Gesù il Cristo, chiave e centro della storia

Il tema di questi ES è preso in prestito dalla professione di fede dei Padri conciliari, espressa nel documento sui rapporti tra la chiesa e il mondo contemporaneo, Gaudium et Spes, al n. 10,c. Permettetemi di citare per intero il paragrafo, considerato che in questo giorni fungerà da filo conduttore di tutta la nostra riflessione:

Ecco, la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua suprema vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini, in cui possono salvarsi. Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tuta la storia umana. La Chiesa inoltre afferma che al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli. Così, nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile, Primogenito di tutte le creature, il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo.

Si tratta di una serie di affermazioni estremamente complesse, non tanto per la loro formulazione quanto per il retroterra che i Padri suppongono. Come ogni professione di fede, essa intende concentrare in poco spazio e in poche suggestioni fondamentali assunti di fede che a ben guardare devono poi essere approfonditi per estrarne tutta la pregnanza di significato.

Volendo procedere per gradi possiamo anzitutto delineare la cornice in cui intendiamo muoverci al fine di recepire lo spirito del documento appena citato. In questo primo capitolo occorrerà inquadrare correttamente la professione di fede dei padri all’interno della GS, così da arrivare a porci la questione fondamentale : chi era Gesù. Sarà compito del successivo capitolo cercare di dare una risposta a questa questione, ripercorrendo alcune tappe della vita dell’Uomo di Nazareth. E poiché alcuni contemporanei di Gesù ritennero di trovare in lui la realizzazione della loro fede in Dio, ecco che alcuni capitoli saranno dedicati proprio al fondamentale passaggio dalla figura del Nazareno alla fede in lui come Cristo (capitolo 3), Signore (capitolo 4) e Maestro (capitolo 5).

Ripercorreremo allora i principali eventi che hanno portato gli apostoli ad essere certi di poter affermare che in Gesù si compiva la volontà di Dio, cioè la salvezza e la santificazione di tutti gli uomini (capitolo 6); mentre sarà necessario poi capire come questa salvezza e santificazione siano state lasciate come compito in eredità alla chiesa (capitolo 7), la quale le realizza soprattutto con la sua azione sacramentale di riconciliazione (capitolo 8). A partire da tale riflessione dovremo allora interrogarci intorno al nostro ruolo e alla nostra identità di credenti del III millennio cristiano circa il servizio della chiesa al mondo (capitolo 9) e il suo mandato missionario (capitolo 10), per arrivare almeno a toccare alcune questioni di capitale importanza riguardo alla morale cristiana (capitolo 11) e alle esigenze della santità per il regno dei cieli (capitolo 12).

In poche parole il disegno dei nostri ES ci permetterà di affrontare e, a Dio piacendo, approfondire le tematiche principali della nostra fede, imperniando la nostra riflessione intorno alla figura di Cristo. Si è parlato spesso in questi ultimi anni, con un termine che ha avuto molta fortuna, di “cristocentrismo”. Con tale parola si è desiderato mettere in luce un dato primordiale che appartiene alla fede della chiesa : Cristo è al centro di questa fede, non sarebbe possibile concepire una chiesa senza ammettere che ogni realtà correlata, ogni pensiero, ogni azione trovano in Cristo la propria origine. Ed è appunto per rispettare una visione del genere che i Padri conciliari, dovendo affrontare la spinosa e delicata questione dei rapporti della chiesa con il mondo, sentono l’esigenza di dichiarare fin da subito quale sarà lo sfondo di riferimento dal quale attingeranno le risorse per ricercare “una soluzione ai principali problemi del nostro tempo”.

Considerando che ci troviamo di fronte ad un documento risalente al 1965, l’affermazione “i problemi del nostro tempo” deve essere sottoposta ad una correzione, necessaria per adattarla al vorticoso mutamento a cui tutta l’umanità ha, in misura diversa, partecipato. I Padri conciliari erano consapevoli di questo per ciò che riguardava la loro contemporaneità : “L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo…. Possiamo perciò parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa” (GS, 4,c). Se dovessimo mettere in luce una qualche novità in questa citazione, si tratterebbe di far notare come il Concilio, accogliendo l’idea che tra ordine sociale e culturale da una parte e vita religiosa dall’altra esiste un legame molto stretto, sta di fatto indicando una relazione biunivoca : la vita religiosa influisce sulla società e sulla cultura almeno quanto società e cultura influiscono sulla vita religiosa.

