Ancora sui preti. E le loro mogli
Tutto nasce da un tweet di Alessandro Meluzzi
Secondo voi è buona cosa il #celibato #obbligatorio del clero cattolico?
— Alessandro Meluzzi (@a_meluzzi) 18 Maggio 2014
che ha riscosso un certo successo (seguire la conversazione). L’intelligente Meluzzi sa di aver posto la questione in modo volutamente provocatorio. In effetti scorrendo la conversazione si comprende bene la maniera in cui la maggior parte dei twitteri ha fatto propria la domanda. Due perle per chiarire.
@a_meluzzi più di 1000 anni di tradizione depongono a favore del #celibato. Il sacerdote non può essere distratto da amori particolari.
— In Corde Matris (@in_corde_matris) 18 Maggio 2014
@a_meluzzi Penso che un prete quando sceglie sa già essendo adulto quello che vuole seguendo la sua stada.
— Patrizia Di Gaetano (@GaetanoPatrizia) 18 Maggio 2014
Dalla storia della spiritualità sacerdotale sappiamo che l’enfasi sul celibato, sulla vita solitaria e sulla castità viene posta a partire dal XVII- XVIII secolo in poi. E la “scelta” di diventare prete, spesso avvenuta come “vocazione” in età molto giovane, non è certo garanzia di completa consapevolezza sugli impegni del futuro.
In realtà, posta in questo modo la questione è scorretta.
Alle origini: una vocazione
Se accogliamo il richiamo alla tradizione della Chiesa, dobbiamo ricordare che nell’ambito del sacramento dell’ordine sacro la volontà del singolo non è sempre stata un elemento determinante al fine della scelta. A tal proposito un esempio di grande risonanza è la “vocazione” di sant’Ambrogio. Funzionario dell’imperatore, non aveva manifestato nessun interesse alla carriera ecclesiastica. Ma quando a Milano si trattò di scegliere il nuovo Vescovo, lui fu proposto per acclamazione e fu ordinato nonostante tutte le sue resistenze. Ciò a riprova del fatto che fin dall’antichità per “vocazione” non si intendeva tanto una “chiamata” da imperscrutabile voce divina, quanto – trattandosi di un sacramento della Chiesa – un discernimento oculato operato dal popolo di Dio (pastori e popolo insieme) sulla base di criteri spirituali per assicurare il bene spirituale di una comunità cristiana. Del resto lo stesso Signore aveva detto ai suoi apostoli: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). Nel rito dell’ordinazione diaconale e presbiterale resta un vestigio di questo atto di scelta da parte della Chiesa (pastori e popolo insieme) espresso nelle parole del Vescovo al termine della presentazione del candidato: “Con l’aiuto di Dio e di Gesù Cristo nostro Salvatore, noi scegliamo questo nostro fratello per l’ordine del diaconato o del presbiterato”. Si osservi l’uso del noi riferito a tutti i cristiani presenti.
La domanda giusta
Il pregiudiziale chiarimento da compiere riguarda questo preciso ambito. La Chiesa sceglie i suoi preti, li forma e li invia; e nel rito romano, da molti secoli preferisce sceglierli tra i celibi che promettono di restare tali. Non sono i maschi a scegliere di diventare preti, obbligandosi al “sacrificio” del celibato (e della conseguente castità o comunque assenza di matrimonio). La domanda giusta perciò non è se dare ai preti la possibilità di sposarsi, ma se esistono comunità cristiane abbastanza mature e forti da sostenere il sacerdozio uxorato. La risposta che finora la Chiesa si è data è: no, non esistono, perciò continuiamo a scegliere tra i celibi. Anche nel dialogo su twitter l’assenza di qualsiasi riferimento alla comunità cristiana è indicativo di una mentalità ancora da sviluppare.
Cosa vuol dire “comunità cristiana matura”
Nel pensare di scegliere il proprio prete tra gli sposati, una comunità cristiana matura sa di doversi fare carico lei nel suo complesso di quello che prima si faceva carico il prete da solo. Per esempio dovrà farsi carico della sua famiglia. Un prete che lavora a tempo pieno per una parrocchia deve essere sostenuto economicamente. Se poi è sposato, le esigenze economiche raddoppiano. E se la coppia ha figli crescono proporzionalmente.
