Il cammino della fede
“Come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
(Lc 12,56)
Fede e discernimento
Corso di Esercizi Spirituali
Figlie della Chiesa
Domus Aurea
19-26 Settembre 2013
Il cammino della fede
Effonde il mio cuore liete parole,
io canto al re il mio poema.
La mia lingua è stilo di scriba veloce.
Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo,
sulle tue labbra è diffusa la grazia,
ti ha benedetto Dio per sempre.
Cingi, prode, la spada al tuo fianco,nello splendore della tua maestà
ti arrida la sorte,
avanza per la verità, la mitezza e la giustizia.
La tua destra ti mostri prodigi:
le tue frecce acute
colpiscono al cuore i tuoi nemici;
sotto di te cadono i popoli.
(Salmo 44)
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Il sacramento delle folle
Nel cuore dei nostri ES alcune parole brillano come lampada ai nostri passi, parole tratte del vangelo di Luca che fanno da tema alle nostre meditazioni. Si tratta di un versetto che fa parte di un breve discorso che Gesù rivolge alle folle (Lc 12,54-59):
Diceva ancora alle folle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade.
E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade.
Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?
E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada procura di accordarti con lui, perché non ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esecutore e questi ti getti in prigione.
Ti assicuro, non ne uscirai finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo”.
Come sempre nel vangelo, colpisce l’immediatezza con la quale Gesù entra in comunicazione con chi lo incontra, si tratti di discepoli, di farisei o di folle; senza essere interpellato da nessuno, prende lui l’iniziativa di affrontare un argomento o di offrire un insegnamento. Colpisce anche la franchezza delle espressioni. Gesù non sembra curarsi molto di quello che “le folle” possono pensare di lui e dei suoi rimproveri o del suo insegnamento esigente e controcorrente.
Gesù si manifesta in questo modo totalmente libero nei confronti degli uomini che lo ascoltano e del risultato che può avere il suo insegnamento. Ma cerchiamo ora di calarci per qualche istante nella situazione in cui si trovavano gli ascoltatori di Gesù. Il vangelo dice che si tratta di “folle”, cioè di una molteplicità di persone. Cercando di quantificare possiamo leggere alcuni paralleli, come l’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci già citato. In esso si parla di “una grande folla” (Gv 6,2) e quindi Giovanni annota che erano “circa cinquemila uomini” (Gv 6,10). Se l’evangelista rispetta la tradizione ebraica, parlando di uomini egli si riferisci ai maschi adulti, escludendo quindi dal conteggio le donne e i bambini. Ma prendiamo per buona la cifra di cinquemila.
Oggi anche solo per parlare in chiesa a venti persone occorre accendere i microfoni e l’impianto di amplificazione. Strumenti che ovviamente non esistevano 2000 anni fa, quando Gesù si rivolgeva appunto a “circa cinquemila uomini”. Come poteva avvenire che tutti ascoltassero distintamente e comprendessero perfettamente le parole del Signore? Possiamo e dobbiamo pensare che la predicazione si svolgesse tramite il “passaparola”. Le persone più vicine a Gesù riuscivano ad ascoltare fisicamente la sua voce e quindi ripetevano quello che udivano a quanti un po’ più distanti non erano in grado di distinguerle. A loro volta questi ultimi facevano lo stesso e le parole intese nel “passaparola” raggiungevano gli ascoltatori più lontani.
Non era un mezzo efficiente, ma era l’unico possibile. Pensiamo a quante parole si saranno perse tra un passaggio e l’altro. Pensiamo a quante saranno state udite male e quindi riferite peggio. E pensiamo a quanti, trovandosi ai bordi più esterni di questa folla oceanica, fossero realmente interessate ad un ascolto frammentario e intermittente. Abbiamo ai tempi nostri un esempio magnifico di tutto ciò, in occasione di certe feste parrocchiali, processioni, prime comunioni. Le persone più “vicine” cantano, partecipano, ascoltano, pregano. Ma verso il fondo della chiesa, vicino alle porte, dietro le processioni, al limite della piazza ferve la vita! Si chiacchiera del più e del meno, le persone si incontrano, si raccontano, sorridono, telefonano con il cellulare e guardano l’orologio! Pronte poi sempre a dire di esserci state! Forse non hanno inteso se non poche parole, forse nessuna, delle liturgie tanto ben preparate con fatica dai gruppi di volontari e dei fervorini del prevosto. Ma lì c’erano anche loro!
Le folle sono così, magmatiche, ambivalenti, per certi aspetti confuse e forse incapaci di trasmettere una “dottrina pura”, ma eloquenti di per sé. Una folla dice più di molte parole. Potremmo quasi sostenere che nel vangelo esista un “sacramento delle folle”: le folle sono una sorta di “segno e strumento” della rivelazione di Gesù. Già il radunarsi di una numerosa folla, pur nella sua ambiguità, attorno al Signore da oltre 2000 anni fa pensare di trovarsi alla presenza di qualcosa di più di un grand’uomo venuto da Nazareth.