Si tratta di una importante considerazione, gravida di conseguenze, che, con sorprendente e disarmante schiettezza, porteranno più in là i Padri ad affermare: “La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano””(cfr 44,a), ragione per cui mentre si offre di prestare il suo aiuto al mondo è anche consapevole di ricevere molto da esso (cfr 45,a). Forse siamo di fronte alla prima volta nella storia in cui un Concilio afferma in modo tanto solenne che la chiesa non solo non è in lotta contro il mondo, ma addirittura si sente in obbligo nei suoi confronti. Certamente alla radice di una visione tanto ottimistica possiamo rintracciare da una parte lo spirito nuovo che alimenta i Padri conciliari nel guardare con benevolenza verso le conquiste sociali e culturali dell’umanità, nella certezza che ogni cosa buona trova la sua origine in Dio. Dall’altra parte la ferma convinzione che la politica del muro contro muro non solo non sia fruttuosa, ma sia addirittura contraria allo spirito evangelico, in quanto la chiesa è chiamata “a continuare, sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito” (GS 3,d).

Ventata d’aria fresca, dicevamo nell’introduzione. E’ come se d’improvviso il Concilio avesse voluto riportare i credenti alla cruda realtà, al nucleo fondante, alla ragion d’essere della loro fede : nel mondo, anche se non del mondo, i credenti sono inviati a salvare il mondo. Attorno a questo tema centrale ora si dovrà spostare la nostra attenzione, quello della salvezza. Perché dire salvezza implica in definitiva l’esistenza di un pericolo, di cui si è o meno coscienti, e la possibilità di superarlo senza danni. E dire che sono i credenti ad essere inviati per salvare il mondo, oltre alla apparente enormità di una tale affermazione, impone la presa d’atto di gravi responsabilità e di esigenti richieste. Di certo ogni generazione di credenti è stata consapevole, a suo modo, che su di lei poggiava il peso della salvezza dei propri contemporanei. E di volta in volta è stata in grado di fornire quelle risposte che la fede suggeriva idonee e opportune.

A distanza di tanti secoli è possibile per noi osservare e anche criticare il comportamento dei nostri fratelli nella fede. Possiamo, per esempio, obbiettare che le crociate per liberare i luoghi santi erano decisamente una negazione piuttosto che una affermazione di fede. Di certo non possiamo generalizzare. Furono in molti a pensare, in quei tempi, che la “guerra santa” fosse una vera risposta di fede alla minaccia rappresentata dai musulmani, e che addirittura fosse volontà di Dio. Se ciò non modifica il giudizio sostanzialmente negativo che la storia ha dato su quegli eventi, tuttavia ci dimostra che nel suo agire il credente di ogni tempo si è sentito in dovere di “salvare” la propria generazione. Con i mezzi, a volte infausti, che aveva a disposizione.

Il che però ci porta a dover fare una ulteriore considerazione : in qualche caso le scelte della chiesa, pur animate dai migliori propositi, si sono dimostrate dei veri e propri errori. In quali casi ? Potrei esprimermi in termini generici, fornendo lo stesso criterio di giudizio che indicano i Padri conciliari : in tutti quei casi in cui la chiesa non ha scrutato i segni dei tempi interpretandoli alla luce del Vangelo (GS 4,a). Si trova qui racchiuso il grande segreto dell’azione del credente di ogni tempo. Nella misura in cui il cristiano legge il proprio tempo, e sa offrire una risposta evangelica – evangelica – sta salvando la propria generazione. Quali condizioni imponga un simile modo di intendere la propria attività cristiana ce le indicano sempre i Padri conciliari:

E’ dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche (GS 4,a).

Consentitemi di tracciare un minibilancio di quanto detto fin d’ora.

  1. La chiesa è consapevole che le trasformazioni dei nostri tempi hanno un riflesso anche sulla vita religiosa
  2. La chiesa è consapevole che oltre ad offrire lei un aiuto al mondo, riceve molto anche da lui
  3. La chiesa è consapevole di essere chiamata a salvare le generazioni degli uomini
  4. La chiesa è consapevole di dover esercitare questo suo compito leggendo i segni dei tempi e interpretandoli alla luce del vangelo

Se poi volessimo, dovremmo aggiungere un ultimo punto, non ancora sviluppato: occorre conoscere e comprendere, dicono i Padri, il mondo in cui viviamo. Conoscere e comprendere. Conoscere, quasi a significare lo sforzo intellettuale e fisico di penetrare nelle scienze, nei modi di pensare, nelle condizioni di vita degli uomini, rifiutando di lasciarsi rinchiudere dentro gli steccati di settorializzazioni e di specializzazioni, fossero pure accompagnate dall’etichetta “religiose”; comprendere, quasi a significare l’impegno di calarsi nei panni del mondo, di sentire sulla propria pelle, con la drammaticità che spesso contraddistingue alcune situazioni, questo mondo, senza respingere nulla di quanto concorre a renderlo tale, pre-giudicando la riuscita delle nostre azioni e del nostro slancio.

Intanto penso che già possiamo formulare delle conclusioni importanti.

