Er Papa sta a Roma…
C’è un modo di dire tutto romano
Er papa sta a Roma…
“Il Papa sta a Roma…” con tanto di puntini di sospensione. I romani romani (il raddoppiamento indica la purezza dell’identità) sono (erano) soliti dirlo quando si teme una avversità per l’Urbe, ma scaramanticamente si esclude possa accadere appunto perché “er Papa sta a Roma…“, cioè è in sede, non sta in viaggio (o non è morto). E quindi si spera in un occhio di riguardo della Divinità.
Ma se sta a Roma, allora corre l’obbligo di difendere l’augusta persona e i sacri confini del suo regno. Gustosissima la scena dell’indimenticabile Il Marchese Del Grillo, con Alberto Sordi e Paolo Stoppa: “Santità, se è necessario…“.
Ma il Papa deve stare obbligatoriamente a Roma? O ci sono altre possibilità? E che significa fare il Papa nel terzo millennio cristiano?
In questo post cercherò di fare qualche ipotesi sulla Chiesa dei prossimi anni, anzi secoli. Quindi quando potrò gustarmela da un’altra prospettiva…
Il Papa sta a Roma
Il Papa sta a Roma fin dal momento in cui ci arrivò Pietro, l’apostolo al quale Gesù conferisce un primato sugli altri apostoli. Storicamente gli apostoli elessero nei vescovi i loro successori, e va avanti così ininterrottamente da un paio di millenni, almeno per la Chiesa cattolica. Poiché Pietro aveva migrato la sua influenza (non si può dire “sede episcopale” perché la figura dei vescovi si presenta appunto alla morte degli apostoli) dalla Chiesa di Antiochia di Siria a quella di Roma, dove incontrò la morte violenta nel Circo di Nerone, in prossimità del colle Vaticano sul quale sorge la Basilica (che funge da cappella privata del Pontefice) a perpetuare il luogo della sepoltura del Principe degli Apostoli, i vescovi di Roma suoi successori acquisirono le stesse prerogative primaziali.
In effetti l’attuale elezione del Papa da parte dei Signori Cardinali, codificata da un rigidissimo rituale, è più esattamente l’elezione del Vescovo di Roma, successore di Pietro, e quindi del Primate della Chiesa cattolica. Il Papa non potrebbe non stare a Roma, in quanto per essere Papa deve essere vescovo di Roma. È stato così per 2000 anni, è ragionevole pensare che lo sarà ancora per un certo tempo. Si può essere sicuri che lo resterà in eterno?
Quando Pietro giunse a Roma era quella la città provvidenziale (e in ciò seguo il pensiero espresso da Ratzinger nella sua Introduzione al cristianesimo) che poteva assicurare la massima diffusione della novità cristiana: capitale di un impero ramificato in tutto il mondo conosciuto, non grande centro culturale ma luogo di nutriti scambi commerciali. C’erano tutti gli ingredienti per farne anche una capitale religiosa.
A distanza di tanto tempo le cose sono decisamente cambiate. Non esiste più un impero romano, Roma non si qualifica per essere un faro culturale a livello mondiale, l’economia globale non passa per le vie consolari. Anche dal punto di vista religioso Roma non può dirsi la capitale del cristianesimo cattolico, se non formalmente. I fedeli diminuiscono a vista d’occhio, se non venissero importati preti da altre nazioni non vi sarebbe clero sufficiente nemmeno per garantire il servizio delle parrocchie. E all’orizzonte non si intravedono segnali indicatori di un’inversione di tendenza.
Non sarà che la Provvidenza vuol dirci qualcosa?
E se il Papa non stesse più a Roma?
Mentre attendiamo che le istituzioni civili e i progetti pastorali religiosi cerchino di capire le intenzioni della Provvidenza, voglio divertirmi a fantasticare se il Papa non stesse più a Roma.
