Il difficile giudizio

La divina Provvidenza guida la chiesa. Questa semplice affermazione è gravida di conseguenze. Tra le prime troviamo la certezza che, nonostante le imperfezioni e gli errori degli uomini che fanno parte della chiesa, essa riesce a condurre a compimento la sua missione. In altri termini a raggiungere lo scopo per cui il Signore Gesù l’ha voluta e continua a volerla. Ma un’altra conseguenza, e non proprio di secondo piano, ci spinge a non temere di fronte alle difficoltà che la storia umana crea alla chiesa: di fronte alle persecuzioni, di fronte alle incomprensioni, di fronte ai ripetuti tentativi di soffocamento della voce della fede. Altra conseguenza concerne le gerarchie. Il Signore non permetterebbe mai che alla guida della chiesa – a qualunque livello, sia una parrocchia sperduta in Patagonia, sia la sede di Pietro – si trovi al momento sbagliato l’uomo tanto sbagliato da condurre la comunità dei credenti verso la sua dissoluzione. Ovvero, il Signore non mancherebbe di trovare gli strumenti idonei (p.e. qualche santo: pensiamo a Caterina da Siena e al successo dei suoi tentativi di far tornare la sede papale da Avignone a Roma; pensiamo a Francesco d’Assisi e al suo gioioso e riuscito tentativo di riformare la chiesa in povertà) per correggere gli errori dei gerarchi.

Evidentemente la vita di un papa (e di un vescovo, e di un prete, e di un battezzato, e di un uomo qualunque) è nelle mani di Dio. Penso che non dovremo mancare mai di questa consapevolezza. Ancor di più, le preoccupazioni intorno al papa – chi lo è stato nel passato e chi lo sarà nel futuro – alla luce di tale consapevolezza duplice appaiono misere. E se solo la storia riesce a giudicare in modo corretto della verità delle persone, è anche vero che un giudizio completo e verace appartiene solo a Dio: nel senso che egli è l’unico al quale non sfugge la complessità dell’agire umano e ogni minimo pensiero e intenzione che sfiora la mente e il cuore degli uomini. Giovanni Paolo II viene spesso ritenuto un papa provvidenziale. E questo ha del vero. Sia nel senso generale che abbraccia tutti gli uomini, sia nel senso di una chiesa che si interroga e cerca di interpretare la volontà di Dio anche attraverso le scelte misteriose dei suoi pastori. Senza nulla togliere alla veridicità di questa affermazione, e alla bontà delle azioni del papa, quindi senza sminuirne la grandezza, è anche vero che non tutto quello che Giovanni Paolo II ha scelto e operato può considerarsi provvidenziale. Qui si apre il grande dilemma.

Il giudizio appare difficile. Lo rimettiamo certamente a Dio, ma per quanto sta a noi è del tutto necessario lavorare con intelligenza per discernere il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto che si trovano in tutti noi uomini, e nelle nostre azioni. Il giudizio è difficile per diverse ragioni. Una prima ragione risiede nella difficoltà di operare quel distacco emozionale tipico di ogni rapporto umano. E Giovanni Paolo II è stato maestro nel creare, gestire, adoprare le emozioni delle persone. Non perchè egli abbia strumentalizzato i rapporti umani, ma semplicemente perchè è stato capace di volgere verso Dio (e non già verso di sè) le naturali forze che si muovono all’interno della psiche e del cuore degli uomini. Vi sono stati momenti in cui non era più necessario che il papa dicesse nemmeno una parola. Già prima della sua malattia, quando ancora egli era in grado di leggere da solo uno dei suoi discorsi o delle sue omelie, era frequentissimo osservare in che modo egli sapeva strappare ciò che si chiama “applauso a scena aperta”. Espressioni comuni, verità patenti, raccomandazioni di buonsenso sulle sue labbra assumevano un che di solenne e di divino: e le persone che DESIDERAVANO SENTIRSELE DIRE O RIPETERE non potevano resistere a tributargli un applauso. Anche in queste ore di travaglio è possibile osservare come il Papa sia stato capace, con poche parole ad effetto, a richiamare su di sè l’entusiasmo dei giovani. Il contatto umano che egli è stato capace di stabilire con le persone ha fatto temere a più di qualcuno che siamo di fronte a fenomeni di “papolatria”, di idolatria del papa. Credo che il timore di papolatria sia infondato, almeno nelle intenzioni del papa. Il fenomeno andrebbe esplorato anche in altre direzioni, per comprendere se abbia influito e quanto, in un periodo così impoverito e quindi affamato di figure simboliche, di miti, di validi modelli di riferimento – direi ordinari -, il papa abbia involontariamente contribuito con la sua immagine a creare l’idolatria di sè. Ma non credo sia questa la sede di tale approfondimento. Resta in piedi il fenomeno, indiscutibile, della grande ondata emotiva che un papa come Giovanni Paolo II porta dietro di sè. E in queste condizioni ogni giudizio rischia di apparire eccessivo, in un verso e nell’altro.