La prima. Se durante questi giorni vogliamo che il nostro lavoro di ES sia proficuo, mentre cerchiamo di capire sempre meglio l’identità che Dio ci ha donato, paradossalmente non possiamo fare uscire il mondo. Il mondo, nella sua accezione più condivisa e comune, non può e non deve lasciarci qui da soli, perché egli stesso si riflette in qualche maniera sul nostro modo di essere e di vivere la fede. A dispetto di una convinzione che spesso è diffusa nei nostri conventi, nelle nostre comunità parrocchiali, nei nostri gruppi, credo sia doveroso oggi mettere in guardia ciascuno di noi contro i rischi che corrono quanti pensano che l’essere “spirituali” coincida necessariamente con la “fuga dal mondo”, e che nella misura in cui ci si allontana dal mondo ci si avvicina al paradiso. E’ questa una visione molto primitiva e ingenua della fede. Il nostro modo di credere, il modo di credere dei nostri fratelli vive la sua dimensione orizzontale in costante dialogo con questo mondo. E nella misura in cui il mondo si riflette sulla nostra vita religiosa, la nostra vita religiosa deve essere in grado di riflettersi nel mondo. Ecco perché in questi giorni considero importante che il mondo entri nella nostra preghiera, nei nostri pensieri, nelle nostre attenzioni.

La seconda. La chiesa è divenuta consapevole, molto gradualmente, del fatto che il mondo le ha dato aiuto. Il concilio è giunto ad una conclusione storica : questo mondo, così com’è, è capace di fare del bene ed è capace di farlo alla chiesa. In qualche modo la chiesa deve corrispondere guardando con simpatia questo mondo. E per noi che chiediamo al Signore di rinnovare la nostra vita, un tale assunto sta a voler dire che è giunto il momento di abbandonare certe riserve nei confronti della realtà mondana, verso la quale siamo debitori se non di altro almeno dell’annuncio del vangelo. Ma il guardare con simpatia non significa solo abbandono di riserve ; significa anzitutto essere capaci di giudicare in positivo quanto di buono accade anche al di fuori della chiesa. E nel piccolo, essere capaci di giudicare in positivo quanto di buono sanno fare gli altri che non siamo noi. Di fatto si tratta di vincere la tentazione ricorrente di usare noi stessi, le nostre capacità e le nostre potenzialità, personali e comunitarie, come metro di paragone anche per gli altri. Guardare con simpatia il mondo, all’interno di un orizzonte piccolo come il nostro mondo personale o all’interno dell’orizzonte più grande della società e della cultura, vuol dire:

  1. riconoscere Dio all’opera anche laddove non ci aspetteremmo di trovarlo
  2. riconoscere la pari dignità di ogni uomo, soprattutto davanti al bene
  3. valutare con serenità e nella giusta misura le nostre azioni, che non sono più grandi e migliori di quelle degli altri per il solo fatto che le abbiamo compiute noi.

Terza ed ultima conclusione. Leggere i segni dei tempi non è una abilità che si improvvisa. Meglio, leggerli e interpretarli alla luce del vangelo non risulta un fatto dipendente da una condizione o da uno status che riteniamo privilegiato. Il nostro essere cristiani non ci immunizza affatto dalla possibilità di sbagliare nelle nostre valutazioni. Anzi, tanto maggiore è la sicurezza che riponiamo in convinzioni che sono spesso dei preconcetti ingiustificati, tanto maggiore è la possibilità che incorriamo in qualche errore. Leggere e interpretare i segni dei tempi implica un grande sforzo di studio e di intelligenza, accompagnato da un grande impegno di cuore. L’intera persona umana si trova coinvolta in quello che rappresenta sempre un atto di giudizio dal quale dipendono a volte i destini di altre persone umane. Conoscere e comprendere il mondo va allora di pari passo con il conoscere e il comprendere il vangelo, che è appunto lo sguardo in profondità di Dio sul mondo, su questo mondo. Non è sufficiente volere la salvezza dell’uomo. Come la redenzione non fu solo un semplice atto di volontà del Padre, ma un complesso di azioni storiche ben precise, così il nostro desiderio di vedere realizzato il vangelo rischia di apparire una pura velleità se non si consolida, se non si concentra in un complesso di impegni e di gesti che rispondono in modo appropriato alla realtà che ci troviamo di fronte. Leggere i segni dei tempi diviene, dunque, non solo la maniera per individuare la parola che il Signore indirizza a noi attraverso la storia, ma anche e soprattutto il primo passo verso la realizzazione della salvezza del fratello. Poiché l’argomento è particolarmente importante, vi ritorneremo ancora sopra in altre occasioni. Per chiudere ora, basti solo ricordare che, dal momento che vogliamo interrogarci intorno alla volontà di Dio sulla nostra vita, dobbiamo lasciarci interrogare dalla vita stessa, da ciò che faccio io di bene nel mondo, nella storia, nel mio quotidiano, e di converso lasciarci interrogare dal mondo, dalla storia, dal mio quotidiano intorno al bene che io sono in grado di compiere qui ed ora.

