Il sondaggione: cosa ti aspetti di più da un prete

Il sondaggione via Twitter ha prodotto alcuni risultati.

Il primo risultato è che si sono attivati 4.840 utenti della mia bolla: alcuni hanno solo dato un’occhiata, 369 hanno votato, altri hanno contribuito con le loro risposte e i loro commenti. Li ringrazio tutti e ciascuno.

Grazie proprio agli interventi dei tweeter coinvolti è avvenuto uno scambio interessante, si vede che comunque l’argomento provoca qualche interesse, nella mia bolla. Anche i commenti critici (Cosa ti aspetti di più? “Niente“; “Meno preti (perché servono a qualcosa?)”; “… questo è odio per il cristianesimo allo stato puro“) dimostrano quel che è noto: non tutti hanno bisogno dei preti, la stessa figura del prete è sottoposta ad interpretazioni che di volta in volta, di persona in persona, si muovono tra la realtà e la fantaecclesiologia.

I tuitteri della mia bolla hanno risposto così.

Per come era posta la domanda del sondaggione [Da un prete cosa ti aspetti di più? (tutti gli aspetti, ma di più?)] non si escludeva nessuno dei quattro aspetti, chiedendo invece di indicare quello che il partecipante considerava maggiormente auspicabile. Ciò implicava non che gli altri tre aspetti dovessero essere cancellati, ma che nell’esperienza del partecipante un aspetto fosse ritenuto meno presente e quindi andasse rafforzato. Oppure, cosa molto simile, che a detta del partecipante il prete dovesse dimostrarsi più attento a sviluppare uno dei quattro.

Non condivido lo “scandalo” di chi sostiene che “più umanità” e “più sociale” siano “odio per il cristianesimo allo stato puro“.

Prete è servire, più che “sentire” se stesso

La mia posizione al riguardo ho iniziato ad esprimerla in un interessante scambio con Annamaria Rossi, che ha chiesto “quando” io mi sento più prete.

Ho risposto che personalmente non mi “sento” prete, “sono” prete. Sarebbe la stessa cosa chiedere quando mi “sento” essere umano (o più essere umano). Prima di essere prete e come suo requisito “sono” essere umano, quindi cittadino italiano e poi romano. Infine cristiano. “Prete” indica un servizio ecclesiale.

In questo senso, essere prete si propone di servire la Chiesa, l’umanità là dove serve. Preghiera come servizio. Rappresentanza come servizio. Umanità come servizio. Socialità come servizio. Servire là dove serve.

Innamorarsi – sia da parte dei preti, sia da parte dei laici – di UN servizio o di UN modo di servire e praticare quello magari pretendendo che siano i destinatari del servizio ad adattarsi ad esso, significa contraddire in radice il servire, quindi l’essere prete.

Inoltre insistere sul sentimento personale non è proficuo, a mio avviso. Cosa fa “sentire” più o meno prete per me non conta. Ho l’età e l’esperienza giuste per guardare con sospetto il “mi sento” che mi riguarda. Altri facciano come vogliono.

Sono prete, ERGO e IN QUANTO servo (e servo inutile, da mettere da parte alla prima occasione). Come ho detto ai superiori, se anche mi chiedessero di fare il prete spazzando i corridoi della Curia perché a loro serve questo, il mio ministero non ne risulterebbe svilito in alcun modo. Il problema semmai sarebbe, come è di fatto, il loro.

A mio avviso occorre quanto prima recuperare in modo netto, chiaro, senza infingimenti il significato “diaconale” dei ministeri (minus stare) ecclesiali. In caso contrario non ne vedo l’utilità (e il calo vocazionale dice che pure il Chiamante non la vede).

Sentire? Sì, ma cum Ecclesia

La differenza sostanziale, a mio avviso, la fanno i preti che sono capaci di “sentire cum Ecclesia” non con un’astrazione apologetica, ma come un corpo vivente di persone concrete. A tal proposito non ho mai visto un santo davvero spirituale, pieno di fede e orante che non avesse i piedi ben piantati per terra.

Che dire della ieraticità che ispirava un tipo come san Girolamo? Capace di trascinare alla santità persone altolocate come Paola Romana e sua figlia Eustochio. Forse un po’ distante dalla sensibilità moderna, ma nel IV-V secolo ha avuto il suo bel successo.

E che dire dell’immersione nell’orazione e nella meditazione teologica di un tipo come san Tommaso d’Aquino? Ha segnato per sempre un metodo di studio e lo ha riempito di contenuti che difficilmente passeranno. Senza nulla togliere a chi lo ha preceduto e a chi lo ha seguito e seguirà, Tommaso resta un unicum del medioevo.

Non furono poliziotti preti come l’abruzzese san Camillo de Lellis, che nel XVI-XVII secolo si inventa un ordine religioso per tutelare la salute dei cittadini romani. Perché la tutela dei cittadini (cristiani e non) parte dalla tutela dei loro diritti e quindi dalla soluzione dei loro problemi, come si direbbe con parole moderne. È un linguaggio universale, quello della tutela, altro che odio del cristianesimo.

E non furono assistenti sociali preti come san Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù. Prete “sociale” ma perché di una umanità tale che lo rese sensibile verso le situazioni di emarginazione e di sofferenza della società torinese del XIX secolo. La sua “carità pastorale” lo “inclina ad amare il giovane, qualunque sia lo stato in cui si trova, per portarlo alla pienezza di umanità che si è rivelata in Cristo, per dargli la coscienza e la possibilità di vivere da onesto cittadino come figlio di Dio. Essa fa intuire e alimenta le energie che il santo riassume nel trinomio ormai celebre della formula: «Ragione, religione, amorevolezza»” (Giovanni Paolo II).

Nel sondaggione ha vinto l’auspicio di un prete dall’umanità solida: ragione, religione, amorevolezza, la ricetta di Giovanni Bosco che può essere declinata anche oggi nelle condizioni di vita contemporanee.