Il giudizio appare difficile anche per la enormità del lavoro compiuto o stimolato da questo papa in oltre 25 anni di pontificato. Enormità di lavoro, molto del quale sotterraneo, non portato alla visibilità dei mezzi di comunicazione. Costituito di quei giusti riserbi di cui occorre circondare “gli affari del re”, ma anche dei frutti spirituali che sono il primo obiettivo di ogni autentico pastore, ma che per definizione appartengono all’orizzonte dell’ineffabile, del non completamente ridicibile. Non vi è praticamente nessun ambito della vita interna della chiesa nè dei suoi rapporti con il mondo civile che Giovanni Paolo II non abbia avuto il tempo di toccare. E vuoi per un confronto con le attività dei suoi predecessori, che non sempre hanno avuto lo stesso tempo a disposizione, e forse non hanno vissuto nemmeno lo stesso genere di complessità reale di Giovanni Paolo II, vuoi per le novità che il papa ha apportato sia nello stile sia in alcuni contenuti come feedback agli eventi storici, Giovanni Paolo II è riuscito a collezionare una serie impressionante di “primati”. Con tutta l’ambiguità destinata a contrassegnare chi arriva primo, chi si trova ad affrontare terreni inesplorati. Ma il giudizio appare difficile anche perchè non è possibile, ancora, valutare fino in fondo tutte – o molte – conseguenze delle scelte del pontefice. Ci si potrebbe chiedere se la cosiddetta “polacchizzazione” della curia (dove per “polacchizzazione” si intende l’assunzione a vario titolo e per diversi compiti di sacerdoti o laici provenienti dalla Polonia; e per “curia” si intendono i dicasteri, gli organismi e gli uffici vaticani. Bisogna ricordare che in breve tempo, dopo l’elezione di Papa Woitjla, Roma e il Vaticano si riempirono di persone provenienti dalla Polonia, amici, amici di amici, conoscenti e disperati di ogni tipo), che nei primi anni di pontificato tanti dubbi aveva causato tra gli addetti ai lavori, non si sia rivelata piuttosto un bene per l’ingessato apparato romano, o invece non abbia contribuito ad alimentare un clima clientelare ovvero ad ingessare in modo diverso e nuovo i gangli vitali della chiesa universale.

A questo proposito – e per aumentare le difficoltà di giudizio – la stessa origine polacca del pontefice non si può nascondere che abbia giocato un ruolo di tutto rilievo nella vita religiosa e culturale della chiesa. Sembra assurdo, ma nemmeno più di tanto: la limitazione culturale ha il suo peso nella comprensione di modelli di pensiero diversi. Per un cristiano che vive in Italia, dove spesso si avverte l’esigenza di una maggiore “laicità” dello Stato, potrebbe sembrare apocalittico immaginare che la Polonia da cui proveniva Giovanni Paolo II era una nazione floridamente cristiana. In essa, tra la povertà generale e l’ateismo di stato, non mancavano le vocazioni al sacerdozio, e gli stessi preti erano mantenuti dal popolo cristiano con affetto e devozione al punto che si può dire che nessuno di loro mancava del necessario per vivere, pur non lavorando con un lavoro “profano”. Per un polacco – ma anche per un italiano – è difficile concepire il modello di vita di una chiesa che tenta di affrancarsi dalle superstizioni come la chiesa africana o di una chiesa in lotta contro i potentati come quella dell’america latina.

(aprile 2005)