Fuge – Tace – Quiesce. Apertura degli Esercizi Spirituali
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Mi piace pensare di iniziare questi Esercizi Spirituali sotto il segno della gioia. Deve accompagnarci la gioia. Certamente la gioia si traduce in atteggiamenti esteriori e potrebbe sembrare difficile poter manifestare gioia dovendo osservare un rigoroso silenzio. Tuttavia la gioia che ci auguriamo gli uni gli altri è la gioia di chi sa che sta camminando insieme verso una meta comune: la casa del Signore. “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Spesso ci si domanda: cosa occorre per fare dei buoni Esercizi Spirituali? Prima di addentrarci nel vivo del nostro percorso, credo che sia importante raccogliere dalla storia e dall’esperienza dei grandi maestri dello spirito le tre indicazioni classiche e se vogliamo uniche da sempre considerate indispensabili per favorire il raccoglimento e una buona maturazione spirituale. Si tratta della famosa triade Fuge – Tace – Quiesce. Si possono tradurre in italiano con ”fuggi”, “fa’ silenzio” e – parola un po’ più complessa – “sta’ quieto, sta’ in pace, riposati”.
La fuga che soprattutto i padri del deserto richiedevano non era semplice allontanamento dal mondo, dalle attività, per ritirarsi in luoghi appartati a pregare, come avevano visto fare dal Maestro (cfr Lc 9,18). Più profondamente la fuga era costituita dal rientrare in se stessi, ritirarsi nel proprio cuore. Il citato figlio della parabola del padre misericordioso decide di tornare alla casa del padre, spinto da una irrefrenabile nostalgia, dopo essere rientrato in se stesso (Lc 15,17). Si può dire che egli era “fuggito” dalla casa di suo padre, ma la distanza fisica non lo aveva mai allontanato, perché quella casa la portava dentro di sé, nel suo codice genetico, in ogni cellula, nel suo cuore di figlio amato. In quel cuore, la casa del padre ancora continuava a “parlare” e a farsi desiderare.
Fare silenzio può sembrare semplice. Peraltro si tratta di un consiglio che non riguarda solo l’esperienza cristiana. Sono molte le religioni che richiedono l’atteggiamento del silenzio come espressione del proprio atto meditativo, della propria concentrazione. Ma il silenzio del cristiano non ha questa direzione “egocentrica”. Nella rivelazione cristiana ciò che trionfa è il primato di Dio e la relazionalità tra gli esseri spirituali (comunione). Il silenzio non ci porta all’isolamento e all’incomunicabilità. Invece il silenzio diventa il terreno dell’ascolto, il luogo fisico-spirituale dove la parola può nascere ed essere accolta. “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
Forse più complicata di tutti è l’indicazione intorno alla quiete, alla pace, al riposo. Essa fa certamente riferimento all’esichia tradizionale degli orientali, quella ricerca di quiete che prelude e prepara alla preghiera profonda, e che già di per se stessa è in qualche modo preghiera. Ma nell’imperativo quiesce noi ritroviamo altri significati. Esso impone di liberarci da ogni legame che provoca un turbamento interiore. Tutti conosciamo la frenesia delle nostre giornate. Le tante attività che compiamo ci disperdono, a volte ci tolgono proprio la serenità, l’equilibrio interiore, la pace. Spesso non ci rendiamo conto che nel vortice di quello che facciamo persino la preghiera e la celebrazione dei sacramenti rischiano di diventare “una cosa tra le altre” e di toglierci la pace anziché donarcela. Delle tre indicazioni, quella dell’imperativo quiesce è la più teologale. Davvero un dono del Signore. A fondamento si trova il saluto pasquale del Cristo “Pace a voi” (Gv 20,19). Impossibile stabilire la pace profonda, la liberazione dai legami disordinati con le nostre attività quotidiane, senza che il Signore abbia pronunciato queste parole e le abbia scolpite nelle nostre profondità.