Fisso lo sguardo sulla verità

Questo articolo è la meditazione dettata durante un corso di Esercizi Spirituali. Per il corso completo e il download dei testi clicca qui.

Preghiamo

Esulti sempre il tuo popolo, o Padre, per la rinnovata giovinezza dello spirito, e come oggi si allieta per il dono della dignità filiale, così pregusti nella speranza il giorno glorioso della risurrezione. Tu vivi e regni per sempre. Amen.

Lo sguardo e la promessa

Nelle precedenti meditazioni ci siamo lasciati guidare dalla visione di Stefano per soffermare la nostra attenzione su quel “Gesù” che egli contempla alla destra di Dio. Egli contempla quindi un’umanità gloriosa che nell’obbedienza ha realizzato il passaggio dalla condizione catastrofica del “deserto” a quella beatifica del paradiso. Più di un’immagine, si tratta della “teoria”, della contemplazione della salvezza.

Non dimentichiamo che il tema dei nostri Esercizi si propone di farci mantenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù. Rileggiamo la citazione dell’omelia agli Ebrei dalla quale il tema è estratto:

Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio (12,1-2).

Vorrei a questo punto osservare come l’autore si esprima al plurale: da una parte“noi”, “un gran numero di testimoni” dall’altra. Il tutto in un contesto che sviluppa il tema della fede strettamente correlato a quello della promessa. Nel capitolo 11 ai testimoni citati viene riconosciuto di aver agito conseguentemente ad un patto, ad un’alleanza nella quale l’impegno preso da Dio era di realizzare qualcosa a loro beneficio. I testimoni effettivamente sono in grado di apprezzare la fedeltà di Jahvè che mantiene la sua promessa, tuttavia essi sembrano anche consapevoli che dietro la promessa infine realizzata della nascita di un figlio o del possesso di un territorio o dell’uscita di un popolo dalla schiavitù o della vittoria miracolosa di lotte con guerrieri ci sia ben altro, si colgano segnali di un dispiegarsi della storia che gradualmente sta portando in una direzione imprevedibile ed esplosiva.

Nel rileggere in lingua originale il testo che abbiamo citato non possiamo fare a meno di osservare che i termini sono molto ricchi di significati non facilmente traducibili e per questo necessitano di qualche approfondimento. In particolare mi riferisco al termine qui tradotto proprio con “testimoni” (μάρτυρες, “màrtires”) e all’espressione ἀφορῶντες εἰς τὸν τῆς πίστεως ἀπχηγὸν καὶ τελειωτὴν Ἰησοῡν dalla quale proviene il titolo degli Esercizi. Per quanto riguarda il primo caso mi pare giusto osservare che in italiano il termine “martire” che traslittera quello greco ha finito per acquistare un valore squisitamente religioso. Il martire non sarebbe un testimone qualsiasi, ma uno che ha reso la sua confessione di fede fino al sacrificio della vita. Tuttavia un’analisi più approfondita non è in grado di valutare altre differenze di significato tra “testimone” e “martire”; la scelta di tradurre ora con l’una ora con l’altra parola l’unico sostantivo greco si deve al contesto, preferendo la prima se prevale un significato giuridico-legale e la seconda se invece prevale un significato religioso.

Il trionfo del diritto e della giustizia

Non si tratta qui di ricorrere a qualche banale esercizio linguistico nel tentativo di dare spiegazioni complicando la realtà della Parola di Dio. Essa viene accolta da di chi l’ascolta non perché viene spiegata ma perché essa stessa spiega qualcosa, rivela l’uomo all’uomo (GS 22). E si accoglie con quei limiti dei quali non può fare a meno diventando “Scrittura” in mezzo agli uomini.

Nella lingua italiana “testimone” deriva dal latino “testem”, che pare a sua volta discendere da una radice comune anche a testamento (“tars-, tras-”), radice con il significato di “tenere”, “sostenere”. Il testimone, quindi, è propriamente “colui che sorregge il diritto davanti ad altri”. Quindi non semplicemente qualcuno che “ha visto qualcosa”, ma qualcuno che è capace di riconoscere ciò che è giusto perché corrisponde alla verità, di sostenerlo davanti ad altri, di difenderlo. Non sorprende quindi se un concetto tanto universale come quello di diritto compaia anche nalla cultura ebraica.