Il “sacramento della folla” aiuta molto bene a comprendere il modello della fede come “cammino”, di cui parleremo tra breve.
Imparare a giudicare
Nel brano di Luca che ci fa da guida nei nostri ES incontriamo un paio di domande retoriche poste da Gesù alla folla che lo ascolta. Entrambe hanno una relazione con il “giudizio”, stando alla versione italiana:
Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?
E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
La traduzione, come sempre, non riesce a rendere in modo completo il significato dei termini greci e forse ne soffre anche un po’ il senso delle espressioni. Dal confronto delle due domande emerge in modo chiaro una differenza impercettibile in italiano: nella prima domanda il verbo “giudicare” traduce il termine greco “dokimazo”, nella seconda domanda il termine greco è “krino”.
L’uso di due termini diversi suggerisce che vi sia una sfumatura, che non è da poco. Infatti il verbo “dokimazo”, non frequente nel nuovo testamento e tra gli evangelisti usato solo da Luca, può essere tradotto agevolmente con “testare”, “esaminare”, “mettere alla prova”, “approvare”, “verificare se una cosa sia genuina o no, come si fa con l’oro”.
Infatti troviamo lo stesso verbo nell’unica altra occasione in cui Luca lo usa quando un invitato alle nozze per giustificare la sua assenza si scusa dicendo di aver comprato alcuni buoi e quindi deve andare a “provarli” (Lc 14,19).
Paolo usa più spesso questo verbo, e riporto solo alcuni esempi, come quello di Rm 2,18 e 12,2 nel senso di “discernere”; o nel senso di “approvare” in 14,22. Nel senso di “esaminare” compare in Gal 6,4 e in 1 Cor 11,28; in quello di “mettere alla prova” riferito ai diaconi in 1 Tm 3,10. In 1 Pt 1,7 il termine compare nel senso di “mettere alla prova come un metallo prezioso”.
Diverso è il caso del secondo termine, “krino”, che presenta una molteplicità di significati gravitanti tutti attorno ad un nucleo di senso derivato da “discernere”, “distinguere”, “giudicare”. Su questo termine non mi soffermo ulteriormente se non per osservare che la sua radice compare anche nel termine “ipocriti” con il quale si apre il versetto 56. Nella lingua greca l’ipocrita è l’attore, colui che recita una parte, colui che finge di essere chi non è. In senso negativo è qualcuno che induce gli altri a sbagliare, perché non dice la verità e il suo giudizio è artefatto, sotterraneo, piegato ai suoi scopi.
Così sembra che il Signore consideri quelli che non “sanno giudicare questo tempo”: persone che inducono in errore, sostanzialmente “falsi profeti”. A questo proposito ricordo insieme a voi il criterio che Gesù adotta per distinguere il vero dal falso profeta. Lo possiamo leggere dal vangelo di Luca, nel contorno delle beatitudini e degli avvertimenti del Signore. “Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti” (Lc 6,22s); e di converso “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6,26).
L’aggancio fatto da Gesù alla storia del popolo di Israele riporta alla memoria personaggi come Elia, che deve combattere contro i sacerdoti di Baal, o come Geremia, sopraffatto dai profeti di corte. Profeti veri, non “ipocriti”, ma insultati e respinti, eppure capaci come pochi di “scrutare” i segni dei tempi.
Rivolgendosi alle folle con parole tanto pungenti quali quelle di Lc 12,56 sembra che Gesù voglia rammentare alle folle gli errori del passato invitandole a prendere atto del cammino percorso. In esso si dimostra la crescita di un popolo che apprende dai suoi errori e che impara a giudicare il “tempo” presente, avendo a disposizione tutti gli elementi, interiori ed esteriori, per farlo.
Il popolo di Israele ha esperienza di Dio, ha esperienza di liberazione, possiede i patriarchi, le promesse e la legge, è stato sostenuto dalla profezia, ha conosciuto una storia di vittorie e di sconfitte, ha vinto la barbarie dell’idolatria. Dovrebbe essere maturo per “giudicare da sé”, per “sapere come giudicare”. Eppure sembra non essere in grado di farlo. In cosa ha fallito il cammino di apprendimento?
Imparare dai fallimenti
Diamo subito la risposta: il fallimento sta proprio nel difetto di finalizzazione, nel non aver chiara la meta da raggiungere, nel non aver saputo cogliere in un processo durato secoli la sua missione rivelatrice di Dio presso gli uomini. Il popolo di Israele ha fallito quando ha considerato la sua fede come un “pacchetto”, una bella confezione da aprire e un privilegio di cui godere. Ha fallito perché ha trascurato il “sacramento delle folle”.
