ATACcheide, ovvero avventurose amenità nel trasporto romano
Dopo la visita, qualche tempo fa, di un amico che si è fatto portavoce di suoi amici dipendenti ATAC, lamentandosi con me perché ce l’avrei con loro, oggi nuovo capitolo della mia ATACcheide personale.
Al capolinea. Io unico passeggero del bus, seduto più o meno a metà, leggo le notizie quotidiane online. Bus chiude le porte, metto cellulare in tasca. Autista frena.
– Sta riprendendo?
+ Io? Scusi, cosa dovrei riprendere? Non sto riprendendo.
– Lei è abituato a riprendere con quel telefonino
+ Non direi proprio…
– Lei è conosciuto, non si preoccupi
+ Io? (rido di gusto) E di cosa dovrei preoccuparmi?
Nessuna risposta ed è ripartito.
In effetti, ripensandoci, una preoccupazione l’avrei. Quella che a Roma il Trasporto pubblico fosse all’altezza della sua storia e della sua dignità.
Sono certo che si tratta della stessa preoccupazione dei dirigenti e del personale ATAC.
Sembra quasi inverosimile doverlo ribadire, ma se un’Azienda si tiene in piedi è per il lavoro onesto e coscienzioso della maggioranza dei lavoratori. Se una piccola minoranza mette sabbia negli ingranaggi non dovrebbe spaventarci. Anzi, credo che sia nell’interesse di tutti, utenti e lavoratori del trasporto pubblico, trovare gli strumenti per evitare un danno, al servizio pubblico e all’immagine (a livello planetario…).
Per quanto mi riguarda, come ho già avuto modo di dichiarare a voce e per iscritto, da cittadino ricerco l’alleanza esattamente con questa parte sana dell’Azienda per essere costruttivi nella Città in cui sono nato e, insieme a milioni di altre persone, vivo; e verso la quale ho un debito di riconoscenza.
Le altre cose le considero piccinerie di animi piccoli.