La comunità cristiana sa di non poter sindacare nemmeno indirettamente le scelte familiari di un sacerdote sposato. Se egli decidesse con la sua consorte di mettere al mondo cinque figli invece di uno solo, la comunità cristiana dovrebbe rallegrarsene anche se fosse costretta a sacrifici ulteriori per garantire un degno sostentamento alla numerosa famiglia. E se la moglie non desiderasse lavorare fuori casa, pure questo non dovrebbe diventare motivo di biasimo.
Una comunità cristiana matura sarebbe anche capace di accettare che la presenza di una moglie nell’universo affettivo del sacerdote cambi inevitabilmente le relazioni interpersonali dello stesso. Non esiste una moglie ideale (nemmeno un marito!) che non abbia mai provato un briciolo di gelosia nei confronti di qualche altra donna; né è ragionevole prevedere che il sacerdote sposato possa mantenere con i suoi parrocchiani e le sue parrocchiane equidistanza empatica al modo di uno psicanalista.
Al tempo stesso la comunità cristiana matura sarà capace di offrire un sostegno pastorale di grande spessore per consentire al marito-padre di svolgere il suo compito. Sarebbe quantomeno irrazionale che il prete dall’altare predicasse una maggiore unità familiare e qualche sacrificio per stare con i propri cari e poi lui per primo non trovasse il tempo da dedicare a moglie e figli. Ovviamente ciò che egli non può sottrarre alla famiglia dovrà essere preso in carico dalla comunità cristiana matura e redistribuito tra i suoi membri: organizzazione parrocchiale, amministrazione delle strutture e del personale, formazione, impegni logistici, eccetera.
Il sacerdote espressione di una comunità cristiana matura che lo sceglie e lo chiama al suo servizio dovrebbe aver già dato prova di sé. Non dovrebbe essere semplicemente un “inviato” del vescovo, magari preso da un’altra comunità e prestato per il suo ruolo in un nuovo ambiente. Dunque da una parte una comunità cristiana matura dovrebbe essere capace di riconoscere e favorire le vocazioni; dall’altra ciascun membro dovrebbe coraggiosamente mettersi a disposizione. Nel caso specifico sarebbe necessario che anche la consorte fosse disposta a vivere un modello di vita totalmente diverso da quello al quale aspirano molte donne che pensano di sposarsi.
La stessa scelta di vivere se non poveramente almeno “sobriamente” e quindi di evitare lussi o cose superflue dovrebbe coinvolgere l’intera famiglia del sacerdote sposato, il quale – in questo senso – non sceglierebbe solo “per sé” ma anche con e per sua moglie e i suoi figli. Una comunità cristiana matura dovrebbe farsi carico anche del disagio, inevitabile, che circonderà tale famiglia “atipica” e accompagnarla con affetto, simpatia e comprensione.
E si potrebbe continuare così, per molti aspetti che coinvolgono la vita della comunità intrecciata con quella del suo pastore sposato e quindi della sua famiglia. Sempre ricordando bene che quello del prete non è un mestiere né una professione “come un’altra”.
La realtà è un’altra
La storia ci ha dimostrato che la realtà è un’altra. Che le comunità cristiane non sempre si sono rivelate tanto mature e anzi in molti casi hanno persino costituito difficoltà e intralcio a santi preti celibi. Figuriamoci se fossero stati sposati!
Ci ha dimostrato, la storia, che un prete non viene dalla luna; ma se una comunità cristiana è sana lo saranno anche i suoi giovani aspiranti al sacerdozio, se è malata ci sono buone ragioni per ritenere che lo saranno pure i suoi figli.
Infine la storia ci ha insegnato che le intenzioni delle persone non sono sempre così limpide; che farsi prete non è sempre stata una scelta animata da eroici ideali; che spesso la durezza della vita cambia in peggio le persone che all’inizio erano state mosse dai più nobili slanci.
