Del pallone e d’altre sinodalità
Viareggio, 2 agosto 1926. Dopo lo sciopero nel maggio precedente degli arbitri del giuoco del pallone ormai divenuto sport nazionale – il calcio (guai a chiamarlo football) – per protestare contro una bizzarra norma che metteva in capo alle società calcistiche la possibilità di ricusare i giudici di gara non graditi e dopo le conseguenti dimissioni del Consiglio federale della FIGC, tre esperti nominati dal CONI si riuniscono nella città sulla costa versiliese e producono una Carta con l’intento di riformare il tormentato sport.
Tra le immancabili norme autarchiche si prevede che
ai Campionati italiani potranno partecipare solo giuocatori di nazionalità e cittadinanza italiana
La mania tutta nostrana di fare la legge e di trovare il modo di aggirarla portò a rimpolpare le squadre piene di giuocatori stranieri con giuocatori oriundi. Stranieri sì, ma di ben solide origini italiche tradite da cognomi paesani.
Perciò il giovane agente di borsa Ernő (per gli amici Ernest) Egri Erbstein (1898-1949) militante nel Vicenza non pote’ continuare a coltivare la sua passione sul suolo nazionale e fu costretto ad emigrare negli USA. A dire il vero per il giovane Erbstein fu pure l’occasione di cercare migliore fortuna economica oltreoceano. Non andò nel modo sperato e nel 1928 tornò in Ungheria.
Ma ormai Ernest doveva definirsi ex-giocatore. Senza che fosse venuta meno la passione per il pallone, avrà inizio così la sua carriera da allenatore. In Italia allenerà la Fidelis Andria, il Bari, la Nocerina, il Cagliari, la Lucchese. Il 18 settembre 1938 Mussolini annunciò le leggi razziali. L’allenatore magiaro si trovò tra i perseguitati essendo noto in città che lui era ebreo, e con lui sua moglie e le sue due figlie, pur essendo cattoliche.
Decise perciò di accettare l’incarico di trasferirsi a Torino e di allenarvi la squadra. Non fu l’ultimo dei suoi spostamenti. Con la guerra e con il pericolo costante dei campi di concentramento viaggiò per mezza Europa, fuggì diverse volte dalle mani dei nazisti, si finse persino ferito con la complicità della figlia Susanna vestita da Crocerossina per trovare rifugio in un pensionato cattolico.
Ebreo errante, sopravvisse a guerra e persecuzioni. Ma non alla sua passione. Il 4 maggio 1949 l’aereo su cui viaggiava insieme alla squadra che aveva perso 4-3 nell’amichevole contro il Benfica in Portogallo si schiantò sulla collina di Superga.
Era l’inizio della leggenda del Grande Torino.
Il genio ebraico ha rivoluzionato il calcio
Così almeno sostiene Niccolò Mello nel suo libro del 2019 Stelle di David.
Se fino agli anni ’30 predominò il modulo cosiddetto piramide di Cambridge, cioè un 2-3-5 a forma di piramide rovesciata, dopo la prima guerra mondiale cominciò a farsi strada la tattica del sistema, detto anche WM dalla forma che prendeva il modulo 3-4-3, ma più precisamente 3-2-2-3. Contemporaneamente l’italiano Vittorio Pozzo portava alla vittoria la Nazionale con una formazione del tipo 2-3-2-3, detta anche metodo o WW per la sua forma tattica, caratterizzata da difesa ferrea, contropiede e pragmatismo.
Tra le due guerre però si era nel frattempo affermata la scuola del calcio danubiano nella quale un allenatore geniale, l’ebreo austriaco Hugo Meisl, tenta la sintesi tra sistema e metodo fondendoli con le sue intuizioni: la squadra di Hugo, il Wunderteam, era votata all’attacco, alla ricerca estetica e dello spettacolo, al controllo degli spazi. Rispetto al WW dell’amico-rivale Pozzo l’attaccante era il regista della manovra, a volte arretrato per meglio coordinare l’azione.
