La mafia non diventi un alibi

Il Sole24Ore del 30/12/2007 – n. 355 pubblica a pagina 19 l’intervista con il capranicense Mons. Paolo Romeo, Arcivescovo di Palermo (Aggiornamento: creato cardinale da Benedetto XVI nel 2010, il Papa brillante teologo meno fortunato nelle nomine, e attuale Presidente dell’Almo Collegio Capranica). Riproduco il testo nella sua interezza.


La mafia non diventi un alibi. Imprenditori e classe dirigente hanno preferito delegare ruoli e responsabilità
Nino Amadore

La Chiesa siciliana non ha affatto arretrato nella lotta contro Cosa nostra.
La Chiesa condanna il crimine organizzato ma rifugge dai clamori.
La mafia non può diventare un alibi: il mancato sviluppo economico dell’Isola è da attribuire in gran parte alla classe dirigente siciliana. È il pensiero di Paolo Romeo, 69 anni, arcivescovo di Palermo da dieci mesi, presidente della Conferenza episcopale siciliana.

Siciliano di Acireale (Catania) Romeo è stato a lungo Nunzio apostolico in Sudamerica, poi Nunzio apostolico in Italia e infine indicato da Benedetto XVI a succedere al cardinale Salvatore De Giorgi nel capoluogo siciliano.

Lei è siciliano, è stato a lungo lontano dall’Isola, con incarichi importanti, in Sud America e non solo. Secondo lei la Sicilia come è cambiata?

È una Regione che si caratterizza per una ricchezza di valori, profondamente radicati nella gente, come quello della famiglia, del lavoro, dell’accoglienza e dell’attaccamento alla propria terra. Quando un siciliano andava all’estero andava per cercare lavoro ed aprire un avvenire migliore per la sua famiglia. Oggi mi sembra che la gente invece del lavoro spesso cerca l’impiego che è cosa diversa. Certo c’è una crisi economica che scuote il Paese, ma ho l’impressione che ci siamo abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità.

Secondo lei la classe dirigente siciliana percepisce queste problematiche?

In questo momento ci confrontiamo con una crisi economica e la Sicilia, regione del Sud, ne subisce gli effetti più gravi. Responsabili di ciò siamo anche noi siciliani: è mancata una classe imprenditoriale che abbia avuto coraggio. Abbiamo avuto 60 anni di autonomia statutaria e non ne abbiamo saputo approfittare. Nelle altre regioni c’è stato un notevole sviluppo delle infrastutture e noi ancora, per esempio, su una direttrice ferroviaria come la Palermo-Messina abbiamo una ferrovia a binario unico per lunghi tratti. Forse non ci siamo fatti valere e siamo noi che dobbiamo farci valere con determinazione.

Sul tema della mafia lei raccoglie un’eredità pesante: il discorso di Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento, l’impegno del cardinale Salvatore Pappalardo. Qualcuno, tra i commentatori cattolici, dice che la chiesa siciliana ha avuto un arresto nella lotta alla mafia e al crimine organizzato. Lei cosa risponde?

Io penso che sia un giudizio ingiusto. Quando sono arrivato a Palermo tutti aspettavano che pronunciassi la parola mafia nei miei primi discorsi e io non l’ho volutamente pronunciata perchè il mio appello per una retta coscienza dei cittadini era molto più impegnativo. Il problema della corruzione non è solo un fenomeno mafioso. Se io avessi parlato di corruzione mafiosa, le persone che non appartengono tecnicamente alla mafia avrebbero detto: “L’Arcivescovo non sta parlando di me”. Se noi pensassimo che il degrado della città sia dovuto alla mafia soltanto sbaglieremmo parametro. A mio modo di vedere del degrado della città siamo tutti responsabili. Cosa è mancato alla città? Io sono convinto, e mi riferisco anche agli imprenditori, che ci è mancata iniziativa e responsabilità ed è stata data una delega generalizzata allo Stato. In un Paese moderno non è possibile che il primo imprenditore di una città come Palermo sia lo Stato.

