Il frutto (avvelenato) della politica
Quando nel 1994 Silvio Berlusconi “scese in campo” il panorama politico italiano era in preda ad un collasso irreversibile. Tangentopoli aveva dimostrato una diffusa responsabilità dei partiti nella corruzione, nel finanziamento illecito, nel malaffare. Berlusconi sembrò essere l’uomo della Provvidenza: imprenditore, apparentemente non legato a nessun partito (nonostante le sue frequentazioni con Craxi), prometteva un sogno, un sogno nostrano di pulizia, meritocrazia, sviluppo. Prometteva una speranza, che presto sarebbe stata bollata di populismo.
Iniziò in questa maniera un periodo e un modo di pensare che da Berlusconi prende il nome di berlusconismo. Come li si voglia considerare, Berlusconi e il berlusconismo sono frutti della politica (non meno di Grillo e dei grillini, con analogie fin troppo palesi). Hanno trovato facile humus nel malcontento popolare, nella recessione economica, in un impoverimento generalizzato sia dal punto di vista morale che da quello sociale. Facendosi interpreti delle più semplici e diffuse aspettative dei cittadini, hanno rivelato che la politica, nel bene e nel male, produce altra politica, nel bene e nel male.
Che oggi Pierluigi Bersani e il Partito Democratico giudichino irricevibili le proposte di Silvio Berlusconi e del Popolo delle Libertà non fa meraviglia. Per circa 20 anni, a fasi alterne, destra e sinistra si sono alternate al governo della Nazione. La prima senza grande interesse a fare riforme che si sarebbero rivelate impopolari e senza la lungimiranza di chi intende preoccuparsi del futuro, delle generazioni a venire, chiusa in un egoismo miope e senza speranza. La seconda senza il coraggio di riformare, paralizzata al suo interno tra chi voleva troppo e chi voleva troppo poco, preoccupata di trovare un avversario da battere per potersi sentire in qualche modo utile e viva, nel tipico stile della sinistra di ogni sempre e di ogni luogo.
Per 20 anni è cresciuta una generazione di politici nello scontro ideologico e verbale, spinto fino al disconoscimento della verità di fondo, che cioè l’avversario è comunque parte del popolo italiano e quindi pare illogico che si vogliano ignorare le sue posizioni o le sue necessità. Tale scontro contraddice profondamente la natura della politica, che dovrebbe prendere il posto in passato occupato dalle clave e dalle pietre, e poi dalle spade e dalle bombe. La politica non tanto come arte del compromesso (ma deve esserci spazio anche per quello) quanto come necessario strumento di conciliazione di interessi sociali a volte molto differenti e distanti tra loro.
La politica avvelenata di questi tempi è il frutto avvelenato di anni di avvelenamento politico, durante i quali l’altra parte non solo è stata demonizzata ma è stata percepita persino come rischio e pericolo per la propria sopravvivenza fisica. Non a caso la Lega Nord ha manifestato intenzioni secessioniste, interpretando i sentimenti frustrati e ribelli di cittadini di diversa estrazione che si percepiscono sfruttati dal resto della Nazione. E non a caso il Movimento 5 Stelle manifesta intenzioni che in altri tempi e con altre sensibilità si sarebbero dette eversive. Il rifiuto del dialogo politico, un comportamento teso a stravolgere prassi istituzionali o ad attaccare figure istituzionali ben al di là della corretta dialettica politico-istituzionale, la ricerca di soluzioni di carattere populista-ideologico, fondate non sulla riflessione logica e sul confronto ma su suppositi a volte semplicemente emotivi non fanno sperare nell’apertura di nuovi orizzonti efficaci e produttivi.
Al tempo stesso l’ignoranza tutta provinciale italiana di una situazione planetaria notevolmente cambiata, soprattutto presso nazioni molto evolute o in via di rapida evoluzione, rende il quadro generale ancora più fosco. L’Italia moderna appare legata al proprio passato rurale magnificamente descritto ne La Roba del Verga più che al recente processo di industrializzazione che le ha fatto gustare velleità da superpotenza mondiale.