Aggiungiamo un altro elemento alle nostre considerazioni. L’esempio che Gesù porta in Luca 12,56 è tratto dalla meteorologia, ma il termine greco che indica il “tempo” che deve essere “giudicato” è “kairos”; termine dal significato chiaro: si riferisce all’”opportunità”, al “momento giusto”. Il “kairos” è un giovane disoccupato che riceve una telefonata inaspettata per un colloquio di lavoro con la promessa di assunzione a tempo indeterminato ed un compenso molto alto. Perdere quella opportunità perché la sveglia non ha suonato è pura follia.
Ma abbiamo detto che “dokimazo” non vuol dire propriamente “giudicare”, bensì “mettere alla prova”, “saggiare”, “verificare”. Il giovane chiamato per il colloquio di lavoro sbaglierebbe se, spinto dalla necessità, accettasse incondizionatamente senza sincerarsi prima in cosa consista esattamente il lavoro. Sarebbe molto deludente scoprire che si trattava di una proposta di traffico inernazionale di stupefacenti.
Possiamo riconoscere che gli errori commessi dal popolo di Israele nel corso della sua storia hanno avuto origine dall’incapacità di “saggiare le opportunità”, di buttarsi con coraggio nell’avventura della fede. Ma come?, verrebbe da dire oggi. Sei il popolo eletto, Dio ti ha mostrato in tutti i modi di volerti bene e di lasciare che tu liberamente lo serva, ti ha indicato le vie della verità, sei cresciuto nella comprensione e nell’adorazione, e ancora resti lì, chiuso in te stesso, preoccupato dei tuoi confini, immiserito dietro le tue miserie, altezzoso giudice dei senza-Dio?
Queste parole, se non impariamo anche noi dai nostri fallimenti e da quelli del popolo di Israele, rischiamo di sentirle ripetere oggi nei nostri confronti. Non basta avere una fede modello “a pacchetto”, occorre entrare nella prospettiva di una fede modello “cammino”. La fede è anche “metodo”, una “strada attraverso la quale” si giunge ad una meta. Ma lungo questa strada non siamo soli. Si tratta di una strada fatta di incontri e di folle. Nel tempo presente, che siamo chiamati a “saggiare come opportunità” dobbiamo scoprire (nuovamente) il “sacramento delle folle”, come quelle che seguivano il Signore.
Dobbiamo comprendere profondamente che bisogna camminare anche per chi non cammina, vedere anche per chi non vede, ascoltare per chi non ascolta e gustare per chi non gusta. Pregare per chi non prega, credere per chi non crede. Ritengo sia un po’ questo il senso della risposta di Gesù alla domanda “Perché parli loro in parabole?” (Mt 13,10): “Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani” (Mt 13,15).
Luce sul mio cammino
Anche il modello della fede “cammino” ha un limite. Suggerisce la fatica del viaggio a piedi, di un pellegrinaggio esaltante e misterioso allo stesso tempo. Un viaggio nel quale affiorano diverse domande: dove sto andando esattamente? Sarà questa la strada giusta? Quando potrò dire di essere finalmente arrivato alla meta?
Rileggendo la meravigliosa pagina di Ebrei 11, un intero capitolo dedicato al racconto della fede, si resta sorpresi di due evidenze. La prima: il cammino della fede non è limitato all’esperienza personale di un singolo soggetto, ma si dilata nei secoli; i credenti sono tasselli importanti della fede delle generazioni successive. La seconda: in conclusione afferma l’autore della lettera-omelia agli Ebrei “tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa” (11,39). In ciascuna delle vicende personali di uomini e donne santi e fedeli resta un imponderabile margine di insuccesso, di imprevisto, di incalcolabile. La fede non viene presentata come un tour organizzato, con tanto di depliant sui servizi offerti e programma delle escursioni.
Il modello della fede “cammino” rivela il limite intrinseco di ogni viaggio fatto senza possedere né mappa né bussola. Ci ricorda molto da vicino il viaggio del popolo di Israele nel deserto del Sinai. Allora, per poter camminare in una terra sconosciuta verso una meta sconosciuta, gli israeliti furono guidati dalla dalla “Nube oscura”, dalla “Colonna di fuoco”: “Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte” (Es 13,21).
Nei salmi di Davide, qualche secolo più tardi, riemergerà la consapevolezza di un popolo “guidato”, “illuminato”, non da fenomeni miracolosi ma dal miracolo della Parola: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118[119], 105). Il modello della fede “luce” si impone gradualmente nella Bibbia e giunge fino alla rivelazione di Cristo “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Questo sarà il tema della prossima meditazione.