Il Servizio del Ministro della Comunione nella Pastorale della Salute

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Condividiamo una riflessione

Pur essendo prete da quasi 25 anni solo di recente ho iniziato a svolgere il mio ministero di Cappellano presso una struttura sanitaria. Molti di voi, invece, svolgono da anni il servizio di Ministri della Comunione e sono a contatto soprattutto con persone sofferenti, anziani e malati. Per questo penso che siate molto più esperti di me su questo argomento e che io non debba insegnarvi più di quello che già sapete e fate con tanta generosità.

Lo stato d’animo con cui mi affianco a voi e percorro questo tratto del vostro cammino formativo è di grande rispetto e di grande gratitudine. Come ogni servizio ecclesiale anche quello di Ministro della Comunione viene svolto in nome e con il sostegno della comunità ecclesiale. Nel Ministro della Comunione è l’intera Chiesa che si rivolge al e si china sull’anziano e sul malato. Mi piace quindi condividere con voi semplicemente ciò che porto nel mio ministero in mezzo ai sofferenti e la grazia che da esso ricevo quotidianamente.

Vorrei articolare la mia riflessione in due parti. Nella prima parte ci soffermeremo sul significato della sofferenza costituita dall’invecchiamento e dalla malattia nella cornice della fede cristiana. Nella seconda parte cercheremo di approfondire ciò che si potrebbe chiamare “approccio psicologico-spirituale” del Ministro della Comunione all’anziano e al malato.

La sofferenza dei sofferenti

Avrete notato che nel parlare di sofferenza ho associato al malato anche l’anziano. Qualcuno ha detto che la vecchiaia è per se stessa una malattia (Senectus ipsa est morbus., Terenzio, Phorm. IV, I, 9). Il decadimento fisico e psicologico legato allo scorrere del tempo cambia in modo inesorabile la qualità della vita, rendendo quest’ultima a volte tanto gravosa da richiedere una continua assistenza da parte di familiari e sanitari.

Se volessimo capire chi è di fatto il sofferente, proprio il riferimento alla vecchiaia ci offre la giusta chiave di lettura. La persona sofferente è quella persona che sperimenta un degrado delle proprie capacità fisiche o psichiche con un conseguente riflesso sulla qualità della sua vita al punto da trovarsi nelle condizioni di chiedere aiuto ad altre persone, familiari e sanitari, per ristabilire i contorni di una dignitosa identità umana.

Non esiste cultura o religione che non si sia chiesta il motivo della vecchiaia e della malattia. Nella rivelazione giudaico-cristiana la risposta arriva fin dalle prime pagine: la vecchiaia e la malattia – la sofferenza – sono conseguenza del peccato originale, di quell’atto con il quale liberamente l’uomo si è posto contro Dio rompendo l’armonia della creazione. Si tratta quindi di una condizione che dal primo uomo in poi  precede la responsabilità personale.

Il peccato originale, fonte della sofferenza

La sofferenza rientra in quella solidarietà misteriosa del genere umano che sperimenta il peccato originale e le sue conseguenze, prima di tutte la morte, non in modo singolare ma in modo collettivo. Così collettivamente l’umanità si misura ogni giorno con tutti gli effetti che il peccato originale ha introdotto nel mondo, in particolare in rapporto al dominio della volontà, alla sfera relazionale, al futuro.

La ferita spirituale inferta nella profondità della creatura allontanatasi dalla volontà del Creatore ha così indebolito la volontà dell’uomo, che spesso egli è capace di vedere il bene ma incapace di compierlo e preferisce il male (Rm 7,19), finendo per perdere di vista la sua stessa identità, la dignità di chi è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. A causa del peccato originale l’umanità fatica a trovare un punto di equilibrio, una “comunione” con Dio, con gli uomini tra di loro, con l’ambiente creato. Addirittura l’uomo sperimenta la difficoltà di accettarsi per quello che è. Sempre a causa del peccato originale l’umanità è incapace di prevedere tutti gli effetti delle proprie azioni nel lungo periodo: pensiamo, per esempio, al progresso dei mezzi di trasporto e all’imprevisto inquinamento del pianeta che hanno causato.