Ma è Erbstein, che segue il WW e perfeziona Meisl, a gettare le basi del calcio moderno:
- introduce il riscaldamento atletico prima della partita e le pratiche di defatigamento successive alla prova (sauna, massaggi, relax…)
- personalizza la preparazione atletica, tenendo nota minuziosa di carichi di lavoro, stato di forma degli atleti, durata degli allenamenti
- si dedica alla motivazione della squadra sfruttando gli elementi psicologici individuali e di gruppo, rispettando il diverso carattere di ciascun giocatore sia nello stimolo e nell’incentivo che nel rimprovero e nella correzione
- è precursore del calcio totale, allenando la squadra al movimento senza palla, allo scambio di posizione, al pressing, alle cariche ad alto ritmo
I risultati si apprezzano nella travolgente storia del Grande Torino.
Sinodalità ecumenica
Dopo il post Di naufragi e d’altre sinodalità e il successivo Dell’universo e d’altre sinodalità questo terzo ed ultimo post vuole esplorare la sinodalità sullo sfondo dell’ecumenismo.
Se il primo millennio cristiano si è distinto per una omogeneità (più o meno libera) di professione di fede che ha potuto favorire l’affermazione della Grande Chiesa, il secondo millennio cristiano, quasi all’opposto, ha restituito alla storia l’immagine di una Chiesa frantumata sotto la spinta dei Grandi Scismi.
Ancora nel terzo millennio l’immagine che si ricava dalla squadra cristiana è quella di un gioco fatto da rivalità interne, da incomprensioni dottrinali, da ripicche secolari, con il rischio tutt’altro che teorico di non giungere al risultato, al goal della sua missione. Di fatto manca il gioco di squadra.
Anche il rapporto tra cristianesimo e altre religioni vive una stagione di non minori conflittualità. L’opera di Papa Francesco, che ha cercato una forma di dialogo sia a livello politico-religioso con la Cina, sia livello di grandi intese con l’Islam, rivela l’intenzione del Pontefice di smussare le spigolosità più preoccupanti per la ricerca della pace e della fraternità universali. Ma persino tale opera ha trovato movimenti di opposizione interni alla Chiesa cattolica.
La sensazione marcata è che difetti una sorta di allenamento ecumenico. In questo senso la parte cattolica è coinvolta non meno delle controparti non cattoliche. C’è tuttavia primariamente da osservare che il fondamento dell’ecumenismo nella visione cattolica si rinviene nel capitolo II del documento conciliare Lumen Gentium, il quale tratta sotto l’unico argomento del Popolo di Dio tanto i fedeli cattolici, quanto i cristiani non cattolici (ritenuti congiunti con la Chiesa), quanto i credenti non cristiani (tra i primi ebrei e musulmani) e perfino coloro che non credono in nessun dio (tutti insieme ritenuti ordinati al Popolo di Dio). In realtà la costituzione dogmatica sulla natura e sulla missione della Chiesa offre la visione di un Popolo di Dio più vasto di quello che rientra nei confini visibili della Chiesa cattolica.
La domanda principale è quindi in base a quali criteri si debbano includere nel percorrere insieme la stessa strada (sinodalità) coloro che sono congiunti con la Chiesa e coloro che sono ordinati al Popolo di Dio. Ne enumero due.
Integrazione della missione della Chiesa
Il primo criterio di inclusione è quello che riguarda l’integrazione della missione della Chiesa. Solo una visione angusta, non più comprensibile nel terzo millennio cristiano alla luce della profonda conversione operata dal Concilio Vaticano II, potrebbe ritenere l’opera ecclesiale limitata al proselitismo e al consolidamento delle sue posizioni nel panorama geopolitico mondiale. Se la riflessione teologica da quasi un secolo ci restituisce l’immagine viva di una Chiesa segno e strumento di unità, nessun atto sarà tanto ecclesiale quanto la ricerca e la costruzione di basi perché la comunità dei credenti divenga una grande casa di incontro e di unità tra tutti i credenti.
