Chiesa, mass media ed emozioni 1.
Non mi sarei mai aspettato di trovare la più lucida analisi sul rapporto tra religione (e quindi anche Chiesa cattolica), mass media ed emozioni tra le pagine immateriali di un book in progress messo online da Stefano Balassone, docente di scienze della comunicazione. Nel suo blog, Mediapolicie’s blog, compare proprio in prima pagina la struttura del libro “I Mass Media fra società, potere e mercato”, con un rimando puntuale alla stesura dei diversi capitoli.
E al capitolo 5 finalmente leggiamo: Mass Media e Chiese. L’unico dispiacere è che ne siano state scritte solo due pagine dal 30 maggio 2010 (tali pagine aggiornate alla data della pubblicazione del presente articolo sono scaricabili in formato pdf seguendo questo link). Ma il loro contenuto è già sufficiente per leggere e interpretare l’attualità. Sempre tenendo presente la frammentarietà del testo, per ora ancora un abbozzo di progetto.
Con il presente articolo mi piacerebbe tuttavia iniziare una riflessione, comunque in certo modo già avviata in altri articoli, intorno alla rilevanza accordata alle “emozioni” nel tempo moderno, al ruolo giocato in ambito religioso e alle funzionisvolte dai mass-media. Considero perciò quello che segue come un’incompleta presentazione di un argomento sul quale mi riprometto di tornare.
Alcuni aspetti critici del testo
Ovviamente tra le tesi del testo pubblicato da Stefano Balassone non tutte riescono a convincermi allo stesso modo. Per esempio non è del tutto condivisibile l’affermazione per cui le religioni, scivolate nella sfera del privato, mantengano “una pubblica rilevanza e una forte influenza sugli affari pubblici in funzione e misura della propria consistenza elettorale“. Vi sono ragioni di fatto e ragioni di pensiero che portano a dubitare di questa tesi. Per quanto sia un argomento molto dibattuto, non bisogna dimenticare che rispetto a scelte cosiddette “di coscienza”, proprio quelle che interesserebbero un organismo come la Chiesa cattolica, in un’Italia largamente cattolica l’elettorato ha disertato le indicazioni rispetto ad aborto e divorzio. E i civilissimi Stati Uniti, nei quali estremismi religiosi ultraconservatori cattolici e non cattolici possono essere sicuramente considerati a livello di “lobbies”, sembrano impermeabili al riconoscimento di alcuni diritti (per esempio quanto è in gioco la “sicurezza nazionale”) o all’abrogazione della pratica della “pena di morte”, considerata universalmente barbara. Dunque la pretesa “influenza” sugli affari pubblici potrebbe, al massimo, tradursi in una reciproca attenta a volte distaccata attestazione di stima tra rappresentati di Cesare e rappresentanti di Dio, mentre non mancheranno mai, dall’una e dall’altra parte, uomini con interessi molto meno puri di quelli del bene comune e del servizio della fede.
Le stesse ragioni che l’autore cita per spiegare il fenomeno della “privatizzazione” della fede religiosa sembrano fragili e non troppo approfondite, apparendo più che altro opinioni comuni non verificate. Mi riferisco anzitutto all’affermazione secondo cui la “tolleranza” come matrimonio tra politica, commerci mondiali ed industria sarebbe un prodotto dell’età moderna basato sul solo homo oeconomicus “senza l’aiuto del lato religioso degli individui“. Basterebbe in questo senso rileggere alcune pagine dei Padri della Chiesa per rendersi conto che il concetto di tolleranza non compare “solo” in epoca moderna; e allo stesso tempo non bisogna dimenticare che proprio quel matrimonio tra politica, commerci mondiali e industria, con l’emancipazione del “lato religioso” degli individui, ha prodotto e continua a produrre fenomeni ben diversi dalla tolleranza, tra tutti basti ricordare semplicemente le tirannie di ogni genere e le persecuzioni razziali e religiose.
Inoltre la stessa “laicità” evocata dall’autore e vista corrispondente al sorgere del concetto di tolleranza richiederebbe un ben diverso approfondimento, soprattutto se si intende, come pare faccia Balassone, quale “corpo autonomo di valori e di criteri di comportamento, scisso da motivazioni religiose e indipendente dalle chiese“. Ben difficile infatti risulta storicamente e filosoficamente distinguere quanto sia da attribuire ad un’evoluzione spontanea e isolata del pensiero e dell’essere umano, avulso da qualsiasi relazione con il passato e la società nella quale egli agisce, e quanto invece sia frutto e logica conseguenza delle premesse contenute in un messaggio religioso come per esempio quello cristiano che per secoli ha plasmato il pensiero europeo. Il preteso “corpo autonomo di valori” non può essere semplicemente affermato, deve essere dimostrato. Ed è noto che tale dimostrazione appare per ora impossibile.
Così i tre concetti di privatizzazione della fede, tolleranza e laicità, se non sostenuti da adeguate e robuste riflessioni, rischiano di far svaporare un processo di “umanizzazione” ricco di risvolti ancora non del tutto compiuti, in una banale, ma forse necessaria, tappa che si potrebbe marcare come “adolescenziale”. Come un adolescente che dica: “No, io da grande non voglio assomigliare a papà”.
