Discernere nella vita: prudenza e consiglio
“Come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
(Lc 12,56)
Fede e discernimento
Corso di Esercizi Spirituali
Figlie della Chiesa
Domus Aurea
19-26 Settembre 2013
Discernere nella vita: prudenza e consiglio
Accogli, Signore, la causa del giusto,
sii attento al mio grido.
Porgi l’orecchio alla mia preghiera:
sulle mie labbra non c’è inganno.
Venga da te la mia sentenza,
i tuoi occhi vedano la giustizia.
Saggia il mio cuore, scrutalo nella notte,
provami al fuoco, non troverai malizia.
La mia bocca non si è resa colpevole,
secondo l’agire degli uomini;
seguendo la parola delle tue labbra,
ho evitato i sentieri del violento.
Sulle tue vie tieni saldi i miei passi
e i miei piedi non vacilleranno.
(Sal 16)
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La strada delle virtù umane
Sarebbe un errore se le parole di Luca “Come mai non sapete mettere alla prova questo momento opportuno?” fossero interpretate come l’invito a ripiegarsi su se stessi e ad autocontemplare le proprie necessità, le proprie scelte, le proprie insoddisfazioni. Tra le intenzioni del Signore non c’era sicuramente quella di ritrovarsi con una cerchia di discepoli narcisisti, oggi si direbbe “autoreferenziali”, ai limiti dell’egoismo.
Ci siamo ampiamente soffermati ad evidenziare come vocazione e missione, identità personale e rapporto comunitario, dialogo con il Signore e servizio dei fratelli rappresentino due aspetti della vita dello spirito del tutto inscindibili tra loro. Per questa ragione il discernimento, come anche la fede, non potrà mai essere considerato una pura attività dell’individuo alla ricerca della sua realizzazione personale senza nessun rapporto vitale, esistenziale con il resto dell’umanità, allargando l’orizzonte persino oltre i confini del proprio essere credente.
Si potrebbe persino arrivare a dire che criterio di corretto discernimento in una prospettiva di fede cristiana sia la misura in cui la persona, mentre vede diminuire se stessa con le sue ispirazioni e aspirazioni, lascia uno spazio sempre crescente a Dio, nell’abbandono a lui, e alle necessità e sofferenze dei fratelli. Tale è stato anche il percorso seguito da Geremia.
In questa prospettiva diventa inverosimile che il “momento opportuno” sul quale esprimere l’evangelica valutazione si riduca all’esame di una qualche momentanea decisione dettata dalla contingenza del momento, spirituale o materiale. Così come la stessa azione del “mettere alla prova” diventi un arido giudizio circa i costi e i benefici della scelta.
Con queste premesse appare abbastanza necessario che il discernimento sia operato nel solco dell’attento esercizio delle virtù umane patrimonio che ogni persona, indipendentemente dalla sua fede religiosa, è in grado di conseguire e accrescere (“Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” Fil 4,8). La tradizione della Chiesa ha accolto nella sua dottrina un insegnamento che faceva parte anche della cultura laica greca e romana, elaborando peraltro le suggestioni provenienti dall’ebraismo, ed ha fissato nelle virtù cardinali la sintesi di tali virtù umane: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
Il libro della Sapienza 8,7 le presenta in tal modo: “Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza”. Ma il contesto in cui il versetto compare è interessante. Infatti il libro, nella sua peculiarità, tesse l’elogio della “sapienza” della quale già fin dai tempi più antichi il popolo di Israele avverte la presenza come dono di Dio. In particolare gli israeliti sono consapevoli che il dono della Torah, quell’ammaestramento divino che li ha sposati a Dio, li rende diversi dagli altri popoli e capaci di uno sguardo in profondità (intus legere). Dice Mosè: “Io vi ho insegnato leggi e norme come il Signore, mio Dio, mi ha ordinato, perché le mettiate in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso. Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare d tutte queste leggi, diranno: ‘Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente’” (Dt 4,6-7).
Perciò sembra che nemmeno riguardo alle virtù umane Israele rinunci a considerare la loro matrice profondamente religiosa. Da una parte infatti esse sono condivise con tutti gli uomini, dall’altra si scopre che l’ammaestramento della legge di Dio getta su di loro una luce “sapienziale” del tutto originale.
Nel solco di questi pensieri possiamo rapidamente anche noi cercare di mettere in evidenza il contributo che la fede ha dato nella comprensione delle virtù umane, in particolare della prudenza, a partire da quello che è stato l’insegnamento del Vero Uomo, Gesù di Nazareth.
