I caproni postconciliari e quei cavoli di Lumen Gentium
La storiella del lupo, della capra e dei cavoli è abbastanza conosciuta, perciò posso ricordarla sommariamente. Un barcaiolo deve trasportare alcuni cavoli, una capra e – chissà perché – un lupo da una riva all’altra del fiume. Poiché i tre soggetti non possono essere trasportati nello stesso viaggio tutti insieme, il barcaiolo dovrà fare più viaggi, prestando attenzione a non lasciare mai da soli sulla stessa riva la capra, vegetariana, e i cavoli o il lupo, carnivoro, e la capra.
Mi pare che la storiella rappresenti bene la situazione che si è venuta a creare nella Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II (CVII, 1962-1965). Forse anche prima, ma per comodità fermiamoci a questo determinante evento ecclesiale. Con il CVII i cristiani hanno dovuto prendere atto di una verità incontrovertibile: per la Chiesa stava morendo un glorioso millennio, nel terzo avrebbe dovuto apprendere un modo nuovo di stare al fianco di una umanità più cresciuta. Umanità forse claudicante, forse con ancora troppe ombre e problemi irrisolti, ma sarebbe ingiusto non riconoscere l’enorme grado di sviluppo raggiunto non solo sul terreno scientifico e sociale, ma anche su quello politico e dei diritti umani e non solo.
La Chiesa: i cavoli, la capra e il lupo
Questa verità, nerbo spirituale dei documenti del CVII (i cavoli), è diventata il nutrimento della prima generazione postconciliare (la capra). Si può ammettere che l’immediato periodo postconciliare – che non si deve ancora ritenere concluso – è stato un tumultuoso avvicendarsi di tentativi, esperimenti, aggiornamenti non sempre riusciti. Il pericolo di gettare il bambino (il prezioso tesoro simbolico e dottrinale di due millenni di storia) con l’acqua sporca (le sovrastrutture storiche e i linguaggi non più evocativi e comunicativi) è ancora oggi reale.
Del resto una Chiesa viva e sempre giovane è tale perché non ha nostalgie preistoriche e non si arrende al tempo che scorre e alle generazioni che cambiano, ma accetta la sfida e sa presentare il vangelo al cuore di ogni epoca. Come ogni sfida al futuro, ciascun tentativo di miglioramento porta con sé il rischio di sbagliare. Ben vengano, quindi, le provocazioni da considerare spinte a guardare avanti, a non perdersi nei frammenti dell’oggi, a riconoscere l’opera dello Spirito al di là di ogni rigido schematismo umano che vorrebbe intrappolarlo dentro categorie chiare e distinte: si comprehendis non est Deus, se hai la pretesa di far entrare tutto Dio nella tua testa è escluso che quello che immagini sia Dio, diceva il buon Sant’Agostino (Sermone 52,16), o Dio supera sempre l’uomo o non è. E ben vengano le correzioni, fraterne o filiali che siano, animate dallo zelo per il Signore non meno che dalla consapevolezza che nessuno di noi è immune da colpa e per questo omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, osservare tutto, in molti casi far finta di non aver visto, correggere poco, diceva il buon San Bernardo (secondo San Vincenzo, scrive Giovanni XXIII, Il giornale dell’anima 916).
Poi c’è il tradizionalismo (il lupo). Un movimento di resistenza al CVII, almeno così sembra sotto il profilo religioso. In realtà si potrebbe definire sì un movimento di resistenza, ma apparentemente rivolto più in generale alle grandi, forse troppo rapide, trasformazioni dell’epoca moderna e contemporanea. Per questo non è difficile ritrovare dentro al tradizionalismo, oltre alla nostalgia per i fasti ecclesiali del passato, per i paramenti antichi e le liturgie dal rubricismo ammanierato celebrate in lingue scomparse, per i titoli nobiliari e le questioni di precedenza nelle processioni, per la dottrina semplificata in dettati che nemmeno sfiorano l’ipercomplessità del reale (cfr. Piero Dominici), l’avversione non solo a tutto ciò che può mettere in crisi rassicuranti comportamenti pavloviani, ma anche a tutto ciò che implica lo sforzo dell’adattamento alla novità, l’avversione alla novità stessa, all’allargamento dei confini geografici, al confronto con le diversità culturali e religiose, alle scoperte tecnologiche e scientifiche che potrebbero attentare al magico rapporto degli operatori del sacro con i seguaci di riti e religioni. Dunque il tradizionalismo, evocazione della tradizione come estremo baluardo di difesa eretto contro la presunta degenerazione dell’umanità, rivela tutto il suo dramma, la sua lacerazione interiore di fenomeno pseudoreligioso che in realtà vuol difendere solo se stesso.
Futuro del tradizionalismo: integrazione o estinzione?
Ora è noto – nel vangelo: chi avrà trovato la sua vita, la perderà (Mt 10,39); e persino per la teoria dell’evoluzionismo – che un individuo incapace di adattamento alle mutate condizioni ambientali è condannato all’estinzione. Se da parte dell’autorità ecclesiastica pazientare, cercare una via di dialogo, concedere spazi riservati al tradizionalismo potevano essere tutte cose che celavano la speranza o di una integrazione o di una estinzione del tradizionalismo stesso, occorre ammettere che gli sviluppi successivi (attuali) hanno dato torto alla strategia dei temporeggiatori.