Si potrebbe dire che per sua natura la sinodalità ha un carattere ecumenico. Cioè, si potrebbe dire che ogni tentativo di percorrere insieme la stessa strada porta ad includere in quell'”insieme” tutti coloro che sono congiunti tra loro e tutti coloro che sono ordinati al Popolo di Dio. Di converso, l’ecumenismo è per sua natura sinodale. Cioè, ogni volta che tutti coloro che sono congiunti tra loro e tutti coloro che sono ordinati al Popolo di Dio percorrono quella “stessa strada“, allora celebrano un sinodo.
In questo modo, e già per questo, cioè per l’avvicinarsi e provare a percorrere insieme la stessa strada, si compie la missione di sacramento di unità della Chiesa.
Ricerca di un linguaggio comune
È impossibile, almeno umanamente impossibile, trovare soluzioni semplici a problemi complessi – come quello delle divisioni tra le diverse confessioni cristiane e tra religioni diverse – dove spesso il prevalente egoismo umano ha inflitto ferite profonde e dolorose. Resta tuttavia alla portata degli sforzi umani ricercare un linguaggio comune nel quale esprimere ed accogliere persino le reciproche differenze.
A tal proposito vale una considerazione di carattere teologico-spirituale che conserva la sua validità nell’esperienza comune. La condizione in cui si trovano quanti sono entrati nella vita paradisiaca è tale che non annulla né i limiti strutturali delle persone (per esempio, limiti di conoscenza o di intelligenza, limiti culturali, limiti di età) né i limiti relazionali (per esempio, l’esprimersi in un certo modo, il coltivare le proprie passioni e abitudini). Tuttavia è altrettanto certo che, data la natura beata del paradiso, i limiti non costituiranno un ostacolo alla crescita personale e sociale delle persone. Ciò sarà reso possibile dal fatto che le radicalmente differenti modalità di essere e di esprimersi dei beati saranno superate da una comunicazione improntata ad una lingua universale, cioè comprensibile da chiunque in ogni tempo e in ogni luogo.
Nell’esperienza comune troviamo già in uso almeno parzialmente tale lingua. È quella per esempio adottata dai genitori nei confronti dei figli infanti, ancora incapaci di capire le espressioni che vengono rivolte loro o di esprimere il loro pensiero e le loro emozioni. Si tratta del linguaggio usato dai soccorritori in mare verso i migranti alla deriva, o del linguaggio scambiato con le persone con disagio psichico. Il linguaggio comune da ricercare, universalmente comprensibile da chiunque in ogni tempo e in ogni luogo, è il linguaggio del bene compiuto, il linguaggio dell’amore. In buona sostanza tutti gli esseri viventi sono in grado di decifrare, in modo più o meno appropriato, il bene che viene fatto loro.
La Chiesa ha motivo di percorrere la stessa strada insieme a quanti sono congiunti con lei e a quanti sono ordinati al Popolo di Dio perché facendo loro il bene (persino a quanti le rispondono con il male) cerca di parlare quel linguaggio comune comprensibile a tutti nel quale testimoniare l’amore di Dio per ogni essere vivente.
Il gioco di squadra
Si gioca per vincere, ma si perde anche. Soprattutto nei giochi di squadra, però, si gioca anche per divertirsi insieme. Si apprezzano le qualità di ciascun giocatore, si scoprono potenzialità e ci si aiuta reciprocamente a svilupparle, si definiscono gesti di generosità per lasciare che i migliori emergano senza sentirsi defraudati di ruoli o di risultati personali. Si sviluppa una sana competizione in vista del miglioramento personale.
L’analogia è potente se si pensa ad un sinodo dal contenuto ecumenico. Per quanto occorra sgombrare il campo da alcuni equivoci di fondo.
