Consolazione e desolazione in S. Ignazio

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Consolazione e desolazione in S. Ignazio

Salve Regina, Madre di misericordia,
vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo esuli figli di Eva,
a Te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime.
Orsù dunque, avvocata nostra,
rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi.
E mostraci, dopo questo esilio, Gesù,
il frutto benedetto del tuo seno.
O clemente, o pia,
o dolce Vergine Maria.
Amen.

Invochiamo Maria, Madre di misericordia dagli occhi misericordiosi, all’inizio del nostro percorso di ES, cominciato proprio in un giorno mariano: la visita di Maria ad Elisabetta.

La preghiera del Salve Regina non compare nella Scrittura, a differenza delle parole dell’Ave Maria che sono una cucitura del saluto dell’Angelo e del saluto di Elisabetta. Si tratta di una preghiera medievale attribuita allo stesso autore di Alma Redemptoris Mater, un monaco tedesco morto nel 1054 e venerato come beato sia dalla chiesa cattolica che da quella evangelica: Ermanno soprannominato il contratto. In latino contractus significa contratto, rattrappito, ma anche storpio, zoppo: Ermanno era talmente deforme, non si sa se dalla nascita o per un incidente, da non poter né camminare né rimanere in piedi. Nella lingua italiana, in passato (e forse qualche volta anche nel presente), quando si vedeva una persona in questa condizione di sofferenza si definiva un infelice.

Ma Ermanno il contratto non era infelice. A 7 anni entrò in monastero nell’Abbazia di Reichenau, sul lago di Costanza, e vi rimase tutta la vita. Fu astronomo e liturgista: scrisse messali e preghiere e grazie a lui noi oggi abbiamo la suddivisione delle ore in minuti! Bertoldo di Reichenau, intimo amico di Ermanno, nei suoi Annales ricorda che il Doctor Marianus (come venne chiamato il monaco) morì di pleurite a 41 totalmente immerso nel desiderio del Paradiso: “il mondo futuro, che non avrà termine, e quella vita eterna, [mi] sono divenuti indicibilmente desiderabili e cari, così che io considero tutte queste cose passeggere non più dell’impalpabile calugine del cardo”.

Ora che conosciamo la storia di Ermanno, quando guarderemo il nostro orologio o ripeteremo le parole del Salve Regina ricordiamoci di quest’uomo, non infelice ma beato, la cui breve vita, nonostante malattia, sofferenza e immobilità, ancora oggi fa del bene a tutti noi.

Nel rileggere le parole del Salve Regina ritroviamo tutto l’animo del suo autore. In Maria lui scorge la vita e la dolcezza e anche se riconosce nel mondo una valle di lacrime non si sente abbandonato perché ha presso di sé la Madre di Cristo, dagli occhi misericordiosi, pronta ad accogliere e ad accompagnare a Cristo. E in particolare quel saluto (“Madre di Misericordia”) che mentre la lega indissolubilmente al Redentore svela il cuore stesso di Dio.

Vi suggerisco fin da oggi di raccogliere in un unico sguardo la vostra vita, gli anni e la storia personale, di farne una sintesi, di farla diventare preghiera; cominciate a comporre anche voi, ciascuno di voi, la vostra preghiera mariana, che possa restare quale testimonianza di questi ES.

Sapete bene che gli ES sono stati “inventati” da Ignazio di Loyola. Non solo per omaggiare l’inventore ma soprattutto per non tradire il dono che lo Spirito ha fatto alla sua Sposa, la chiesa, amo dedicare la prima riflessione di un corso di ES a qualche tema legato agli Esercizi Spirituali di Ignazio. Oggi con voi voglio tornare con voi sul Principio e fondamento e sul tema delle consolazioni e desolazioni.

Nel Principio e fondamento troviamo espresso il pensiero ignaziano di ciò che si trova alla base della vita cristiana, nel semplice modello “fine – mezzi”.

L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l’uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo” (ES 23)

Il fine della vita umana è lodare, riverire e servire Dio e raggiungere la salvezza. Fin da subito siamo spinti a confrontarci in modo serio con la realtà della nostra esistenza. Ci sono stati pensatori che hanno rifiutato l’idea che l’esistenza umana fosse sensata, cioè avesse un senso, una direzione, una finalizzazione. Non riconoscendo la logica della creazione, la razionalità intrinseca al mondo fisico e reale, si sono accontentati dell’idea che il mondo fosse chiuso in se stesso e la vita umana non avesse altro fine che consumarsi nel chiuso della storia.