Solo scorrere alcuni titoli dei siti web e dei blog ispirati dal tradizionalismo cattolico mette in luce il senso di assedio e il crescente desiderio di rivalsa che serpeggia in un ambiente che la propaganda vuol far credere in continua, inarrestabile espansione.
www.lafedequotidiana.it
www.cristianicattolici.net
www.lanuovabq.it
cristianesimocattolico.wordpress.com
www.corrispondenzaromana.it
www.iltimone.org
www.unavox.it
it.aleteia.org
anticattocomunismo.wordpress.com
www.nocristianofobia.org
www.bastabugie.it
www.riscossacristiana.it
www.fondazionelepanto.org
www.radicicristiane.it
www.radiospada.org
www.giovanietradizione.org/siti (elenco di siti per lo più ispirati dal tradizionalismo)
Tutt’altro che morto, si direbbe, il tradizionalismo, anzi lupo famelico introdottosi nell’ovile con intenzioni nient’affatto pacifiche verso i caproni postconciliari che si nutrono di quei cavoli di Lumen Gentium (costituzione sulla Chiesa), Sacrosanctum Concilium (costituzione sulla sacra liturgia), Gaudium et Spes (costituzione sul rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo), Unitatis Redintegratio (decreto sull’unità dei cristiani) e del satanico Dignitatis Humanae (dichiarazione sulla libertà religiosa). Il rigetto del magistero del CVII da parte del tradizionalismo è assoluto: la sua dottrina sarebbe irricevibile perché in opposizione al magistero perenne della Chiesa.
Il Concilio Vaticano II è la soluzione
Un problema analogo si presentò – quando il web non esisteva, ma nemmeno la radio era stata inventata – a seguito del Concilio Vaticano I (CVI, 1870): un certo numero di vescovi non accettò la definizione dell’infallibilità papale e insieme alle loro comunità diedero vita al movimento dei vecchi cattolici. Ancora oggi esistono i veterocattolici, appunto, in forme più o meno distanti dalla chiesa romana, ma la maggioranza dei cattolici ha accolto il CVI e ha continuato a prosperare nonostante la dolorosa divisione.
Penso che i cavoli del CVII, come frutto dello Spirito Santo, non abbiano nulla da temere dal bellicoso lupo del tradizionalismo, ma nemmeno i poveri caproni che se ne nutrono. Siamo in tempi e ambienti diversi rispetto al CVI, è vero, e i temi affrontati dal CVII sono di ben diverso spessore e di portata notevolmente più ampia del concilio precedente. A favore del tradizionalismo giocano una più ramificata rete di informazione (che indubbiamente alimenta comunione di intenti e di idee a copertura planetaria) e la contingente stagione storica nella quale l’assottigliarsi e il confondersi delle appartenenze identitarie e l’affermarsi di nuove non meglio definite prospettive globalizzanti disorienta il singolo, che si percepisce senza più un branco di riferimento, solo e preda indifesa di ogni pericolo vero o presunto.
Ci si deve convincere invece sempre di più che il CVII non è il problema, il CVII è la soluzione. La sensibilità di Giovanni XXIII ha precorso i tempi, anticipando – unico tra i suoi contemporanei – lo sconvolgimento del ‘68; grazie alla sua intuizione il CVII ha preparato la comunità dei credenti al processo di purificazione morale in atto ancora oggi, ha restituito alla coscienza del popolo di Dio la familiarità con la sua Parola, ha svelato il pieno significato sacramentale della Chiesa che “non ignora quanto abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano” mentre ha agito nel mondo quale realtà sociale della storia e suo fermento (GS, 44). La Chiesa, quindi, sospinta dalla forza ricreatrice dello Spirito Santo, sarà più forte non rinunciando al CVII ma rendendo compiuto il suo insegnamento per il bene di tutte le persone umane.
Un lungo periodo di ferimenti
Ritengo tuttavia che la radicalizzazione delle posizioni del tradizionalismo andrà di pari passo con l’affermazione di elementi innovativi sociali (si pensi per esempio alle questioni della famiglia e delle migrazioni), tecnologici (si prenda come esempio tutto il campo della bioetica e della cura del creato), politici (si considerino i rapporti tesi se non conflittuali con gli esponenti del mondo islamico) non meno che ecclesiali, a giudicare dal comportamento adottato nei confronti del papa felicemente regnante, Francesco. Quanto sia possibile (e per certi versi auspicabile) una convivenza all’interno della medesima compagine ecclesiale è tutto da dimostrare. È possibile salvare capra, cavoli e lupo? È possibile tenere sulla stessa barca il CVII, la fedeltà al magistero conciliare con le sue esigenze di rinnovamento ecclesiale e il tradizionalismo cattolico, che usa la dottrina perenne della Chiesa per rimproverarlo di eresia e chiederne la correzione?
Il pessimismo basato sull’esperienza passata indurrebbe a rispondere di no. Il modello ottimistico adottato dal CVII (nessun anatema, nessuna condanna) spingerebbe ad un supplemento di carità per ricercare ciò che unisce più di quel che divide. La previsione ragionevole è quella di un periodo non breve, anzi lungo tanto quanto la misura della reciproca sopportazione o quella della conversione dei cuori, di rimbrotti, ferimenti, stilettate, schiaffi e stracci che volano, come di scena nel più classico dei matrimoni infelici, dove a farne le spese saranno sempre i figli più deboli.