Geremia, una vocazione pericolosa
“Come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
(Lc 12,56)
Fede e discernimento
Corso di Esercizi Spirituali
Figlie della Chiesa
Domus Aurea
19-26 Settembre 2013
Geremia, una vocazione pericolosa
La legge del Signore, è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è verace,
rende saggio il semplice.
Gli ordini del Signore sono giusti,
fanno gioire il cuore;
i comandi del Signore sono limpidi,
danno luce agli occhi.
(Sal 18B)
( vai alla pagina iniziale – scarica pdf )
Il libro del profeta Geremia si apre con la presentazione del personaggio (1,1), del tempo in cui agisce (1,2-3) e della chiamata del Signore e della risposta che rivolge al Signore che lo chiama (1,4-10).
Presentazione del profeta
Geremia appartiene alla casta sacerdotale, avendo ereditato tale condizione da suo padre Chelkia. La precisazione che si tratta di “uno dei sacerdoti che risiedevano ad Anatòt” (a pochi chilometri da Gerusalemme, come la distanza tra Roma e i Castelli) mette in allarme. Ad Anatòt infatti erano stati confinati da Salomone i sacerdoti discendenti del sacerdote Eli.
La storia di quest’ultimo appare in 1 Sam 1-4. Si tratta del sacerdote che dialoga con Anna, futura madre di Samuele, nel tempio di Silo, e che successivamente accolse Samuele fanciullo e ne riconobbe la vocazione del Signore. Ma mentre Samuele, che non era figlio di Eli e quindi non aveva nessun privilegio sacerdotale, viene scelto da Dio e “lo riconosce” (3,10.19), i figli carnali di Eli “erano uomini perversi; non riconoscevano il Signore né le usanze dei sacerdoti nei confronti del popolo” (2,12). Un comportamento tanto riprovevole da causare l’intervento di Dio che annuncia per ben due volte alla discendenza di Eli una vera maledizione. La seconda volta rivelata proprio nella prima rivelazione a quel Samuele (3,11-14) che avrebbe continuato il culto a Silo (3,21) anche dopo il rifiuto da parte di Dio del sacerdote-giudice Eli, colpevole di non aver ammonito i propri figli. Eli concluderà la sua vita con un doppio dispiacere: la morte in battaglia di entrambi i figli e la cattura dell’arca dell’alleanza da parte dei Filistei (4,17).
Triste vicenda, quella di Eli; dal racconto di questo libro profetico, parte dei Neviim anteriori, emergono i tratti di un uomo debole, incapace di gestire la propria famiglia, per questo punito dal Signore, che egli riconosce e del quale accetta la decisione (3,18). La punizione possiede il sapore triste del disfacimento: lui vecchio e pesante, i figli uccisi in battaglia, la religione messa in pericolo con la sottrazione dell’oggetto più santo, l’arca. Il Signore ci dia sempre la forza, la determinazione, il coraggio di purificarci e di ammonire i peccatori, per non macchiarci della colpa di non esserci presi cura di loro!
Samuele, che non è sacerdote ma prende il posto di Eli come giudice in Israele, sarà anche colui che assicurerà il re al popolo. Primo tra tutti Saul. Che tuttavia non si dimostra all’altezza, anzi è chiaramente pazzo.
Ebiatàr, unico superstite del massacro di 85 sacerdoti da parte di Saul (1 Sam 22,18-20),venne accolto da Davide, il prossimo re; alla morte di questi appoggerà per la successione Adonia (1 Re 1,7) il quale però non ha speranze e soccomberà a Salomone. Divenuto re, Salomone adempirà la profezia della maledizione di Eli, esiliando Ebiatàs ad Anatòt (1 Re 2,26-27). Durante il suo regno verrà edificato il tempio di Gerusalemme, sarà pacificato Israele e il popolo conoscerà un periodo di splendore con non tornerà mai più nella storia ebraica. L’arca dell’alleanza verrà collocata nel tempio e Dio ne prenderà possesso (1 Re 8,10; 2 Cr 5,13). Ma in quel tempio non vi sono sacerdoti discendenti di Eli.