Così scrutando le Scritture possiamo cogliere quanto rilievo esse diano al “diritto” e gli accostino, quasi a formare un endiadi inscindibile, la “giustizia”. Ripensiamo al salmo 33, un inno trionfale rivolto a Dio presentato come Re che “ama il diritto e la giustizia” (v. 5). Se è ben importante per qualsiasi popolo che i governanti siano legalmente rispettosi del diritto di ognuno ed esercitino una giustizia imparziale, Israele dichiara la sua completa fiducia nel proprio Re che non solo esercita ma persino “ama” diritto e giustizia. Ama cioè che di ogni creatura sia riconosciuta e difesa la dignità che discende dall’inesauribile ed originale rapporto con lui e con le altre creature. Lo sguardo della fede però ancora una volta si spinge oltre, percependo che dietro la facciata legale del diritto e della giustizia si prospetta qualcosa di più grande.

Infatti il profeta Isaia si misura con una figura misteriosa che percepisce come uno straordinario alleato di Jahvè. Si tratta di un “servo” che “porterà il diritto alle nazioni” (42,1) sostenuto dallo Spirito di Dio; un servo tanto forte che “proclamerà il diritto con fermezza” (42,3) e non si fermerà fin quando “non avrà stabilito il diritto sulla terra” (42,4). Tanto importante sembra il compito di questo servo, atteso da tutti i popoli (cfr 42,4), che a lui Dio si rivolge in prima persona a tu per tu: “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia” (42,6).

Circa tre secoli più tardi l’evangelista Matteo (12,1-21) resterà così sorpreso dal comportamento di Gesù che nel giorno di sabato permette ai suoi di raccogliere il grano (una specie di lavoro) e compie una guarigione nella sinagoga da identificarlo senza dubbio con quel servo di cui aveva parlato Isaia, un servo che “la canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia” (Mt 12,20). È verosimile che Gesù Servo di Jahvè nel corso della sua missione si sia dovuto confrontare con situazioni umane precarie e ai limiti della tollerabilità. Sono le canne incrinate e i lucignoli fumiganti nei quali ci imbattiamo molto spesso anche noi, sia nella nostra esperienza personale, sia negli incontri della vita. Credo sia importante sapere che il Signore fa trionfare diritto e giustizia non sopprimendo e distruggendo, ma rivitalizzando e ricostruendo.

Testimone fedele di grazia e verità

L’Apostolo Giovanni racconta di aver ricevuto una rivelazione presentata nel libro dell’Apocalisse. Egli apre il suo racconto con queste parole:

Rivelazione di Gesù Cristo che Dio … manifestò … al suo servo Giovanni. Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra (1,2.4-5).

Nell’indirizzo e nel saluto di quella che sembra essere una lettera scritta alle comunità dell’Asia compaiono ben tre occasioni nelle quali si parla di “testimonianza”. Giovanni “attesta la parola di Dio” e il verbo greco (ἐμαρτύρησεν, “emartìresen”) a somiglianza di quello italiano fa riferimento alla testimonianza. In seguito parla esplicitamente della “testimonianza di Gesù Cristo”, che definisce “testimone fedele”.

Nell’originale greco la doppia presenza dell’articolo, sia davanti a “testimone” sia davanti a “fedele”, sembrerebbe deporre a favore di una lettura nella quale il testimone non solo è fedele al suo ruolo, ma è “IL” testimone quello fedele per eccellenza, è “IL” fedele. Pur non apparendo esplicitamente, attraverso questo titolo (“il fedele”) si fa strada tutta la storia della salvezza, nella quale Dio si era mostrato “fedele” al suo patto, fino a giungere a lui, a Cristo. Si tratta del ritorno di un tema molto caro a Giovanni. Giovanni sa ovviamente che Gesù rappresenta il compimento delle promesse e quindi nel suo vangelo e nelle sue lettere è attento a stabilire una continuità tra le antiche profezie e la persona di Cristo; ma egli fa anche ogni sforzo per dimostrare che il compimento in Gesù comporta addirittura un superamento delle promesse.

Abbiamo già menzionato la risposta che Gesù dà a Filippo, il quale bramava di vedere il Padre: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Vale la pena ricordare che la domanda nasce nell’Apostolo subito dopo aver ascoltato le parole del Signore: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto” (14,6-7). Il richiamo alla verità colpisce molto, in questo contesto. Non è la prima volta che Giovanni parla di verità in relazione a Gesù. Nel proemio lo indica come “pieno di grazia e di verità” (1,14) in modo non molto differente da quel che si dice di Stefano protomartire negli Atti degli Apostoli (6,8). Ma, a differenza di quest’ultimo, Gesù è presentato come la fonte della grazia e della verità, a somiglianza di Mosè fonte della legge, del diritto (Gv 1,15). La legge mosaica, la “torah” nella quale si rivela un Dio che ama il diritto e la giustizia viene superata dalla “nuova legge”, un nuovo diritto e nuova giustizia, che ora si chiamano “grazia e verità”.