- Giustizia. Il CCC 1807 definisce la giustizia come “la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto”. Muovendoci nel nostro ambito di ES, possiamo dire che alla base di un discernimento efficace non possiamo trascurare un atteggiamento di giustizia che ci spinga a riconoscere il diritto del prossimo, sia esso povero sia esso potente (Lv 19,15) sapendo di avere un “Padrone” in cielo (Col 4,1). Nelle parole di Gesù messo alla prova scopriamo il senso più profondo di questa virtù: “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mt 22,21), spesso banalizzato come un insegnamento sul laicismo mentre le intenzioni di Gesù sono chiaramente quelle di spingere a riconoscere e servire Dio.
- Fortezza. Sempre il CCC 1808 offre questa definizione della fortezza: “La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene”. L’apostolo Paolo conclude la sua 2 Ts con l’esortazione “Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (3,13) che potrebbe essere considerata un vero invito ad essere “forti”. Da una parte il “fare il bene” si deve leggere come la definizione di “amare”, perciò l’espressione potrebbe suonare come: “non scoraggiatevi nell’amare”. Dall’altra la ragionevole e realistica consapevolezza che le difficoltà non mancano nei “sapienti forti” non genera sconforto ma speranza, secondo le parole del Signore: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).
- Temperanza. Nel CCC 1809 leggiamo: “La temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati”. Alla scuola di Ignazio avevamo appreso che dobbiamo servirci dei beni creati per raggiungere Dio, ma se questi ci distolgono dal nostro fine dobbiamo liberarcene. In proposito resta insuperabile l’insegnamento di Paolo rivolto a Tito, per aiutarlo a compiere il suo ministero. Anzitutto Paolo gli ricorda che “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza. Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti, abominevoli come sono, ribelli e incapaci di qualsiasi opera buona” (1,15-16). Quindi lo invita ad insegnare ciò che è secondo la “sana dottrina” (2,1) in quanto “È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini”. Proprio tale grazia di salvezza che non esclude nessuno “ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” (2,11-12).
La prudenza nel discernimento
Non abbiamo dimenticato la prudenza, ma vogliamo soffermarci con maggiore attenzione per il ruolo che essa gioca nel discernimento. Infatti il CCC 1806 la definisce in questo modo:
La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo.
Già da queste semplici parole balza subito agli occhi che la prudenza si inserisce esattamente nel cuore delle nostre scelte. Ma cosa non è la prudenza? La prudenza non è:
- timidezza: c’è qualcuno che arrossisce più di altri per pudore; di solito si dice che è timido, ma si tratta di due cose diverse; la timidezza che porta a rinunciare al bene possibile è un rischio per la santità
- paura: se da una parte la paura va considerata come un’emozione che può salvarci dai pericoli (pensiamo a chi per paura evita di passeggiare sul cornicione di una finestra del decimo piano…), quando la paura paralizza nell’amore, nella speranza, nella fede allora diventa lei un pericolo per la salvezza
- ipocrisia: l’ipocrita, l’attore, colui che finge, ha di mira solo l’interesse personale, mentre la prudenza vuole raggiungere il bene possibile
- dissimulazione: finzioni di ogni genere, per quanto diverse dalla menzogna e dalla falsità dell’ipocrisia, creano però un falso: come su un set cinematografico, gli sfondi sono dipinti, le scene sono aggiunte dopo; dobbiamo imparare a vivere la vita evitando di farla diventare un film.
La scrittura è ricca di riferimenti alla prudenza, sia nell’antico che nel nuovo testamento. Ma c’è un testo evangelico con il quale siamo chiamati ad un confronto onesto e accogliente. Nel capitolo 10 di Matteo viene ricordato il discorso apostolico di Gesù. Egli invia i suoi discepoli e li istruisce intorno a quello che devono fare e dire. Ma offre loro anche le condizioni interiori e gli atteggiamenti esteriori che devono possedere e mostrare.
In particolare li mette in guardia contro i pericoli che possono trovare: saranno come pecore in mezzo ai lupi, perciò potranno essere perseguitati, arrestati, giudicati, persino giustiziati da chi riterrà, in questo modo, di compiere addirittura un’opera meritoria. Per tale ragione è necessario che il discepoli siano “prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (10,16).