L’ecumenismo non è appannaggio cattolico. È vero che in questo momento storico sembra mancare un “regista” dell’azione, qualcuno che abbia una riconosciuta personalità ecumenica in grado di far superare diffidenze e di costruire gioco di squadra. Ma non è detto che tale “regista” debba provenire dalle file dalla Chiesa cattolica. Un percorso sinodale dovrebbe essere capace di far emergere tale personalità.
L’ecumenismo del lupo con l’agnello, o ecumenismo digestivo (provato forse nel passato) non si può definire in alcun modo ecumenismo. Laddove si mostrasse un tentativo di prevaricazione o di inglobamento da parte di qualcuno ci si troverebbe di fronte alla negazione dell’ecumenismo. In tal senso l’ecumenismo autentico dovrebbe aiutare ciascuno ad essere al meglio se stesso nella professione della propria fede, esaltando le buone qualità dell’altro e riempiendosi di gioia nel riconoscere i punti in comune.
Nemmeno l’ecumenismo apocalittico, fatto di verità sbandierate, può dirsi a buon diritto ecumenismo. Le verità rivelate sono tali perché Dio si è degnato di rivelarsi, pur non avendo imposto a nessuno di crederle. Tanto meno potrebbe farlo un’organizzazione di persone umane: la verità non si impone se non in forza di se stessa. Le verità umane rispecchiano un faticoso cammino di ricerca, di comprensione, di appropriazione che viene compiuto dall’umanità intera e da ogni singolo essere umano. Perciò nessuno può sentirsi depositario dell’intero patrimonio di verità né qualcuno può pensare di essere giunto al termine del cammino. Una sinodalità ecumenica sarebbe un utile strumento di ricerca, di comprensione e di appropriazione delle verità in un fertile servizio all’umanità.
Ecumenismo come gioco di squadra potrebbe essere il topic del Sinodo della Chiesa cattolica italiana. Mentre non ci si nascondono le oggettive differenze si ritrovano cammini comuni per obiettivi comuni parlando il comune linguaggio del bene.
Quel giorno di pioggia
L’aereo che riportava in Italia il Grande Torino si trovò ad affrontare l’avvicinamento all’aeroporto con condizioni meteorologiche avverse. In una giornata uggiosa la nebbia copriva la collina di Superga. Alla notizia della morte della squadra la Nazione si fermò. Il giorno dei funerali chiusero negozi e attività. Sembrava che fosse finita una stagione di speranza, nella quale al termine della guerra lo sport cercava di dare il suo contributo di entusiasmo e di rivincita popolare.
Dopo sessant’anni tante cose erano cambiate, il dolore è diventato nostalgia, la fine di una stagione è diventata leggenda. Il gruppo musicale Sensounico ha voluto dedicare una canzone al Grande Torino e una clip sponsorizzata dal Museo del Grande Torino nelle cui parole e nelle cui immagini si legge – oltre l’omaggio a quei giovani atleti nemmeno trentenni – un messaggio di fiducia:
Quel giorno di pioggia non pioverà più
Col tempo si cambia e cambierai tuQuel giorno di pioggia io spero non torni mai più
È passato tanto tempo, le chiese e le comunità cristiane, i culti e le confessioni religiose stanno scoprendo di avere un ruolo fondamentale nel produrre speranza per l’umanità. Che il tempo aiuti a cambiare (in meglio) ciascuno di noi per cambiare (in meglio) tutti insieme. Che il giorno di pioggia delle lotte fratricide non torni mai più.
Nel video: Quel giorno di pioggia, Sensounico (2009, nel 60° anniversario della tragedia del Grande Torino)
Confesso che questo articolo mi è riuscito un po’ più pesante dei precedenti due: al di là dell’essere d’accordo o meno con le tue affermazioni rispetto agli altri pecca in verve e chiarezza.