La differenza fondamentale tra la visione ebraica antica della malattia e quella cristiana si ritrova nell’episodio del cieco nato ricordato dall’evangelista Giovanni: “«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». «Né lui ha peccato né i suoi genitori»” (Gv 9,2-3). Sono certo che anche voi in tante occasioni abbiate sentito dire: “Che male ho fatto per meritare tutto questo?”. Ancora oggi non sono pochi coloro che pensano alla sofferenza come alla punizione per qualche presunta colpa personale. La risposta di Gesù fuga ogni dubbio: la sofferenza non è un luogo di punizione, ma è il luogo di una epifania, il luogo della manifestazione dell’opera di Dio (il cieco nato “è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” Gv 9,3), che è la fede (“Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” Gv 6,29).

Redenzione di Cristo e ministero della Chiesa

Non è inutile, e spero non sia stato troppo noioso, questo passaggio sulla sofferenza come effetto del peccato originale. Penso che non sia possibile uno sguardo sulla sofferenza autenticamente umano e al tempo stesso carico di fede senza partire dalla consapevolezza che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, come scrive S. Paolo ai Romani (3,23). Così come è impossibile coltivare una solida speranza colma di gratitudine se dimentichiamo che tutti “sono giustificati gratuitamente per la sua [di Dio] grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù“ (Rm 3,24).

Perciò l’assistenza all’anziano e al malato, per noi che abbiamo la gioia di essere stati chiamati alla fede, è anzitutto un annuncio di fede, una buona notizia di fede. Direi una vera e propria azione terapeutica dello spirito.

Anzitutto fa parte del servizio di un ministro saper indicare la salvezza. Il macigno che separa l’uomo da Dio e lo fa “star male”, solo e stordito alla ricerca di senso esiste e ha un nome: è il peccato originale. Ma esiste e ha un nome anche chi ha vinto il peccato e la morte, ed è Gesù il Nazareno, il Crocifisso Risorto. Lui è il Salvatore, l’unico che può sgretolare tutte le divisioni e sanare le fratture del cuore dell’uomo.

Il ministro che nella comunità dei redenti compie un’opera ecclesiale collabora in qualche modo alla redenzione inaugurata da Gesù. Il sofferente ha diritto a ricevere dalla Chiesa non solo una parola di conforto, ma anzitutto una parola di salvezza e di redenzione. Questo perché la dignità della persona riguarda sì la sua fisicità e la sua psichicità ma non di meno il suo spirito: la redenzione, il riscatto della sofferenza compiuto da Cristo per ogni uomo e per ogni donna di ogni tempo e di ogni luogo viene perpetuato dalla Chiesa qui e ora per questa persona.

Il ministro della comunione quindi compie un gesto tipicamente ecclesiale: portando fisicamente l’Eucaristia alla persona sofferente permette la comunione dei beni spirituali. Anzitutto è il Bene stesso, Cristo, che si dona ad ogni fedele. E in questa comunione si ritrovano i beni che ogni fedele mette in rete: anche i sofferenti hanno così la possibilità di godere dei beni di tutti i loro fratelli nella fede, come pure di donare i propri.

L’approccio psicologico-spirituale

Solo in questa cornice possiamo allora definire il quadro di quello che abbiamo chiamato “approccio psicologico-spirituale” del Ministro della Comunione all’anziano e al malato. Non sono uno psicologo né uno psichiatra e non vorrei far pensare che io sia in grado di offrire indicazioni specialistiche in proposito. Più propriamente mi occupo di questioni di natura spirituale e una lettura spirituale non può mancare in nessun servizio che si rende nella Chiesa. In particolare a me sembra importante che ci sia un giusto modo di affrontare la sofferenza come conseguenza del peccato originale e di proporsi il fine di vincere i tre effetti relativi al dominio della volontà, alla sfera relazionale, al futuro.

Posso attingere alla mia esperienza, limitata e per questo non certo da prendere a campione. Sono certo che ciascuno di voi sarà in grado di riconoscere e adattare al proprio campo di attività quello che diremo. Per evitare tecnicismi poco opportuni cercherò di descrivere l’approccio psicologico-spirituale che ho fatto mio ricorrendo ad una serie di espressioni.