Così dalle parole di Gesù possiamo stabilire alcune conclusioni:
- la prudenza trova la sua collocazione più appropriata nell’ambito dell’apostolato
- il discepolo non è né un avventato (se non trova accoglienza se ne deve andare) né uno sprovveduto (nel tempo della persecuzione deve sapere difendersi)
- la semplicità, che aiuta a ritrovare sempre l’essenziale, “ha le ali”, riesce a far sollevare il credente al di sopra del brulicare disordinato e confuso dell’umanità
- la ricerca del bene non può farsi senza l’utilizzo di strumenti idonei, che vanno cercati ed adottati.
La virtù della prudenza, quindi, in qualche modo costringe a prendere atto del fatto che decisioni, scelte, ispirazioni hanno un inevitabile risvolto pratico e che sarebbe puramente illusorio un comportamento che non riconoscesse l’importanza dell’hic et nunc, del qui ed ora – del momento opportuno – dove si svolge l’azione della nostra fede. Il mondo è il nostro teatro, la chiesa la regia che ci guida.
Un’opera di carità: il consiglio
Mettendo in luce il ruolo ecclesiale del discernimento (Ignazio ha addirittura estrapolato alcune regole per sentire cum ecclesia) e il suo spessore “pratico” torna alla mente quella sintesi catechistica nella quale vengono presentate alcune opere di amore che hanno un carattere squisitamente spirituale.
In un certo senso “opera” e “spirito” sembrano due concetti inconciliabili. Ma del resto anche noi stiamo facendo “esercizi spirituali”, come in una palestra si fanno “esercizi fisici”! Lo spirito non è un fantasma, lo spirito non è una realtà astratta e senza nesso con la vita. Anzi, basterebbe solo rileggere Rm 8 per comprendere che lo Spirito di Dio è tutt’altro che inattivo, attestando a noi di essere figli di Dio e fortificandoci nella fede e nella vita del nostro spirito.
Le opere di carità spirituale partono proprio dall’esperienza divina dello Spirito. È lui Spirito di consiglio (Is 11,2), lui è il Maestro interiore (Gv 16,13) e colui che convince il mondo di peccato (Gv 16,8). Lui è il Consolatore (Gv 16,7) e il Perdono dei peccati (Gv 20,22-23). Lui è la forza che ci sostiene nella sopportazione paziente delle persone (cfr la Pentecoste At 2), lui ci fa pregare il Padre (Rm 8,26). Imparando dallo Spirito di Dio e ripieni della sua grazia, pure noi siamo impegnati a fare altrettanto:
1. Consigliare i dubbiosi.
2. Insegnare agli ignoranti.
3. Ammonire i peccatori.
4. Consolare gli afflitti.
5. Perdonare le offese.
6. Sopportare pazientemente le persone moleste.
7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.
Nell’ambito del discernimento, quale realtà spirituale operata nella Chiesa e per la Chiesa, abbiamo la possibilità di attingere al dono del consiglio, così come lo Spirito effonde. Ma fa parte anche del dono del consiglio accostarsi a chi, guida illuminata, può aiutarci con il suo consiglio, esercitando un’opera di carità spirituale. Tobi, il protagonista del libretto che abbiamo citato, istruisce suo figlio e lo esorta:”Chiedi il parere ad ogni persona che sia saggia e non disprezzare nessun buon consiglio” (4,18).
Il consiglio fa riflettere l’uomo se una cosa è lecita, conveniente, utile, opportuna. Sono quattro criteri di discernimento, conoscendo i quali possiamo persino riconoscere se una persona è in grado di consigliare bene! In particolare il consiglio è corretto se aiuta a comprendere quando una cosa è:
- lecita: non deve offende né Dio né la sua legge di amore, quindi nemmeno i fratelli;
- conveniente: deve portare a risultati buoni, per sé e per gli altri;
- utile: il nostro utile finale è la vita eterna, la santificazione nella coerenza cristiana ed evangelica;
- opportuna: cosa giusta, al momento giusto, nel posto giusto (non si accende una lampada per metterla sotto il letto… il letto andrebbe a fuoco, peraltro).
Tali criteri di carità possono davvero rivelarsi un supporto valido per la salvezza della propria anima, come direbbe sant’Ignazio. Ma al termine di questi ES tra tutte le cose dette quello che conta effettivamente è l’amore con il quale abbiamo deciso di abbandonarci nelle mani di Dio, che per primo ci ha amati.
Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta (ES 234).