Anzitutto sarebbe possibile, ripetendo quel che fece Pietro a suo tempo, migrare la sede episcopale da Roma a un’altra città. Facciamo un’ipotesi: Pechino. Pechino è la capitale di un vero e proprio impero, politico ed economico, con una grande storia, impero che sta espandendo la sua influenza anche in continenti diversi da quello asiatico. Influenza culturale e influenza commerciale non sottovalutabili da un continente come ad esempio quello europeo, l’unico dove diminuisce la popolazione (e diminuiscono i cristiani). Come la Roma imperiale si mostrò sospettosa ed ostile alla nuova religione, così la Pechino maoista non ha intenzione di abbracciare una religione che non riesce a controllare completamente. Diciamo che a volerne cercare, di analogie ne troveremmo ancora molte altre.
Ci fermiamo qui e ipotizziamo il giorno in cui il Vescovo di Roma decidesse di spostare la sua sede a Pechino. Da quel momento i Signori Cardinali – in rappresentanza del clero e del popolo pechinese – eleggerebbero il successore di Pietro nella sede di Pechino.
Perché il successore di Pietro dovrebbe cambiare sede dopo tanto tempo? Per le stesse ragioni per cui lo fece Pietro intorno all’anno 60: per evangelizzare, per diffondere il vangelo dove non era conosciuto. A Roma conosciuto meno che a Gerusalemme e ad Antiochia. A Pechino conosciuto meno che a Roma.
Cosa cambierebbe per la Chiesa cattolica se il successore di Pietro, il Papa, scegliesse come sua sede episcopale una città diversa da Roma? Per la Chiesa cattolica non cambierebbe nulla. La sede petrina è un’istituzione ecclesiale, non un dogma di fede, fa parte dell’esercizio del primato, non del primato in sé. Quel che Gesù ha espresso chiaramente è stato il primato di Pietro, non il modo in cui lo dovesse esercitare.
L’esercizio del primato di Pietro
Ho già manifestato in diverse altre occasioni il mio pensiero: nel terzo millennio cristiano si dovrà verificare una sostanziale revisione dell’esercizio del primato di Pietro. Al proposito mi trovo in sintonia con il pensiero di Giovanni Paolo II e di Francesco, ciascuno dei quali ha dichiarato la propria disponibilità a rivedere l’esercizio del primato petrino in comunione con i fratelli cristiani di altre confessioni. Nessuno sa di preciso in cosa potrà consistere questo esercizio rinnovato. Se si tratterà per esempio dell’abbandono del modello monarchico a favore di un modello collegiale, con la partecipazione di membri di altre confessioni cristiane. O se si tratterà di un modello sinodale, come accade già nelle Chiese di Oriente.
Non si sa se per eleggere il Papa si dovrà ancora ricorrere a grandi elettori scelti in assoluta autonomia dal Pontefice regnante o si dovrà tornare ad ascoltare il clero e il popolo della Diocesi del successore di Pietro oppure se occorrerà la consultazione dei Primati delle varie confessioni cristiane.
L’unica cosa certa è che ci troviamo in presenza di un processo irreversibile di trasformazione del papato, ben lontani dai tempi dell’Apostolo come dai tempi del Papa-Re possiamo guardare con il dovuto distacco la storia passata e cercare di costruire il futuro. In questo senso l’opera di Francesco si distingue per il suo carattere di rottura. Ha internazionalizzato il Collegio Cardinalizio come nessun altro prima di lui; al tempo stesso ha avuto la determinazione di escludere dal Collegio alcuni Cardinali indegni e di estromettere dagli uffici altri Cardinali non allineati. Ha conferito una maggiore autonomia e rilevanza alle Conferenze Episcopali nazionali. Ha accentuato le responsabilità dei Vescovi ordinari. Ha scelto in modo deciso uno stile sinodale per l’assunzione delle più importanti decisioni. Senza dimenticare l’evento storico seguito dal mondo in diretta, la rinuncia del suo predecessore Benedetto XVI, che rappresenta un importante precedente per la storia e la prassi futura. Sono segnali non trascurabili della volontà di ridisegnare una fisionomia del papato notevolmente più dialettica rispetto a quella a cui eravamo abituati.
Non si è ancora arrivati alla ciccia ma intanto si può cominciare a riempire il bicchiere per il brindisi. Auguri, Chiesa cattolica del terzo millennio!