Riconosciamo le giuste identità

Non sono io il Salvatore. C’è un primo atteggiamento sbagliato che la persona sana può assumere avvicinandosi alla persona sofferente: pensare, anche inconsciamente, di possedere poteri salvifici. Ogni ministro della Chiesa sa che il Salvatore è solo Gesù di Nazareth e lui deve annunciare.

Tu sei un sofferente, non un maledetto. Avvicinando chi soffre occorre liberarsi di ogni pregiudizio per dare a chi soffre la giusta chiave di interpretazione della propria sofferenza. Nel dialogo umano occorre far passare il messaggio che il bene che abbiamo fatto nella vita non va perduto e non viene annullato da nessuna nostra azione, per quanto cattiva. Anzi, il bene che abbiamo fatto nella vita ha un valore per la Chiesa e l’umanità. La Chiesa visita i sofferenti proprio per benedirli, non per rimproverarli o farli sentire menomati.

Comunichiamo i nostri beni spirituali

Grazie, perché mi consenti di fare il bene. Il sofferente non rappresenta un peso per la Chiesa, un altro tra i tanti impegni, ma rappresenta una risorsa. “Fare il bene” è l’essenza dell’amore e non si può dare un credente in Cristo che si esima dall’amare, dal fare il bene. Per questo chi è al servizio dei sofferenti deve maturare un senso di riconoscenza nei loro confronti, che è il senso più propriamente eucaristico, perché i sofferenti ci danno la possibilità di amare.

Amore mio, Cristo è risorto e ti vuole bene. L’affetto empatico e simpatico possiede un valore liberante. Chi si sente amato entra nella dimensione rassicurante di rapporti che danno vita, perché la vita nasce solo da un gesto di amore. Mentre si stringe una relazione vitale tra ministro e sofferente, non si può fare a meno di ricordare che anche e soprattutto il Signore Gesù è una fonte inesauribile di bene.

Progettiamo il futuro insieme a chi soffre

Soffrire è un po’ creare e ricreare. Non temo il rischio di cadere nel patetico quando faccio, come esempio della sofferenza, il parto di una madre. Riprendo le parole di Gesù già in qualche modo entrato nella sua passione: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,21). Nella sofferenza è insito un senso di attesa e di novità creativa. La sofferenza non si conclude con un atto distruttivo (la “dolce morte”) ma con un atto oblativo: è l’offerta che la rende feconda.

La parola creatrice nell’ascolto silenzioso. Nella struttura in cui opero inizialmente non avevo una Cappella con il Tabernacolo. E così ho imparato che tutta la struttura era una grande Cappella e ciascuna delle persone che vi si trovano è un Tabernacolo vivente. Fare silenzio davanti a chi soffre e mettersi in ascolto della sua parola è – in qualche modo – lasciare che Cristo ci parli attraverso coloro in cui egli si identifica.

Un progetto terapeutico ecclesiale. Le persone che soffrono guariscono le nostre comunità ecclesiali. Da egoismi e ripiegamenti, da presunzioni e insensibilità. Sono esse i nostri veri terapeuti. Alla persona che soffre è dato il compito di bonificare, disinquinare le nostre comunità ecclesiali. Di solito siamo abituati a portare noi, insieme alla comunione, “qualcosa” alla persona sofferente: un rosario, un libretto di preghiera, una comunicazione del Parroco o del Cappellano. Occorre rovesciare i termini: è il Parroco o il Cappellano che devono chiedere alla persona sofferente una parola, una preghiera per la loro comunità.

Riempire di senso la sofferenza

La sofferenza va presa sul serio. Una sofferenza oscura e disperata spinge la persona umana verso la paura, la ribellione, la violenza, l’accartocciamento su di sé. La sofferenza illuminata, la sofferenza ricolma di senso esalta quanto di più positivo si trova nella creatura umana fatta ad immagine di Dio: la dignità personale, la fiducia, la comunione, la bontà, l’apertura al prossimo. Il Ministro della Comunione è lo strumento che la Chiesa mette a disposizione del sofferente perché la sofferenza non sia abbandonata a se stessa ma scopra nella Redenzione di Cristo il suo valore di purificazione e di riscatto.