L’identificazione tra Gesù e la verità ci porta a toccare due altri brani del vangelo di Giovanni, l’episodio della samaritana al pozzo e la promessa dell’invio dello Spirito nel lungo discorso dell’ultima cena. Nel primo Gesù annuncia che è giunto il momento “in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” e aggiunge: “Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24). Parole importanti che toccano e scrutano la fede dei credenti, spesso perduti dietro qualche esteriorità di cerimonie e di ricerca di prestigio, preoccupati di rincorrere il mondo con le sue vanità e poco amanti dell’essenziale e dello stupore della propria vocazione che li pone in adorazione del Padre e al servizio dei fratelli.

Al momento di lasciare i suoi Gesù apre loro il suo cuore: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (16,12-13). Dobbiamo senza dubbio apprezzare la delicatezza del Signore nei confronti dell’uomo, che non carica mai di pesi insostenibili, come invece rimproverava ai dottori della legge di fare con la gente (cfr Lc 11,46); ma insieme al gravame il Signore dona anche la forza per sopportarlo (cfr 1Cor 10,13). San Paolo conferma tale convinzione basandosi sul fatto che “Dio è fedele”. Nella promessa dell’arrivo dello Spirito di verità cogliamo un’ulteriore attenzione del Signore: è lui la “forza” promessa ai credenti per superare la prova e la tentazione, per portare quel peso che a volte ci fa sembrare faticoso il cammino della fede.

Come dimenticare che gli errori di alcuni fratelli e sorelle minano alla radice la credibilità del vangelo? Come dimenticare che il peccato degli uomini spesso si riversa sui cristiani fino alla morte violenta? Come dimenticare che la presenza del male nel mondo sembra contraddire in modo plateale la bontà del Dio che testimoniamo? Come dimenticare le sfide della modernità a livello scientifico, tecnologico, morale che fanno molto spesso apparire “vecchi”, disadattati, inutili gli insegnamenti della Chiesa? Proprio il ricordo costante di queste cose, delle quali spesso il credente non è capace di sopportare il peso, richiede il dono dello Spirito. Allo Spirito è affidato il compito di sostenere il credente nella verità, di incidere il senso profondo delle parole del Signore nel cuore dei fedeli e di aprire con speranza la porta del futuro. Lo Spirito Santo, in questo modo, ricuce e salda la distanza che anche nel tempo ci separa dal Signore, rendendolo vivo e operante in mezzo a noi grazie agli “adoratori in spirito e verità”.

Gesù è stato, è e sarà testimone di grazia e di verità perché nel suo essere Figlio dell’uomo e Figlio di Dio è iscritta la realizzazione di una fedeltà a Dio e all’uomo giunta fino al martirio. E per questo anche suprema testimonianza di amore. Rileggiamo le parole di Papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate.

Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme «Agápe» e «Lógos»: Carità e Verità, Amore e Parola (3).

Approfitteremo delle prossime meditazioni per ritornare sul tema dell’amore, perché la carità si lega alla questione della fede in modo inscindibile e la supera: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1Cor 13,13).

Fisso lo sguardo su Gesù

ἀφορῶντες εἰς τὸν Ἰησοῡν, fisso lo sguardo su Gesù, dice l’omelia agli Ebrei. In tutte queste meditazioni abbiamo cercato di guardare a lui. Come poteva essere diversamente? Chi altri potevamo guardare, se lui è il più bello dei figli dell’uomo (Sal 45,3)? Il verbo ἀφοράω che i traduttori hanno reso con “fisso lo sguardo”, per la presenza della preposizione ἀπό (“apò”) accanto al verbo ὁράω (“orào”) nel suo pieno significato si dovrebbe piuttosto leggere come “scorgo”, “vedo da lontano”. Pare non casuale questo verbo, preferito ad altri. Esso rivela che è stabilita una distanza tra noi e Gesù, che noi possiamo solo a malapena “scorgere”, guardando “da lontano”, la vastità di senso racchiusa nel Figlio dell’uomo. Ci è difficile abbracciare con un solo sguardo tutti i dettagli della persona e dell’azione salvifica di Cristo.

Ma al tempo stesso questa distanza ci dà la possibilità di contemplare in un colpo d’occhio la grandezza del mistero. Accade come a bordo di una navicella spaziale dalla quale, mentre si allontanano dalla superficie, gli astronauti riescono a vedere sempre meno particolari del suolo, però colgono sempre meglio i contorni dei continenti, la sfericità della terra, i colori di un pianeta vivo. Così è per noi questo gesto, “fissare lo sguardo su Gesù” ma da lontano, scorgendo appena qualche particolare della bellezza della rivelazione ma riuscendo a contemplare l’insieme dell’opera compiuta.

A conclusione di questa meditazione dovrebbe venire da chiederci: perché dobbiamo fissare lo sguardo su Gesù? Ha senso una simile azione, sapendo che esiste una distanza tra noi e lui tale da non consentirci se non scorgere qualcosa?

