In corsivo, i luoghi comuni

Articolo comparso su Vivere in Sintonia, Ottobre-Novembre-Dicembre 1996, Anno X – n. 4

Attenti, il luogo comune è sempre lì, in corsivo, pronto a tendere il suo malcelato trabocchetto. Basta poco, sapete?, per accamparsi nelle sue terre infide.

Ci sarà sempre tempo

Ai miei tempi”, grazie a Dio, i grandi lo ripetono sempre meno spesso, forse è sorta l’epoca di un pudore che copre gli errori del passato con una più serena autocritica. Nondimeno i giovani sono ancora pronti ad affilare le armi per denunciare le generazioni precedenti di non capire le esigenze dei loro entusiasmi di fronte alla vita e al futuro. I grandi vorrebbero vedere i giovani all’arrembaggio del mondo conquistarsi una sistemazione sicura, come dire?: famiglia, lavoro, chiesa. Ma i giovani rifiutano le omologazioni borghesi, e si rintanano nelle discoteche vestiti tutti uguali per sfogare la loro voglia di trasgredire. I genitori vogliono giustamente mostrarsi di mentalità aperta, e così si sentono in dovere di dialogare con i figli sforzandosi di capire i loro problemi, e perché no?, anche lo sballo del sabato sera. Certo, il consumismo, alla luce psichedelica tutti-in-pista, sembra più lontano dell’Africa, dell’Asia o dello stesso sospirato posto di lavoro. Ma in fondo in fondo un po’ di trasgressione non pare abbia mai fatto male a nessuno. Ci sarà sempre tempo di occuparsi del sociale, di ecologia, di volontariato e di molte altre buone cose che pacificano la coscienza, distratta dalla musica a 20.000 watt e dalle fastidiose interrogazioni o dagli esami, troppo impegnativi – si sa – per lasciare posto anche ai grandi ideali.

Bisogna fare qualcosa

Oddio, non mancano le occasioni per dimostrare che i giovani hanno una spiccata sensibilità verso i problemi del mondo moderno. Si moltiplicano le iniziative laiche, le associazioni di scambio internazionale, i campi lavoro, i viaggi missionari, e quant’altro è necessario per far uscire il giovane occidentale dai confini del suo universo patinato e sorridente e fargli prendere coscienza che il resto dell’umanità vive ben altre esperienze. La miseria, le malattie, l’ignoranza, la fame sono i veri nemici da combattere e sconfiggere. Tornati a casa bisogna fare qualcosa, bisogna sensibilizzare, bisogna cambiare il sistema che ha ridotto in schiavitù interi continenti. “Da soli non ce la faremo mai, ma se provassimo a parlarne e a proporre anche semplicemente piccoli gesti allora forse tutti insieme otterremo grandi risultati”.

Tutto qui?

Senza ironia, ma è proprio questa la strada giusta, mi domando, è proprio questa la volontà di Dio, anche lei assurta al rango di luogo troppo comune? Non so, a me sembra tanto che sotto sotto continuiamo a perpetuare la nostra visione paternalistica e “occidente-centrica” persino tra i nostri meglio intenzionati propositi. Continuiamo, ancora, a confondere benessere con beneavere (= è di più chi ha di più), stabiliamo che il metro di giudizio non deve superare i limiti imposti dalle ferree leggi di mercato o dalla scienza, con tutto il suo contorno. Vogliamo essere missionari, sì, ma del vangelo delle conquiste sociali, un po’ più vangelo, senz’altro più concreto, di quello del sognatore di Nazaret. No, non si tratta di un rimprovero o di una critica verso l’opera di tanti missionari che, obbedienti al dettato evangelico, donano la propria vita perché fratelli lontani e sconosciuti si riconoscano nella loro propria dignità umana. Semmai si tratta di mettere in corsivo un altro luogo comune: il missionario è uno che porta beni, salute, cultura e cibo a chi non li ha. Missionario: tutto qui?

Che ne sarà della missione?

Ma dimmi, caro giovane dai grandi ideali, ispirati ai sentimenti più cristiani di pietà e di amore, il giorno che per assurdo tutto questo non sarà più un’utopia, cosa accadrà della missione? Il giorno in cui avrà trionfato il modello dell’opulenza, o anche molto più semplicemente quello della giustizia sociale, che ne sarà delle ultime parole pronunciate dal Risorto di Nazaret: “Andate in tutto il mondo e portate il messaggio del vangelo a tutti gli uomini” (Mc 16,15, trad. interconfessionale)? Devo confessare di leggere con un certo disagio un versetto del vangelo di Giovanni, che sembra tutto fuorché “vangelo”, ossia buona notizia. A Betania, un giorno, Maria versa sui piedi di Gesù un vasetto di olio profumato e costosissimo. Il buon vecchio Giuda, tutto preoccupato per l’inatteso sperpero di denaro, commenta: “Si poteva vendere questo unguento per trecento monete d’argento e poi distribuirle ai poveri”(12,5). Ed è a questo punto che il Redentore pronuncia la sua tagliente osservazione: “I poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (12,8). Non so se Gesù intendesse emettere un giudizio definitivo sulla povertà (ci sarà sempre qualche povero, al mondo, fino al giudizio universale), ma una cosa è certa: è lui, il Cristo, a non essere posseduto per sempre. La sua presenza tra gli uomini è una presenza “pendolare” che richiede una grande capacità di intuizione del momento e di disponibilità a servirlo. Cristo non è più presente tra i poveri di quanto non lo sia tra i ricchi, e contemporaneamente non ne hanno più bisogno i ricchi di quanto non ne abbiano i poveri. Ricco o povero, davanti a Cristo, non fa differenza, e non solo perché anche questo è finito per diventare un luogo comune, ma anzitutto perché ogni uomo, al di fuori di Cristo, è povero, di quella miseria umana non illuminata da nessuna speranza di risurrezione, di novità, di paradiso. Ricco o povero, l’uomo senza Cristo è destinato a rimanere tale, relegato sul suo pianetino vagante negli spazi siderali, sempre più angusto man mano che egli prende coscienza che il mondo interiore esige ben altro spazio in cui abitare. Che ne sarà della missione, se un missionario (o un giovane cristiano) dimenticasse che il suo scopo è quello di arricchire se stesso e i suoi fratelli della presenza di Cristo, di dilatare gli spazi del cuore fino alla misura di Dio, di vivere la sua presenza nel mondo come quella di un vero e proprio “cristo”? Tutto il resto, benessere o beneavere che sia, tutto il resto sarà un mezzo, uno strumento per raggiungere questo obiettivo. Allora farà poca differenza in che continente risiedi in questo momento. Povero o ricco, malato o sano, ignorante o dotto, affamato o satollo: il missionario ha un altro metro di valutazione: o Cristo o niente Cristo. E se incontra un uomo che non ha incontrato Cristo, il missionario sarà il suo cristo. E stavolta il corsivo non è un luogo comune.