Al termine di queste considerazioni faccio notare che in definitiva ci siamo trovati a misurarci sulla virtù dell’umiltà. Chi pensava che l’umiltà fosse una virtù riconducibile ad un piccolo complesso di atteggiamenti, credo che non possa trovare migliore smentita di quanto abbiamo detto fin qui. Di solito si pensa che l’umiltà nasca da una scarsa considerazione di sé, o da un desiderio imperioso di servizio. Così è stato per molto tempo, con testimonianze illustri al riguardo da parte di numerosi santi e di interi filoni teologici e di spiritualità. Per tutti sia sufficiente l’esempio dell’Imitazione di Cristo, un libretto di un autore medievale (forse Tommaso da Kempis) che ancora oggi da quasi 700 anni continua ad essere letto e meditato:

Colui che si conosce a fondo sente di valere ben poco in se stesso e non cerca l’approvazione degli uomini…E’ questo l’insegnamento più profondo e più utile, conoscersi veramente e disprezzarsi. Non tenere se stessi in alcun conto e avere sempre buona e alta considerazione degli altri (L’Imitazione di Cristo, edizioni Paoline, Roma 19843, lib. I, cap. II)

Non desidero sconfessare qui la lunga tradizione della chiesa e la testimonianza di tanti uomini e donne che hanno vissuto la propria spiritualità ispirati a ideali come questo. Di sicuro c’è però da notare che una visione del genere può apparire parziale e inesatta se presa in senso assoluto. Dio non ha insegnato agli uomini a disprezzarsi. Potremmo rovesciare la questione ed esprimere un concetto complementare al primo con le parole dell’apostolo : “Siete stati comprati a caro prezzo !” (1Cor 6,20 ; 7,23). Paolo, con tale esclamazione ripetuta due volte in contesti analoghi, vuole mettere in guardia i Corinzi circa il valore del loro corpo, consacrato dalla presenza dello Spirito Santo. Una presenza la quale testimonia la redenzione : Dio Padre ha “pagato” un certo prezzo per riscattare gli uomini dalla loro schiavitù. Un concetto, questo, molto facile da capire a quel tempo e in quella cultura, un po’ meno oggi. Spendiamoci alcune parole.

La riduzione dell’uomo in schiavitù era una pratica molto diffusa nelle società antiche, come tutti sanno. La legislazione mosaica conteneva norme molto severe al riguardo. Un ebreo poteva ridurre in schiavitù senza particolari difficoltà un uomo non ebreo. Spesso si trattava di uomini “conquistati” in battaglia, o di uomini acquistati da mercanti di schiavi. Una legislazione speciale riguardava gli schiavi ebrei, persone che si erano vendute o erano state vendute soprattutto per debiti. Tale forma di schiavitù prevedeva, tra l’altro, che allo scadere dei sette anni il “fratello ebreo” dovesse essere rimesso in libertà, e di più : “Quando lo lascerai andare via libero, non lo rimanderai a mani vuote ; gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia, dal tuo torchio ; gli darai ciò con cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto” (Dt 15, 12-14). La Torah precisa, inoltre, che gli schiavi, ebrei e non ebrei, non dovevano essere maltrattati, e che potevano essere riscattati con il denaro anche prima dello scadere dei sette anni ; e rammenta insistentemente al popolo ebreo la ragione per comportarsi in maniera tanto originale rispetto ai popoli confinanti : “Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha riscattato” (Dt 15,15).

Il popolo di Israele poteva ben dirsi orgoglioso di venir considerato da Dio il “suo” popolo, il popolo del “suo” pascolo. In base a tale orgoglio poteva e in certi casi doveva regolare i suoi rapporti con gli altri popoli. Ma al momento decisivo di richiamare gli israeliti alla benevolenza, alla misericordia e alla compassione, la bibbia non trova migliore forma che spingerli a ricordare di essere stati loro stessi schiavi e di essere stati riscattati da Dio. Il popolo di Israele ha valore agli occhi di Dio, un valore immenso, che ha spinto il Signore a pagare il prezzo del suo riscatto, in senso realissimo, ogni qualvolta se ne fosse presentata l’occasione e la necessità. Così il popolo di Israele viene invitato da Dio a comportarsi esattamente come lui – come Dio – in quelle circostanze che lo avrebbero messo in condizioni di forza verso gli altri uomini.

Paolo, nella citata lettera ai Corinzi, da buon rabbi fariseo ha sotto gli occhi questa tradizione della Torah. Egli compie un passaggio nuovo, però, rispetto alla Legge : in Cristo ogni uomo viene riscattato dalla sua schiavitù, “comprato a caro prezzo”. Ma un gioiello che si compra a caro prezzo non è bigiotteria ! E indirettamente l’apostolo, così come già il Deuteronomio, vuole che i suoi lettori prendano coscienza della loro dignità e del loro valore. Immenso, se per riscattarli è stato pagato il prezzo del Figlio, e se Dio, obbedendo alla Legge che aveva data, non ha rimandato a mani vuote i liberati. In un contesto simile, parlare di umiltà come disprezzo di sé può addirittura configurarsi come blasfemia, una specie di svalutazione dell’intera opera che ha prodotto il riscatto. L’esempio che faccio è povero, ma si adatta : sarebbe come se un fidanzato, volendo dichiarare il suo amore alla fidanzata, le regalasse un anello o un collier di grande valore ; e che lei rifiutasse di indossarlo perché non se ne sente all’altezza. Nonostante le apparenze, sarei portato più a considerarlo un atto di falsa umiltà che la testimonianza di un animo generoso.