Ripristino della prassi del sacerdozio uxorato
È mia precisa opinione che il sacerdozio uxorato vada ripristinato anche nel rito romano della Chiesa cattolica. Non ci sono motivi teologici che lo impediscano, non vi è conflitto tra il sacramento del matrimonio e quello dell’ordine sacro, non ci sono qualità speciali negli stati di vita che facilitino la santità o che ne richiedano più da una parte che dall’altra, non valgono sottili disquisizioni spirituali per accertarsi cosa sia meglio o peggio per la raggiungere la salvezza o per stare più vicini a Dio. Sotto questo profilo anzi è vero che il sacerdozio uxorato potrebbe rappresentare per la Chiesa un modello di vita e una fonte di ulteriore santificazione.
Ma allo stato attuale delle cose è totalmente sconsigliabile. Finché non vi saranno comunità tanto mature cristianamente da suscitare, riconoscere, accogliere la vocazione di uomini sposati e delle loro famiglie per l’ordine sacro escludo si possa pensare a tale soluzione nel breve termine.
Ciò impone alla Chiesa di oggi – che deve pregare e pensare a quella del futuro – di preparare la strada per un rinnovamento della prassi. La creazione di comunità cristiane pronte a sostenere tale rinnovata celebrazione del sacramento dell’ordine costituisce il punto di partenza per sperare legittimamente in un nuovo modello di sacerdozio.
Sono pienamente d’accordo con te su quello che hai scritto a proposito della necessità di una chiesa matura in grado di sostenere economicamente e soprattutto spiritualmente le famiglie particolari quali inevitabilmente sarebbero quelle dei preti sposati. Sono d’accordo che tali eventuali famiglie dovrebbero avere uno stile di vita almeno sobrio se non addirittura povero e mi rendo conto dei problemi che questo potrebbe comportare in una famiglia normale. Ad esempio non riesco neppure a immaginare i problemi che hanno dovuto affrontare San Pietro (di cui i vangeli dicono chiaramente che era sposato) e gli altri apostoli eventualmente sposati, per conciliare la loro sequela a Gesù con le necessità materiali e affettive delle loro famiglie, anche se spesso tornavano in Galilea e qualche volta addirittura a Cafarnao.
Tuttavia, nel caso in cui in un ipotetico remoto futuro in cui santa Romana Chiesa autorizzasse il matrimonio dei preti, non capisco cosa dovrebbe impedire alle nostre comunità ecclesiali di raggiungere la maturità necessaria per sostenerli economicamente e spiritualmente. Teniamo infatti presente che in altri contesti questo avviene regolarmente: i rabbini e i mullah islamici normalmente si sposano e hanno un sacco di figli; i preti anglicani e presbiteriani, gli ortodossi e i copti possono sposarsi; ma persino i preti cattolici di rito orientale (ucraini, slovacchi, siriani, armeni, egiziani, ecc) possono farlo. Inoltre ai presti anglicani che hanno voluto rientrare nella chiesa cattolica è stato consentito di rimanere preti anche se sposati. Tutte queste comunità sono davvero tanto migliori delle nostre?
Ricordo che eravamo stati invitati alla festa di ordinazione sacerdotale a Roma di un seminarista slovacco. Tra gli invitati c’era quasi tutta la sua parrocchia e prima del pranzo mi fu presentato il loro parroco, che con la talare e il cappello simile a quello dei pope ortodossi, alto e con la barba d’ordinanza aveva un aspetto davvero ieratico. Lui a sua volta mi presentò una ragazza carina e molto sobria, come una nostra giovane catechista dell’azione cattolica, dicendo che era sua moglie. Poi, dopo il pranzo i suoi amici intonarono dei simpatici cori di sfottò perché essendo stato il neoprete ordinato a Roma, non poteva sposarsi, mentre se fosse stato ordinato in una diocesi del suo paese non avrebbe avuto questo divieto. Quei ragazzi mi sembrarono proprio uguali ai nostri.
In conclusione, per quel poco che può contare la mia opinione, io penso che la Chiesa ai suoi preti (da brava madre) dovrebbe sconsigliare il matrimonio, ma non vietarlo, come del resto diceva San Paolo e come ha sempre fatto per i primi 1000 anni della sua storia. Infatti le difficoltà per i preti che la Chiesa in un lontano futuro autorizzasse a sposarsi sarebbero molte e pesanti, ma credo che comunque sarebbe giusto lasciare a loro la libertà di questa personalissima scelta.
Grazie del commento, al quale rispondo con un nuovo articolo Sul celibato ecclesiastico