Però questa posizione contrasta con il senso comune, quello che appartiene a tutti, indistintamente, e che ci fa agire e pensare finalizzando le nostre azioni e le nostre ideazioni a qualcosa, a un obiettivo da raggiungere. Sarebbe curioso se, incontrando una persona amica lungo la strada e chiedendole dove si sta dirigendo, lei rispondesse di non saperlo. E di non sapere cosa sta facendo lì. Chiameremmo subito un’ambulanza!

La domanda del fine è la domanda del senso. Che senso ha la tua vita? Verso cosa hai finalizzato le tue azioni? O più correttamente potremmo dire, con Ignazio, verso Chi hai finalizzato la tua esistenza? Nella riflessione sulla Trinità ci renderemo conto dell’importanza delle relazioni interpersonali, che ci fanno crescere come persone. Oggi penso che ciascuno di noi potrebbe focalizzare la propria attenzione esattamente su questo tema: di come ha gestito il fine della propria esistenza, se ci siamo lasciati distrarre da fini che non sono Dio, nobili quanto si voglia, ma quasi un ripiego, e in che modo Dio ha dato sapore alla nostra vita.

Se la vita umana è finalizzata allora diventano più chiari gli strumenti, i mezzi che sono a disposizione di ciascuna persona per raggiungere il fine. In effetti la genialità dell’affermazione di Ignazio sta tutta nella sua semplicità. In base al fine che ci proponiamo sappiamo quale strumento scegliere e come usarlo. Così accade se vogliamo metterci in cucina a preparare un dolce per i nostri ospiti: useremo la frusta per montare le uova, una teglia da mettere in forno, il forno ben caldo… oppure un frigorifero, se si tratta di un dolce al cucchiaio o di un semifreddo. Se entrando in cucina vedessimo il cuoco armeggiare con un piccone da muratore potremmo allarmarci non poco…

Nella visione ignaziana le creature, tutte, aiutano l’uomo a raggiungere il fine per cui è stato creato. Ho sempre trovato molto consolante questa rivelazione. Le creature, dal cielo alla terra, dalle cose inanimate alle persone che ci circondano, non sono meri strumenti ma sono aiuti, potremmo quasi definirli alleati per raggiungere il fine dell’esistenza.

Molte volte ci siamo resi conto che nascono conflitti tra noi e le altre creature. Conflitti perché desideriamo possedere qualcosa o qualcuno e non vi riusciamo o perché la nostra affermazione sembra porsi in contrasto con l’affermazione di qualcun altro. Ogni volta che noi consideriamo le altre creature (fosse l’atmosfera che respiriamo come anche la persona che amiamo) quale strumento per la realizzazione dei nostri fini noi scopriamo ribellione, discordia, distruzione. Ignazio ci riporta alla realtà originaria della creazione: le altre creature sono un aiuto per il nostro fine. E possono aiutarci o non aiutarci, a seconda della loro natura.

Vorrei suggerirvi, nelle vostre riflessioni odierne, di osservare con attenzione le creature che vi sono attorno – le vostre cose, i vostri affetti – da una parte per rendervi conto se le avete strumentalizzate invece di accoglierle come alleati per raggiungere il vostro fine, e dall’altra per operare quella selezione suggerita da Ignazio: abbracciarle nella misura in cui sono utili per il fine, respingerle in caso contrario.

Il tema della consolazione e desolazione viene affrontato da Ignazio nelle regole del discernimento degli spiriti. Secondo Ignazio la consolazione è

la consolazione spirituale. Si intende per consolazione quando si produce uno stimolo interiore, per cui l’anima si infiamma di amore per il suo Creatore e Signore, e quindi non può amare nessuna delle realtà di questo mondo per se stessa, ma solo per il Creatore di tutte; così pure quando uno versa lacrime che lo portano all’amore del Signore, sia per il dolore dei propri peccati, sia per la passione di Cristo nostro Signore, sia per altri motivi direttamente ordinati al suo servizio e alla sua lode. Infine si intende per consolazione ogni aumento di speranza, fede e carità, e ogni gioia interiore che stimola e attrae alle realtà celesti e alla salvezza dell’anima, dandole tranquillità e pace nel suo Creatore e Signore (ES 316).