La vera umiltà è legata, tanto per il popolo di Israele quanto per l’uomo riscattato da Cristo, alla considerazione che Dio ha di loro : “Il Signore tuo Dio ti ha riscattato”, “Siete stati comprati a caro prezzo !”. I conseguenti comportamenti sono ispirati al fatto che il proprio fratello (per gli ebrei l’altro ebreo, per i cristiani ogni uomo) godono della stessa attenzione di fronte a Dio, e dunque non solo non possono essere disprezzati, ma vanno addirittura circondati di onore. Umiltà come forma di onore di Dio e dell’altro : ecco la verità che la scrittura intende trasmetterci. E si comprende, finalmente, anche il modo in cui possiamo applicare a Dio la virtù dell’umiltà, che essendo virtù deve essere attribuita a Dio in grado infinito : Dio ha circondato di onore l’uomo, continua ad onorarlo con la sua attenzione e la sua opera, la sua amicizia e il suo perdono. Umiltà come onore. Anche l’onore diviene, perciò, virtù, nella misura in cui siamo capaci di farlo discendere dall’umiltà, dalla giusta valutazione di noi stessi, di Dio e del prossimo. “Che cosa è l’uomo ?” si chiede GS 12,b. E i padri conciliari rispondono con le parole del salmista : “Che cosa è l’uomo, che tu ti ricordi di lui ? O il figlio dell’uomo che tu ti prenda cura di lui ? L’hai fatto di poco inferiore agli angeli, l’hai coronato di gloria e di onore, e l’hai costituito sopra le opere delle tue mani. Tutto hai sottoposto ai suoi piedi” (Sal 8,5-7 ; cfr GS 12,c).

Torniamo allora alla GS. Abbiamo appena appena abbozzato lo sfondo nel quale ci muoveremo in queste nostre riflessioni : il mondo, l’attenzione della chiesa verso il mondo, quale riflesso dell’attenzione di Dio verso di esso. Difatti il senso ultimo del nostro essere cristiani sarebbe condannato all’incomprensione se non si inquadrasse all’interno del riferimento al mondo. Il teatro della storia umana è contemporaneamente il teatro della salvezza umana, secondo la fede della chiesa. Dal confronto con un certo modo di comprendere la religione presso altri contesti culturali siamo in grado di affinare questo concetto. Se pensiamo a come la religione veniva intesa nei tempi precedenti al cristianesimo e anche attualmente, da diverse confessioni religiose, ci rendiamo conto che lo sforzo che la religione spinge l’uomo a compiere è quello di uscire dalla storia, dal mondo. La salvezza, sia nelle religioni precristiane, sia in certe contemporanee, si ottiene solo a condizione che l’uomo si affranchi dal mondo, gli si sottragga, per così dire, elevandosi verso la meta della sfera spirituale. Il mondo, la storia umana non appaiono il luogo del divino, non lo sono, sembrano esservi immuni. E sembra che gli dei non gradiscano, se non favoriti e attirati da pratiche religiose appropriate, magiche o meno, la coabitazione con gli uomini nel mondo. Non è un caso che una delle più grandi tentazioni moderne, che hanno fatto breccia anche nel cristianesimo, sia quella di pensare che Dio possa disinteressarsi della storia umana, lasciando che siano gli uomini, con le loro forze, a vincere e ad elevarsi al di sopra delle “alterne vicende delle umane sorti”.

Una visione di tal genere, però, è mal riconducibile alla rivelazione del Gesù di Nazareth. Il Concilio riporta i credenti alla verità fondante del cristianesimo : se Dio è entrato nella storia umana, nel mondo, attraverso l’incarnazione nel Gesù di Nazareth, allora la salvezza dell’uomo, il suo riscatto, si consumano dentro il mondo, e non fuori di esso. Dentro il mondo, cioè dentro la storia degli uomini, dentro il vivere quotidiano con le sue luci e le sue ombre, dentro le occupazioni di ogni giorno e dentro i nostri rapporti con la vita, con le altre persone umane, con le cose che compongono il nostro universo. Dentro questo mondo, all’interno delle sue sconfitte e all’interno delle sue vittorie. Redenzione cristiana è esattamente il contrario di fuga dal mondo : redenzione cristiana è mondanizzazione, nel senso più positivo del termine, o “secolarizzazione”, secondo l’uso latino della stessa parola. In un certo senso potremmo affermare che il nucleo profondo della fede in Gesù si ritrova esattamente nel suo proposito di introdurre, inoculare il paradiso all’interno del mondo, e non viceversa, come in altre fedi, che intendono portare il mondo dentro il paradiso.