Spaventa oggi il tentativo di ricercare soluzioni non solo parziali, ma in grado di aprire la strada a preoccupanti stagioni di intolleranza e addirittura di tirannia. La paventata riforma della legge elettorale nella direzione di garantire la maggioranza assoluta nei due rami del parlamento al partito (o alla coalizione) che avesse ricevuto la maggioranza relativa dal voto degli elettori appare un danno ben peggiore, che aprirebbe la strada ad una “dittatura delle minoranze“, dittatura peraltro suscettibile di cambiare direzione ad ogni nuova folata elettorale. Già oggi i numeri delle urne dovrebbero far pensare, quando ci si rende conto che, in termini assoluti, la maggioranza dei seggi alla Camera dei Deputati è detenuta da una coalizione che ha ricevuto circa 10 milioni di voti, nemmeno un quarto di quelli che si sarebbero dovuti esprimere o si sono espressi. In termini di rappresentatività tale maggioranza non può ritenersi in grado di affrontare da sola questioni che coinvolgano l’intera popolazione italiana.
La figura di Matteo Renzi si sta affacciando prepotente negli ultimi giorni. Non senza qualche ambiguità. Di nuovo la ricerca della persona investita di un carisma messianico può portare ad ulteriori disillusioni da parte della popolazione. Di nuovo il problema di qualcuno che si accrediti come statista e non sia semplicemente il nuovo che avanza, che non è necessariamente buono in quanto tale. Renzi spaventa la sinistra, perché non la rappresenta nel suo più profondo nucleo storico di estrazione comunista; ma spaventa anche la destra, perché sembra capace di attrarre simpatie da parte degli elettori più moderati. Un politico che spaventa troppo e tutti non può facilmente mettere d’accordo qualcuno. E al tempo stesso non è per nulla detto che la “novità” possa essere più fruttuosa di una qualsiasi pianta centenaria.
Pier Ferdinando Casini ha recentemente annunciato una revisione delle precedenti posizioni dell’Unione dei Democratici Cristiani e di Centro (UDC). Dopo l’appoggio incondizionato al governo presieduto da Mario Monti e alla sua successiva “salita in politica” , l’esito elettorale ha convinto il leader dell’UDC di aver commesso un errore ad attribuire al professore il ruolo di “salvatore della patria”. Ma non si riesce ad evitare il sospetto che si tratti di una banale manovra elettorale. Infatti i risultati ottenuti dalla coalizione montiana hanno dimostrato, semmai ve ne fosse stato bisogno, che gli italiani non possono tollerare un governo o una politica che nella preoccupazione di risollevare la Nazione dalla crisi somministri medicine troppo amare. Casini scarica Monti, ma lo fa allo scopo di non sparire pure lui, come già accaduto per Gianfranco Fini e tanti altri, sull’onda della rivolta (elettorale) degli italiani. Così diventa ancora più difficile capire se l’esperienza montiana debba essere considerata un’esperienza autenticamente positiva per l’emergenza che si trovò ad affrontare, oppure se il calcolo politico prevalente stia già preparando un modello di azione che risolva i problemi rimandandoli più avanti nel tempo.
Le soluzioni non sono facili e non desidero affrontare qui in modo esaustivo questo tema. Però mi sembra evidente che senza una “bonifica” della politica avvelenata non sarà possibile né un reale progresso né un efficace cambiamento. Ogni generazione politica rischia di nutrirsi delle carogne della precedente stagione, ma insieme alla sostanza di assumere anche il veleno che vi circola, perpetuando in tal modo un comportamento che tutto fa tranne l’interesse pubblico, la res publica, il bene comune. Bonificare la politica significa, perciò, anzitutto riconoscere, rispettare e legittimare tutti i ruoli, da quelli istituzionali a quelli degli avversari; in secondo luogo avere a cuore il benessere di coloro che non possono decidere, perché costituzionalmente il politico lo sta facendo al loro posto; in terzo luogo significa possedere quella lungimiranza capace di operare scelte che pur facendo gli interessi della popolazione attuale siano in grado di non mettere in difficoltà la popolazione futura; in quarto luogo bonificare la politica vuol dire accettare che il proprio pensiero possa e debba essere messo alla prova o addirittura in discussione per essere migliorato, in quanto nessun essere umano è esente da errori di valutazione e la vista comune ottiene risultati migliori.
Si potrebbe forse continuare, ma credo che seguire queste quattro indicazioni sia da considerare un successo tale che già da solo rappresenterebbe la svolta della politica italiana tanto attesa a livello nazionale e internazionale.