovi anziani”: interessi e aspettative, FrancoAngeli, 2003