Il riferimento al paradiso in questo contesto non deve sorprendere. Sono gli stessi padri conciliari ad affermare che “è dovere della chiesa… rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto” (GS 4,a). Infatti, se tra le due vite (presente e futura) non esiste nessun rapporto di continuità, allora entra in crisi anche il nostro essere buoni o cattivi, come testimonia il libro del Qohelet, autore veterotestamentario che giustamente dice : “Una medesima sorte tocca a tutti… Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto ? Quale il vantaggio del povero che sa comportarsi bene di fronte ai viventi ?” (Qo 9,3 ; 6,8). Ma se anche vi fosse tra le due vite un rapporto di continuità basato prevalentemente sulla “prova” e sul “merito”, verrebbe ad essere screditata l’una nei confronti dell’altra, o perlomeno se ne dovrebbe ammettere la “relatività assoluta”, in analogia alla condizione del condannato a morte (vita terrena) e quella del condannato a vivere (vita eterna). Gli stessi termini che in alcuni casi utilizziamo per parlare della vita futura indicano chiaramente il background culturale e religioso che possediamo : la chiamiamo la “vera vita”, la “vita senza fine”, il “riposo eterno”, la “pace eterna”. E con ciò definiamo implicitamente il rapporto tra la vita presente e quella futura : la vita presente è la “falsa vita”, è la “vita a termine”, è la “fatica provvisoria”, è una “breve pena”.

Se alcune di queste espressioni non sono prive di significato, mi sembra però importante che vengano chiarite alla luce della fede della chiesa, perché pur essendo vero che le parole non sono sempre proporzionate alle verità che intendono affermare, risulta ugualmente certo il danno che possono produrre quando le equivocano. Per inciso, è mia convinzione che molte persone abbiano nutrito in passato e nutrano al presente riserve mentali circa la fede cristiana in quanto gli stessi credenti non sono riusciti a mostrarne tutta la sua intrinseca validità per la vita. L’obiezione centrale è che una fede che sia inutile per questa vita che io vivo oggi, e che giunga a definirla “falsa” o “relativa”, sia una fede fuori della realtà e fuori della mia portata esistenziale. Giustamente si osserverebbe che un Dio che semplicemente “attenda” l’uomo in paradiso è un Dio disincarnato e privo di interesse. Così GS può dire senza difficoltà che

nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non manifestano il genuino volto di Dio e della religione (GS 21,c).

Così, ferme restando le intenzioni buone da cui riteniamo essere animati i credenti, dobbiamo anche prendere atto della responsabilità nostra nei confronti dell’abbandono della fede da parte di intere masse di uomini. In questo senso lo sforzo del Concilio va inteso come la risposta alle domande, espresse o inespresse, dell’umanità verso Dio e verso la vita. L’analisi, pur sommaria e soggetta ai giusti riallineamenti storici, che GS offre nei suoi primi paragrafi deve costituire un oggetto tutto particolare di meditazione.

Il Concilio, infatti, nell’esposizione introduttiva della GS si propone due obbiettivi. Il primo è quello di presentare un quadro della situazione attuale del mondo e della fede religiosa nel mondo. Il secondo è di mostrare come l’impegno profuso dall’uomo nella ricerca e nello sviluppo della propria condizione umana abbia racchiuse in realtà delle domande profonde alle quali solo la fede cristiana riesce a dare adeguate e complete risposte.

In sintesi il quadro che il Concilio offre della condizione del mondo può essere disegnato così:

  1. L’umanità si trova in un periodo di crescita, che come ogni crescita reca con sé anche difficoltà (4,d).
  2. La crescita economica, sociale, politica, culturale, spirituale è accompagnata da dubbi e incertezze, e anche da contraddizioni, sugli effettivi esiti dei progressi raggiunti (4,e).
  3. La mentalità scientifica, che modella il modo di pensare, produce un’accellerazione tale della storia che difficilmente i singoli individui possono controllare. Questo innesca una nuova serie di problemi (5).
  4. Anche la società è soggetta a profondi cambiamenti. Urbanizzazione, emigrazione, industrializzazione sono le condizioni di vita dell’uomo moderno, che avverte però un deficit nella maturazione dei rapporti interpersonali, della sua “personalizzazione” (6).
  5. Mentalità e strutture rapidamente modificate mettono in crisi anche valori tradizionali, soprattutto nelle giovani generazioni, nel campo della morale e della religione (7).
  6. Si osserva ancora il crescente moltiplicarsi di squilibri, all’interno delle famiglie e delle società, che degenerano in scontri razziali e tra classi diverse (8).
  7. Contemporaneamente si diffondono le rivendicazioni per i diritti più fondamentali dell’essere umano : cibo e lavoro, libertà individuale e indipendenza politica, condizione della donna e sviluppo della dignità umana (9)

 

Ma, al di sotto di tutto, permangono immutati alcuni interrogativi fondamentali, che caratterizzano da sempre la “questione umana”:

  1. Gli squilibri esterni rivelano l’esistenza di uno squilibrio interno all’uomo di ben grande portata : egli si sperimenta da una parte di essere dotato di aspirazioni e potenzialità superiori ; dall’altra di essere fragile e limitato (10,a)
  2. Rimangono in piedi e si rafforzano allora delle domande assolutamente legittime:
    1. cos’è l’uomo?
    2. qual è il significato del dolore, del male, della morte, che malgrado ogni progresso continuano a sussistere?
    3. cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte?
    4. cosa reca l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa?
    5. cosa ci sarà dopo questa vita?