Richiamo la vostra attenzione su alcune semplici constatazioni. Rientrare in se stessi, tipico comportamento favorito dagli ES, serve esattamente a prendere contatto con la propria interiorità per leggere in modo attento e chiaro attraverso la propria emotività. Accanto a questo movimento ce n’è un’altro che è la con-solazione: con-solare, stare insieme a uno che è solo. Mettersi al suo fianco. Come fa Gesù con chi vuole consolare. Rientrare in se stessi, essere consolato, non per ricercare emozioni: “quanto sto bene qui, come sono felice qui, che bella cosa è riposare nel Signore”. Ma per decifrare l’opera del Signore attraverso gli effetti che essa ha sul nostro animo (lo “stimolo interiore”). Ecco dunque l’importanza della fiamma d’amore per Dio, delle lacrime di commozione come del dolore per i peccati e per la passione di Cristo. Ecco dunque l’aumento delle virtù teologali e della gioia interiore che stimola ad alzare lo sguardo al cielo, preoccupandosi della salvezza, ed ecco la tranquillità e la pace.

Desolazioni, al contrario, sono

la desolazione spirituale. Si intende per desolazione tutto il contrario della terza regola, per esempio l’oscurità dell’anima, il turbamento interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore. Infatti, come la consolazione è contraria alla desolazione, così i pensieri che sorgono dalla consolazione sono contrari a quelli che sorgono dalla desolazione (ES 317).

De-solare è esattamente il contrario di con-solare. Significa allontanarsi da uno che è solo, lasciare nella solitudine, sperimentare l’allontanamento. Non come condanna, ma come persa di coscienza della condizione umana senza Dio che si fa prossimo. Anche per le desolazioni vale quel che abbiamo detto circa l’emotività. Nello spirito umano si agitano numerosi stati d’animo e vanno letti e affrontati senza esitazioni o turbamenti. Ve ne sono di negativi e il loro significato va esplorato. Ignazio descrive e definisce la desolazione spirituale attraverso le sensazioni di oscurità e turbamento, l’inquietudine, l’agitazione. L’anima che si trova alle prese con tali emozioni si sente disperata e disamorata, incapace di fare il bene, triste.

Importante capire che per Ignazio consolazioni e desolazioni acquistano importanza perché sono utili strumenti psicologici (diremmo noi oggi) per comprendere l’azione di Dio. Da una parte non dobbiamo temere di sentirci desolati, tristi. Ignazio è consapevole che la desolazione può essere un utile allenamento a compiere la volontà di Dio: la prova.

Chi si trova nella desolazione, consideri che il Signore, per provarlo, lo ha affidato alle sue forze naturali, perché resista alle diverse agitazioni e tentazioni del demonio; e può riuscirci con l’aiuto di Dio che gli rimane sempre, anche se non lo sente chiaramente. È vero, infatti, che il Signore gli ha sottratto il molto fervore, il grande amore e la grazia abbondante; però gli ha lasciato la grazia sufficiente per la salvezza eterna (ES 320).

Nondimeno la consolazione deve essere considerata un tempo di preparazione alla prova: “Chi si trova nella consolazione, pensi come si comporterà nella desolazione che in seguito verrà, preparando nuove forze per allora” (ES 323). Consolazione e desolazione poi si mostrano utili per esercitare le virtù: “Chi è consolato, procuri di umiliarsi e di abbassarsi quanto può, pensando quanto poco vale nel tempo della desolazione senza quella grazia di consolazione. Invece chi si trova nella desolazione pensi che può fare molto con la grazia di Dio, che è sufficiente per resistere a tutti gli avversari, e con la forza che riceve dal suo Creatore e Signore” (ES 324).

Ne esce fuori un quadro in cui umiltà e fortezza, docilità e coraggio possono essere fruttuosamente messi al servizio della fede. C’è una figura nel vangelo che incarna molto da vicino tali considerazioni, l’anonimo centurione di Cafarnao. Vi invito a rileggere Mt 8,5-13.

Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”. Gesù gli rispose: “Io verrò e lo curerò”. Ma il centurione riprese: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Fà questo, ed egli lo fa”.
All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti”. E Gesù disse al centurione: “Và, e sia fatto secondo la tua fede”. In quell’istante il servo guarì.

Ci fa bene il confronto con la fede di un cristiano anonimo come il centurione, dal momento che anche Gesù la confronta con quella di Israele, trovando che il militare romano supera quella di tutti gli ebrei. Nella vostra riflessione personale vi invito a considerare la desolazione di un uomo che sta per perdere il suo servo (desolazione interessata, senza dubbio, per la perdita patrimoniale rappresentata da uno schiavo malato), il coraggio di chiedere a Gesù il suo intervento, l’umiltà della risposta in cui si riconosce non degno, meritevole di attenzione, la consolazione al sentirsi elogiato, rassicurato, esaudito. Nell’incontro con il “Signore” che si fa riconoscere come Misericordioso.