Qualche anno fa il teologo Ratzinger pubblicò un volumetto dal titolo eloquente nel quale aveva raccolto alcune sue conferenze e riflessioni su Cristo. Il volumetto si intitola: “Guardare al crocifisso” (Joseph Ratzinger, Guardare al crocifisso. Fondazione teologica di una cristologia spirituale, Jaca Book, Milano 1992). Penso sia utile attingere a qualche sua considerazione per dare una risposta sensata alle nostre domande.

Tra le prime considerazioni da osservare è che il centro della vita e della persona di Gesù è la sua relazione con il Padre. Appunto per questo, dice Ratzinger “chi sia gesù, lo si capiace, secondo Luca, quando lo si vede pregare” (p.18). La preghiera di Gesù trasuda quella comunicazione con il Padre dalla quale scaturisce anche la Chiesa “partorita nella preghiera” (p. 17). Per noi che fissiamo lo sguardo su Gesù, pur non riuscendo a penetrare il misterioso scambio che si attua per mezzo della sua preghiera, essa diventa una scuola di sapienza e di conoscenza, nella quale anche noi possiamo “vedere il Padre”.

C’è un’altra considerazione che mi preme osservare in relazione all’importanza rivestita dai sensi e dal sentimento nella devozione. Sempre Ratzinger, ricordando la conclusione dell’enciclica Haurietis aquas dice: “per accostarsi al mistero di Dio l’uomo ha bisogno di vedere, di fermarsi a vedere, e di fare sì che tale vedere divenga un toccare. Egli deve salire la “scala” del corpo, per trovare su di essa la strada alla quale la fede lo invita” (p. 49). Infatti, dice più in là citando la stessa enciclica, “il Verbo di Dio non ha assunto un corpo fittizio e insignificante” (p. 50). Mentre fissiamo lo sguardo su Gesù, rinnoviamo l’atto di fede nella sua piena umanità e facciamo partecipare il corpo (nei suoi sensi esterni e in quelli interni) al mistero della redenzione.

Una terza considerazione riguarda la comunione, comunità e missione. Questa trilogia di concetti teologici chiama in causa sacramento, chiesa e apostolato:

Il profondo mistero della comunione tra Dio e l’uomo è accessibile nel sacramento del corpo del risorto: il mistero, al contrario, richiede il nostro corpo e di nuovo si realizza in un corpo. Costituita dal sacramento del corpo di Cristo, anche la Chiesa, da parte sua, deve essere un corpo, ed invero un unico corpo corrispondentemente all’unicità di Gesù Cristo. Tale unicità appare di nuovo nell’unità e nella permanenza dell’unica dottrina apostolica (p. 82)

Fissare lo sguardo su Gesù mentre mettiamo i nostri occhi sul Corpo eucaristico, o anche mentre mettiamo i nostri occhi sul corpo ecclesiale, ci spinge a riconoscerci immersi nella più viva e beatificante comunione che potessimo immaginare, quella tra Dio e uomo.

Infine, un’ultima considerazione sulla gioia pasquale frutto della liberazione operata dall’Agnello. Ratzinger ricorda che nel passato “il risus paschalis, il riso pasquale, era parte integrante della liturgia barocca” (p. 106). Durante le prediche bisogna trovare il modo di far ridere la gente. Era Pasqua, non c’era spazio per la tristezza. Annota quindi Ratzinger:

Se noi comprendiamo l’annuncio della risurrezione, allora conosciamo che il cielo non è totalmente chiuso al di sopra della terra. Allora qualcosa della luce di Dio – ancora in modo timido e tuttavia potente – penetra nella nostra vita. Allora sorgerà in noi la gioia, che noi altrimenti aspetteremmo inutilmente, ed ogni persona nella quale è penetrato qualcosa di questa gioia può essere a suo modo un’apertura attraverso la quale il cielo guarda alla terra e giunge a noi” (p. 107).

Mentre fissiamo lo sguardo su Gesù dobbiamo anche riflettere sul perché molti cristiani, forse troppi, ancora non siano stati contagiati dalla gioia del Risorto. E anche sul motivo per cui molti uomini non credenti sospettino che la fede cristiana sia una fede triste e musona. Fisso lo sguardo su Gesù possiamo attingere ad un nuovo tipo di gioia e, come sostiene Ratzinger, diventare “un’apertura attraverso la quale il cielo guarda alla terra”.

Anche se forse la ragione più semplice e più vera per tenere fisso lo sguardo su Gesù, pur da lontano, è che noi fissiamo lo sguardo su di lui come lui da sempre, come un innamorato, ha fissato lo sguardo su di noi.