 

Con tali premesse nasce la professione di fede dei Padri, quasi una risposta al complesso di riflessioni con il quale hanno inquadrato la “questione umana”. La chiesa rimane convita che sia Cristo la risposta, ieri, oggi e nei secoli. Una risposta che non muta e che va oltre ogni cosa che invece cambia. Cambiano le situazioni, cambiano le condizioni di vita, cambiano i modi di pensare e di leggere la realtà, potremmo anche dire che cambia l’uomo, ma Cristo continua a rimanere la soluzione ultima e definitiva ad ogni domanda che nasce durante e dopo ogni cambiamento.

Il grande merito dei Padri, sotto questo profilo, è duplice : l’aver preso atto di un formidabile evento di trasformazione dell’uomo, singolo e nel complesso sociale, e di aver voluto riformulare i criteri ispiratori utili per ridire a quest’uomo, a questa società mutati la figura di Cristo come Salvatore da e per sempre. Credo che in questo senso, ad un primo superficiale sguardo, l’atteggiamento del Concilio possa andare incontro anche al nostro modo di intendere la vita e l’azione della chiesa nel mondo.

Infatti l’essere credenti si rivela soggetto a quel tipico adattamento di mentalità e di comportamenti che si richiede da parte di ogni soggetto in sviluppo. Non è la stessa cosa parlare con un bambino di un anno, con un fanciullo di sei, con un adolescente di quindici, con un giovane di trenta, con un adulto di cinquanta e con un anziano di ottanta. Pur potendo ad ogni età presentare problemi, incongruenze ed esigenze simili, il rispetto per lo sviluppo e per la condizione storica in cui si trova la persona impone di trattare con differenti soluzioni persino il medesimo individuo. La storia umana, nel suo complesso, potrebbe essere accostata alla storia di un uomo singolo. Anche l’umanità è stata bambina, e non è detto che oggi non porti ancora con sé degli infantilismi ; anche l’umanità è adolescente, è matura, è vecchia, in posti diversi del mondo, con riferimenti sociali diversi, ma con tempi di crescita assolutamente simili, nel complesso, a quelli di un individuo umano. E il credente, per uno dei tanti, soliti paradossi della fede, si ritrova contemporaneamente a far parte dell’umanità di cui deve diventare sacramento di salvezza. Un bambino che aiuta un altro bambino, un vecchio che aiuta un altro vecchio.

Quali sono perciò le indicazioni che noi ricaviamo da questa prima sommaria lettura della GS? Sono quasi un profilo del credente, e della chiesa, del singolo fedele e della società della fede, tracciato in base alle esigenze rivelate dal mondo e dalla storia umana cui vengono inviati.

