Il programma pastorale diocesano di Roma 2018-2019 poteva essere meglio

Cappella Maggiore del Policlinico Umberto I

L’incontro dei cappellani delle strutture sanitarie del settore nord della Diocesi di Roma si è svolto presso il Policlinico Umberto I con la partecipazione di circa venti sacerdoti alla presenza del vescovo delegato Paolo Ricciardi il giorno 29 novembre 2018.

L’incontro era stato preceduto dall’invio via mail della scheda di preparazione (scarica; la citazione ivi presente ha un refuso, leggasi Dt 8,2-5) e si è svolto con un giro di interventi liberi. Quella che segue è la sintesi del mio intervento.

Quest’anno, più ancora dei precedenti, sono rimasto molto perplesso davanti al Programma Pastorale diocesano e della pastorale sanitaria, sia per il metodo seguito che per il merito.

Per ciò che riguarda il metodo, ho maturato la convinzione fin dagli anni scorsi che sia in atto nella Diocesi una forma di regressione adolescenziale diffusa tra il clero, per la quale si tendono a favorire incontri basati sulla narrazione personale. Occorre raccontarsi, raccontare la vita, condividere esperienze, fare (piccolo) gruppo, sentirsi accolti, amici e fratelli. Sembra doversi soddisfare il bisogno di continue rassicurazioni sul ruolo e sulle attività svolte, pare sia necessario rinnovare la conferma di identità condivise. Tutto ciò a riprova di una fragilità di sistema che dovrebbe spingere a porsi domande di grande preoccupazione.

Lo stesso incontro attuale, strutturato più o meno come tanti altri, ricorda nel metodo quello dei gruppi di auto mutuo aiuto dove, in modo autocentrato, ci si narra e ci si sente accolti, rafforzandosi in tal modo il senso di gruppo e tranquillizzandosi sul percorso personale e comune. Faccio osservare peraltro che nel primo giro di tavolo ci si è soffermati praticamente solo sulla risposta alla domanda Dove sei?, domanda che nell’economia del programma – il quale suggeriva una specifica attenzione alla narrazione storica sapienziale degli ultimi 50 anni di vita della Diocesi di Roma e conseguentemente delle strutture presso cui lavoriamo – mi pare rivestisse un ruolo maggiormente privato e in certo modo secondario. Le due domande presenti nella scheda – in effetti abbastanza generiche, ritengo per offrire agli intervenuti la possibilità di esprimersi il più liberamente possibile – sono state praticamente disattese.

Le difficoltà del metodo appaiono ancora più evidenti se si considera che il programma mostra numerose ambiguità circa i destinatari. Sembrerebbero tutti (preti, malati, personale sanitario). Ma se osservo la composizione della struttura presso cui opero, anzitutto devo dire che la presenza di pazienti psichiatrici provenienti da tutto il Lazio non facilita l’interesse verso una narrazione concentrata sulla Diocesi di Roma. Il personale, poi, si compone per circa la metà di soggetti non romani (stranieri e di altre regioni italiane) e una buona parte di esso è pendolare, risiedendo nelle vicinissime diocesi confinanti (Porto e Santa Rufina, Civita Castellana) o altre ancora. Una porzione consistente inoltre appartiene a confessioni religiose diverse dalla cattolica (ortodossi, musulmani) o a comunità proprie (indiani di rito siro malabarese). Trovo estremamente complesso suscitare una forma di interesse in soggetti tanto diversi, mi è più facile e piacevole scambiare punti di vista con persone come il Direttore Sanitario, intellettualmente vivace, pronto al dialogo anche con punti di vista differenti e culturalmente molto preparato, al punto che è lui a poter leggere per me la storia della Diocesi di Roma. I cristiani praticanti, infine, sono già potenzialmente coinvolti nelle proprie parrocchie sugli stessi argomenti.

Il programma ha a mio avviso totalmente trascurato il fattore sociologico di una città in continua trasformazione, ma soprattutto modificata in modo radicale negli ultimi dieci anni, e delle realtà sanitarie nello specifico.

Perciò nutro molti dubbi sulla reale efficacia pastorale di un metodo simile. Quali risultati si attendono? A cosa porta? Qui le domande si saldano alla questione di merito. Condivido anzitutto la preoccupazione espressa da qualcuno prima di me in questo incontro circa l’assenza nel programma di una apertura prospettica. La citazione iniziale della scheda che abbiamo ricevuto ci riporta all’esodo del popolo di Israele, in un momento nel quale la sintesi storica – il Signore ti ha umiliato, ma ti ha fatto uscire dal paese oppressore, il tuo piede non si è gonfiato, come un figlio ti corregge – non può prevedere ciò che sarebbe stato il futuro né ha lo scopo di prevederlo o prepararlo. La citazione perciò è ambigua. A distanza di 3000 anni il contenuto delle promesse giudaiche di allora (legge, tempio, sacerdozio, sacrificio, terra) è di fatto ridotto alla sola alleanza e all’attesa del messia. Torna quindi prepotente la perplessità principale sul merito, espressa con la domanda: dove vuole portarci il programma diocesano? Alla quale aggiungo: quali sono i suoi obiettivi? Quali le sue finalità?

Posso aggiungere che nemmeno aiuta molto la suddivisione del programma in tre fasi (memoria fino a Natale, riconciliazione fino a Pasqua, dialogo con la città fino all’estate) delle quali non si conoscono né le modalità operative né i risultati che si intendono conseguire. Penso, per esempio, alla mia struttura, dove le attività, soprattutto quelle finalizzate a coinvolgere gli ospiti, vanno pianificate per tempo, non bastando un fervorino all’occasione e dovendo tenere conto di attitudini e sensibilità molto diverse. Arrivare a proporre a metà anno un dialogo con la città di cui si ignorano modalità e risultati attesi in coincidenza con altri impegni già programmati potrebbe rivelarsi impresa impossibile.

La conclusione a cui sono giunto quindi è che la Diocesi di Roma avrebbe avuto a disposizione opportunità validissime per dotarsi di obiettivi e di strumenti ben qualificati che però non ha sfruttato, finendo per proporre un programma pastorale 2018-2019 molto deludente.