Dio però supera la storia umana, la raddrizza. Sorprendentemente, in un tempo difficile per Israele, “rivolge la parola” (Ger 1,4) non a ben più blasonati personaggi o ai sacerdoti ufficiali, ma al discendente di un sacerdote decaduto, esiliato a pochi chilometri dalla Città santa, costretto a vedere da lontano quel tempio nel quale non poteva esercitare il culto. Sceglie Geremia per parlare in suo nome.
Pensiamoci bene: sceglie uno che tutti sanno appartiene ad una genìa di maledetti perché in suo nome dialoghi con re e sacerdoti. Non passa inosservato il fatto che la scelta di Dio cade su una persona che non faciliterà affatto la credibilità del messaggio. Ma così facendo si afferma un nuovo principio nel quadro dei rapporti tra Dio e uomo, quello della sproporzione dei segni, ben messo in evidenza da Paolo: “Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor 1,27-29). Così Paolo, vero apostolo e vero profeta (2 Cor 12,12), può concludere a suo riguardo: “Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze… quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,5.10). Forte perché con Dio, esattamente come Israele (Gn 32,29).
Quella di Geremia si mostra subito una vocazione pericolosa, con una strada tutta in salita. Non facile da parte sua accettare che le sue parole potessero essere ritenute false a causa del pre-giudizio sulla sua famiglia. Ancor più poi in considerazione di quello che avrebbe dovuto dire.
Il tempo dell’azione
Il profeta colloca se stesso all’interno di una storia, di un tempo ben precisi. E come avveniva allora, il tempo si indicava con i nomi dei governanti e il ricordo dei fatti storici. Geremia esercita la sua attività sotto il regno di Giosia prima e di suo figlio Ioiakìm dopo, fino alla deportazione di Gerusalemme.
Che tipo era Giosia? Michelangelo lo ritiene degno di un posto in una lunetta della cappella Sistina perché egli compare tra gli antenati di Cristo secondo l’evangelista Matteo (1,11). Giosia governa il regno di Giuda al sud che dopo la morte di Salomone, come è noto, si era separato dal regno di Israele al nord. Piccolo regno, ma con un grande cuore: Gerusalemme e il suo tempio.
Ma quel popolo fortunato aveva affrontato battaglie e guerre e negli anni passati aveva trascurato il culto del tempio, aveva perduto il gusto di celebrare solennemente la Pasqua, non si era curato della Parola al punto di dimenticare l’esistenza dei rotoli.
Divenuto re a 8 anni regna fino ai 40 e “fece ciò che è retto agli occhi del Signore… senza deviare né a destra né a sinistra” (2 Re 22,2). A 16 anni “quando era ancora un ragazzo, cominciò a cercare il Dio di Davide, suo padre” (2 Cr 34,3) e se ne innamora a tal punto che a 20 anni fa demolire tutti gli altari di Baal purificando Giuda e Gerusalemme (2 Cr 34,3-7). Inizia così una riforma religiosa di capitale importanza; aveva 26 anni quando durante una fase dei lavori di restauro del tempio in rovina viene ritrovata la Torah, alla cui lettura il re si straccia le vesti (2 Re 22,11). Il Signore sa che quello è un modo esteriore che manifesta uno stato d’animo: il “re che cercava Dio” si è intenerito all’ascolto della sua parola, si è umiliato, ha pianto e il Signore ha ascoltato lui (2 Re 22,18-20).
L’impulso di restaurazione e di religiosità impresso da Giosia alla vita del regno viene considerato da tutti un segno di benevolenza del Signore. Il popolo non ha nulla da temere, sta riprendendo nuovo vigore il culto e la preghiera. Finalmente si celebra in modo solenne anche la Pasqua (2 Re 23,21).