  1. Il primo tratto distintivo che sembra essere richiesto ad un credente è quello del superamento dell’indifferenza, dello snobbismo, dell’autosufficienza. Sotto un’unico sforzo ritroviamo cose un po’ diverse tra loro, anche se con forti legami.
    1. Superare l’indifferenza vuol dire cominciare a pensare in termini di “responsabilità collettiva” del singolo, e di “responsabilità singolare” della collettività. Il mondo, non essendo una realtà estranea al credente, né tantomeno nemica della fede, costituisce realmente il campo della sua azione di “salvezza”. Il mondo ci è dato come “impegno” : “Siate fecondi e moltiplicatevi – dice il Signore ai primi uomini -, riempite la terra ; soggiogatela e dominate… su ogni essere vivente” (Gn 1,28).
    2. Superare lo snobbismo, quell’atteggiamento di superiorità che per molto tempo ha caratterizzato molti strati della chiesa, significa assumere certamente un atteggiamento di umiltà, ma anche e soprattutto uno spirito di servizio. Il credente non è inviato al mondo per giudicarlo o per condannarlo, ma per “salvarlo” e servirlo, con lo stesso spirito che fu già del Messia di Nazareth.
    3. Infine, superare l’autosufficienza, superare la tentazione mai completamente sopita all’interno delle nostre comunità cristiane, di poter fare a meno del mondo, delle sue conquiste, del bene che nonostante tutto vi si trova, vuol dire imparare ad accogliere le ispirazioni di Dio che opera in ogni uomo, persino al di fuori dei confini visibili della chiesa. Come un sapiente maestro, estrarre dal tesoro cose antiche e cose nuove, senza respingere nulla di quanto può essere messo al servizio del vangelo. Il che ci obbliga a rivedere profondamente i nostri pregiudizi verso le acquisizioni delle scienze umane come anche la nostra diffidenza verso strumenti diversi di evangelizzazione e di promozione umana. Non dimentichiamo, infatti, che il nostro campo di lavoro è il mondo, e, per mantenere la metafora, sarebbe da sciocchi ostinarsi ad arare un campo con l’aratro di legno, perché lo abbiamo inventato noi, quando qualcun altro ci può mettere a disposizione un trattore e un aratro di ferro.
  2. Un secondo tratto distintivo del cristiano, così come parrebbe emergere dalle convinzioni del Concilio, risulta essere quello della consapevolezza della propria dignità. Le parole di Cristo nell’ultima cena, come le ricorda Giovanni, ci riportano alle radici di una tale convinzione : “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16).
    1. La scelta viene compiuta da Cristo, non da noi. Una scelta di cui ci sfuggono i criteri, ma almeno di uno siamo sicuri : la scelta si fonda su un amore e un’amicizia gratuite e disinteressate : “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (15,9)
    2. Si tratta di una scelta finalizzata al portare frutto. I frutti che i padri conciliari indicano sono chiari : “Il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare alla ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo” (GS 10,c)
    3. 1. Ma la dignità del credente, la consapevolezza di questa dignità, Gesù la esprime con un verbo che lascia molto spazio alla meditazione : “vi ho costituiti”. Da una parte ritroviamo che la dignità della nostra identità è fondata nella volontà di quell’IO che è Gesù : “IO vi ho costituiti”. Se chiamiamo Gesù Signore e Maestro(“… e dite bene, perché lo sono” Gv 13,13) e quel Signore e Maestro ci ha costituiti per il suo progetto di salvezza, dunque non abbiamo bisogno di altri appelli per giustificare il nostro ruolo nel mondo. Dall’altra parte, l’atto costitutivo risulta essere così formalmente espresso (“Io vi ho COSTITUITI”) da non lasciare spazio a dubbi : siamo noi, e non altri, a cui si deve quast’oggi fare riferimento per raggiungere il Signore stesso.
  3. E per ultimo, il credente che il Concilio disegna è un credente in lotta. Sembra emergere, dalle parole dei Padri, non la figura di un credente dimesso, quasi taciturno, che non abbia nulla da dire o da fare. L’idea che si sono fatta i padri leggendo il vangelo, è quella di un credente combattivo e spregiudicato, che non si rassegna affatto ai margini di oscurità da cui appare circondata la storia umana. E nella misura in cui tale storia umana sembra fuggire la prossimità del vangelo, è il credente che lotta per farsi prossimo della storia. Interessante al riguardo la parabola del buon samaritano, conclusa da Gesù con una domanda rivolta a chi l’aveva interrogato : “«Chi ti sembra che sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti ?». «Chi ha avuto compassione di lui». «Va’, e anche tu fa’ lo stesso».” (Lc 10,36s). Il cristiano è capace di lottare contro ideologie, false convinzioni, pregiudizi, e contro il male stesso della storia, per farsi prossimo, lui per primo, di ogni uomo, nelle condizioni più disperate in cui si possa trovare, e della storia, soprattutto nei suoi margini di oscurità e distanza dal vangelo.

 

Il riferimento costante al vangelo di Gesù che abbiamo dovuto fare per riflettere intorno alle questioni sollevate dal Concilio, ci riporta immediatamente ad una questione primaria ineludibile. I credenti in Cristo non possono fare a meno di ispirare tutta la loro azione e la ricerca della propria identità all’azione e all’identità del Gesù di Nazareth. La professione di fede dei padri è chiara : la chiesa crede di ritrovare in Cristo la chiave, il centro, il fine dell’uomo e di tutta la storia umana. Sappiamo che già indicare Gesù come il Cristo appartiene ad un ben preciso ambito di fede, spesso trascurato o dato per scontato. A me, invece, non pare così ovvio. Non pare ovvio non per qualche dubbio che potrebbe nascere in proposito, ma perché in Cristo Gesù non vi è nulla di ovvio, nulla di scontato. Non è ovvio che un uomo si proclami Dio, non è ovvio che dia origine ad una società di persone, non è ovvio che affidi loro gli stessi poteri che aveva lui. Non è ovvio, soprattutto perché rimane sempre in agguato la tentazione di omologare la figura del Gesù di Nazareth in categorie meno scomode di quelle che lui ha voluto incarnare.

Perciò, se vogliamo comprendere in pieno la funzione della chiesa e il ruolo dei credenti, di ciascuno di noi, e la nostra identità, non possiamo non fermarci a ripercorrere in breve la vita e i tratti salienti dell’esistenza del Gesù di Nazareth, nel quale la chiesa ritiene di trovare il suo Messia, Signore e Maestro. E lo faremo nel prossimo capitolo.