Dunque lei dice: la mafia è un grande problema ma non può essere un alibi per tutto quello che non funziona.

Perfetto. Questo è il mio parere. Per questo non c’era la parola mafia nel mio discorso di dieci mesi fa. C’erano degli appelli forti contro la corruzione a favore dell’onestà e dello Stato di diritto. Io sono stato nove anni rappresentante del Santo Padre in Colombia e lì avevo occasione di dire: ci sono troppe armi in giro e ognuno si è abituato a regolare i conti con le proprie mani. Quando un giorno, da tutti auspicato, non ci sarà più il fenomeno della guerriglia, lo Stato avrà difficoltà a raccogliere queste armi o a proibirne l’illecito uso. Lo stesso penso che sia qua: noi abbiamo questo gravissimo problema della mafia che sembra prevalere sullo Stato di diritto. Ci sono vari livelli di questa prepotenza della mafia: c’era il livello che attacca le istituzioni, ed era più facile stigmatizzare il fenomeno, perchè si trattava di gruppo più ristretti che colpivano quanti avevano la responsabilità di far prevalere lo Stato di diritto sulla malavita. Tutti ci auguriamo che quella tappa sia superata anche perchè si è riusciti a mettere le mani sui responsabili che sono in carcere. Ma sono ancora vivi gli altri livelli della mafia non certo meno perniciosi, purtroppo.

La Chiesa cosa può dire alle vittime del racket, a chi paga in silenzio: ribellatevi? Insomma la Chiesa può avere un ruolo, lanciare un appello?

La Chiesa sta accanto a loro. Non possono dirmi che non sta accanto a loro perchè io stesso mi sono fatto presente con molti di loro. Ma la Chiesa non cerca il protagonismo mediatico e non vuole lasciarsi strumentalizzare. Io penso che i vescovi di Sicilia hanno un impegno forte e non hanno mollato in niente contro la mafia. C’è un accaparramento di questo tema da parte delle forze politiche che cercano di dire che la Chiesa sta dalla loro parte.

La Chiesa non vuole diventare il paravento di nessuno.

Non vogliamo essere tirati per la giacca da nessuno. Andremo avanti, io andrò avanti parlando opportunamente tutte le volte che dovrò parlare, ma senza fare comizi. A mio modo di vedere anche le accuse che ci rivolgono di venir meno al nostro dovere sono un atto di sciacallaggio. Il cardinale Pappalardo, che ha guidato l’Arcidiocesi di Palermo per 26 anni, non ha voluto essere un leader politico, ma non ha fatto mai mancare la sua voce nei momenti difficili.

La frase famosa “mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata” vale ancora?

Certo, mentre noi discutiamo il Paese direi va quasi a rotoli. Chi discute dell’avvenire della nostra Isola? Programmi rilevanti e rispondenti alla crisi attuale che affronta la Sicilia io non ne vedo.

Uno dei temi caldi di questi giorni è quello riguardante Bruno Contrada. E pone il problema: perdonare o non perdonare una persona condannata per mafia?

Io non voglio entrare nel giudizio di merito. In questo dibattito in cui la lotta alla mafia diventa argomento politico. La lotta alla mafia non può essere strumentalizzata: riguarda tutti e dovrebbe trovare dutti d’accordo. Sentivo che il figlio di Riina è stato condannato a otto anni e non capisco se Contrada ha avuto più responsabilità di Riina. Non arrivo a pensare che Contrada sia il grande responsabile: d’altra parte ci sono i terroristi degli anni di fuoco che anno finanche ucciso e oggi sono sottosegretari di governo. C’è il problema dei pentiti, di chi invece di pagare in carcere il suo debito verso la giustizia e la società, si pente e torna facilmente in libertà. Io mi chiedo: c’è stata una vera conversione oppure si tratta di opportunità? Io credo al cambiamento del cuore ma non credo al cambiamento barattato del cuore. Certamente esiste il caso umano e ho l’impressione che ci sia un certo accanimento. Perchè è un simbolo: si ha l’impressione che se esce Contrada la Mafia ha vinto ma non credo che sia così.