Ma Giosia tra le sue qualità non ha quella lungimiranza politica che caratterizza un condottiero. Schiacciato ad sud-ovest dall’Egitto e a nord-est dall’Assiria, il piccolo regno di Giuda si trova costretto a misurarsi con gigantesche macchine da guerra. Medi e Babilonesi avevano cacciato il re di Assiria da Carre (Carran, la città nella quale si era stabilita la famiglia di Abramo dopo essere uscita da Ur, Gn 11,31) e il faraone egiziano corre in loro aiuto. Giosia si oppone, pensando di trarre vantaggio dalla debolezza dell’Assiria, ma viene ucciso mentre combatte con il faraone (2 Re 23,29).
Il figlio Ioiakìm salito al trono dopo di Giosia “fece ciò che è male agli occhi del Signore” (2 Re 23,37). Morto dopo 11 anni di regno all’età di 36 anni, ne prende il posto il figlio di lui, Ioiachìn, un giovane di 18 anni, che regna appena 3 mesi prima di subire la deportazione a Babilonia (2 Re 24,8-16).
Segue un periodo di grande confusione, di alleanze sbagliate, di intestardimenti e in breve tempo si giunge alla grande deportazione dell’esilio e alla distruzione del tempio da parte di Nabucodonosor (2 Re 25,8-21).
Geremia si trova ad agire come profeta in questo tempo che persino lui ha difficoltà a capire fino in fondo. Conoscendo Giosia nessuno potrebbe pensare che la fine di Giuda è prossima. Sembra invece che finalmente si è ritrovata la strada verso la vera fede. Come è possibile credere alle parole di qualcuno che in un tempo di prosperità profetizza la sventura? Ma è proprio di sventura che parla Geremia? O invece nella storia travagliata di Israele lo stesso profeta riconosce la mano provvida di Dio che mentre punisce sta guarendo le sue ferite e lo porta a stringersi ancora di più a lui? E quello che agli occhi degli uomini è una sventura, come potrebbe esserlo la deportazione, non si rivelerà invece una benedizione per un popolo che ancora di più si attaccherà alla parola di Dio?
La chiamata e la risposta
In questo quadro appare ancora più sconvolgente la chiamata di Geremia.
[4] Mi fu rivolta la parola del Signore:
[5] “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,
prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni”.[6] Risposi: “Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare,
perché sono giovane”.[7] Ma il Signore mi disse: “Non dire: Sono giovane,
ma và da coloro a cui ti manderò
e annunzia ciò che io ti ordinerò.[8] Non temerli,
perché io sono con te per proteggerti”.
Oracolo del Signore.[9] Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca
e il Signore mi disse:
“Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca.[10] Ecco, oggi ti costituisco
sopra i popoli e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e abbattere,
per edificare e piantare”.
Questa chiamata avviene in due fasi, intervallate da una risposta di Geremia che sembrerebbe opporre un rifiuto. E già questo modo di agire mostra il volto di un Dio pronto al dialogo, di un Dio “personale” capace di entrare in relazione nel cuore stesso delle difficoltà dell’uomo.
Nella prima fase del dialogo Dio dichiara i motivi di quella “parola che rivolge” al giovane profeta:
- Lo ha conosciuto da sempre: siamo frutto non di un pensiero astratto, ma di un incontro personale, di una “conoscenza” eterna
- Lo ha consacrato: l’iniziativa di Dio che precede la risposta dell’uomo è una chiamata alla partecipazione alla sua santità, una con-sacrazione
- Lo ha stabilito: colui sul quale si è posato lo sguardo del Signore, che è stato “scelto”, viene anche “reso stabile” in un’orizzonte dilatato oltre i propri spazi ristretti (“le nazioni”); il profeta è l’amen di Dio all’uomo
Ciò che spaventa Geremia non è la missione, e forse nemmeno la sua storia familiare; Geremia si sente inadeguato, è giovane forse più del re e dei sacerdoti. Del resto il linguaggio biblico non lascia adito a dubbi: “il profeta delle nazioni” deve parlare non solo al cuore del popolo eletto, ma anche agli orecchi dei pagani, le nazioni, appunto. Bisognerebbe imparare nuove lingue, ma Geremia non ne ha avuto il tempo, è ancora giovane.