Meritano invece riguardo
Ma aspetti critici a parte, sono invece importanti filoni di riflessione quelli da seguire e secondo me proficui, i più originali del testo. Non tanto il riferimento alla funzione politico-sociale della Chiesa nella storia, che appare un ovvio riferimento alla Chiesa cattolica e alla storia europea e per questo non proprio estensibile all’intero fenomeno religioso, o almeno nel testo non appare come sufficientemente fondato il passaggio. La consapevolezza della Chiesa non anteporrebbe di sicuro tale “funzione” a quella “mistica”, più propriamente inerente la sua missione, per quanto del resto la percezione pubblica e “laica” spesso si soffermi nella considerazione dell’involucro a tutto discapito della natura delle cose.
Una prima intuizione originale appare quella relativa all’uomo contemporaneo “meno Produttore e meno Cittadino di prima” e dunque “più Consumatore e meno religioso di prima“. Si dovrebbe sviluppare tale intuizione per comprendere le implicazioni antropologiche, le cause sociali, le mediazioni psicologiche e politiche in una società divenuta complessa e frammentata nel mondo globalizzato che assomiglia sempre più ad un minestrone di verdure alla ricerca di identità. Il rapporto dell’uomo contemporaneo con la “religione” non sembra immune da questa visione:
Il rapporto con le religioni può assumere anch’esso i caratteri di una scelta “su misura” (con entusiasmi e devozioni variabili nella stessa vita di una persona dall’ateismo all’armonismo ambientalista, dal buddismo al cristianesimo più integralista etc) senza nulla di perenne perché sia il Paradiso sia l’Inferno sono nella percezione dei più, luoghi altrettanto vuoti del mondo dei cosiddetti “valori”. Il cosiddetto nichilismo etico, che ne consegue, è niente altro che la forma consumistica della religiosità, quando la religione è una scelta di prodotto, come un abito o un’automobile. Corrispondentemente le chiese reagiscono alleggerendo la propria componente concettuale per sviluppare invece, in concorrenza con il consumismo, la dimensione emozionale e apotropaica.
Si tratta di una valutazione importante, connotata da un certo senso di ineluttabilità forse non completamente condivisibile. Ma l’analisi e le conclusioni sembrano aderenti alla realtà. Le chiese (termine usato per indicare in modo indifferenziato “le religioni”, ma qui si coglie il limite teorico di un punto di vista non tecnico), avvertendo la forte “concorrenza” della società del consumo, si appropriano dello strumento più tipico di quel mondo cioè della leva emozionale a tutto discapito della “componente concettuale”. Sembra più facile, adattando con un esempio, predicare il Vangelo suscitando emozioni che convincendo intelligenze.
Se è opinabile, o comunque meritevole di distinguo e approfondimenti, il fatto che le chiese siano “comunità basate più sulle pratiche che non sulle teologie”, non è invece indifferente il secondo apporto originale del testo. Esso riguarda il ruolo dei mass-media nello sviluppo di “empatia” da parte del “pubblico”. In una condizione che privilegia l’emozione al concetto, la fugace sensazione del momento ad una convinta razionalizzazione intellettuale, secondo l’autore
ciò che va in crisi, o in soffitta, sono gli apparati etici e teologici, ovvero i raccordi concettuali fra l’essere e il dover essere, fra l’al di qua e l’al di là.
Ma allora si dischiude la prospettiva dei mezzi di comunicazione di massa, i quali, lungi dall’essere “i becchini di chiese che vedono scomparire la propria ragion d’essere a fronte di concorrenti meglio attrezzati“, sono stati considerati e forse ancora lo sono uno strumento di propagazione della “verità”. E dunque, adatando con il consueto esempio, un alleato (comodo) del Vangelo. Tuttavia le cose non sono così semplici e le conseguenze non proprio tutte auspicate.
Ed infatti la terza importante intuizione dell’autore dimostra tutta la validità del suo pensiero intorno all’argomento dei mass-media. Cosa accade sui mass-media quando un messaggio viene fatto passare sempre e per buono? Tutti conosciamo quei modi di dire che caratterizzano il “consumatore” di informazioni: “L’hanno detto in tv… L’ho letto su internet…”. Quel che appare, per il fatto che appare, diventa automaticamente credibile e vero, persino quando si scontra con l’evidenza della speculazione razionale. Così l’autore può affermare:
Non esiste rimedio che possa impedire a verità correnti sui media, e dunque“verità” tra virgolette, se messe continuamente in evidenza, di diventare le verità senza virgolette, a patto che liscino il pubblico nel verso del pelo.
La verità si diffonde non più come singolarità ma come pluralità di accezioni. Nella prospettiva, non casuale ma voluta, di conquistare audience, pubblico osannante e pagante. Peggio ancora, le verità dei mass-media sono verità a termine, sempre in attesa delle verità che seguiranno. Da questo processo non è immune “la verità religiosa”, dal momento che sbarca sui mass-media essa deve accettare di diventare una verità accanto alle altre e deve entrare nel meccanismo infernale che prevede che una verità sia tale finché non ne giunga una più grande, più bella, più appetibile, più emozionante, più soddisfacente.