Si profila sempre più una chiamata pericolosa. Doversi rivolgere a tutti, credenti e non credenti, con il rischio di essere frainteso perché non si sa parlare.
Unico ostacolo alla vocazione trovato da questo ragazzo: non qualche suo difetto, non qualche falsa modestia, bensì la sua impreparazione, la preoccupazione che gli strumenti a sua disposizione siano inadeguati.
La seconda fase del dialogo del Signore con Geremia è un piccolo capolavoro di psicologia divina che denota la sensibilità con la quale Dio tocca la creatura. Ha infiammato Geremia, gli ha dichiarato la sua predilezione, ha lasciato che esprimesse i suoi dubbi, perché la sua adesione fosse più libera e consapevole possibile, ma anche perché egli si sentisse familiarmente in confidenza con lui. Solo ora lo rafforza e svela di dettagli della sua azione:
- “Dirai quello che io ti ordinerò”: il profeta parla le parole di Dio, apre le labbra per dire cose che forse persino a lui sono incomprensibili; al profeta Dio richiede fedeltà, abbandono, obbedienza, non ragionevoli discettazioni. Il dubbio circa la preparazione linguistica e formale di Geremia sono superati.
- “Io sono con te per proteggerti”: nell’”Io Sono” di Dio riecheggia sempre la vocazione di Mosè e la rivelazione di Dio (Es 3,14). Ma dall’apparentemente statica super essenza di Dio che queste parole sembrano adombrare, esce prepotente dal Signore il desiderio di lasciarsi comprendere dall’uomo per come Egli è. L’”Io Sono” di Dio è “con te”, quindi non “distante da” né “conto di” noi. Una presenza non indifferente, ma amica e benevolente, anzi potente, implicata, partigiana “per proteggerti”. Il timore così intimo che traspare dal lamento, dall’ahimè di Geremia è superato.
- “Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca”: Geremia, figlio di un sacerdote che appartiene ad una casta decaduta e maledetta, toccato da Dio. Dio guarisce. Dio libera. Dio ha compassione. Dio perdona. Anche Gesù viene mostrato dagli evangelisti mentre ha compassione, tocca e guarisce il reietto (Mc 1,31.40-42). La vergogna di Geremia nel ricordo della sua condizione di maledetto è superata.
- “Ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni”: ricordiamo una domanda imbarazzante circa l’autorità che Gesù sembrava illegittimamente attribuirsi predicando nel tempio (Mt 21,23). La missione profetica non riceve legittimazione dall’uomo, né dai potenti né dallo stesso profeta. Il profeta ha ricevuto la parola di Dio che ha potere “sopra le nazioni e sopra i regni”. Le perplessità circa la credibilità e l’autorevolezza degli interventi di Geremia sono superate.
- “Per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”: tutti hanno notato (Geremia per primo!) che le prospettive di Geremia non sono rosee. Su sei azioni che egli dovrà compiere, quattro sono distruttive, purificatrici, e solo due costruttive. Ma non è forse anche la purificazione un’attività costruttiva? Di certo dalle vicende che seguono Geremia impara che pur sembrando più facile distruggere, in realtà è molto difficile convincere gli uomini di peccato e spingerli a seguire Dio. Si prospetta una missione difficile, quella del profeta, e la sua vocazione davvero pericolosa, esposta non solo all’incomprensione ma anche alla denuncia di disfattismo ateo. Gesù fu condannato non dai pagani, ma dai suoi; e fu condannato non per l’infrazione di una legge dello stato, ma come bestemmiatore, per motivi religiosi.
Nel leggere la vocazione di Geremia ci troviamo inscindibilmente proiettati verso la sua missione profetica. In una prossima meditazione ci soffermeremo a toccare i passaggi principali della vicenda di Geremia che possono far percepire il senso di fallimento del profeta.