L’autentica ricchezza del servizio
Esercizi Spirituali – Figlie della Chiesa, Domus Aurea, Ponte Galeria (RM)
Omelia della XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
La pagina del vangelo di Luca ascoltata nella liturgia della parola di questa domenica lascia perplesso più di qualche commentatore. Non è facile da “dipanare”, non è facile da “ruminare”. Il messaggio che appare luminoso nella sua chiarezza e semplicità non lascia adito a dubbi: “non potete servire Dio e la ricchezza” (16,13). Nel complesso bisogna spendere qualche parola per capire qualcosa di più, consapevoli di correre il rischio di non riuscirvi.
Come passo iniziale cerchiamo di farci una ragione dell’accostamento della prima lettura al vangelo; come è noto, infatti, i redattori dei testi liturgici hanno seguito il principio di “armonizzare” la lettura dell’antico testamento con quella della parola del Signore. Ci rendiamo subito conto che la scelta del profeta Amos non è per nulla casuale.
Amos (nome ebraico che significa “Jahvè solleva”, “Jhavè porta”, chiaro riferimento alla fede di Israele nel Dio che lo sostiene in ogni difficoltà ma anche alla vicenda personale del profeta, “portato” dal Signore al suo ministero) esercita la sua attività profetica nell’VIII secolo avanti Cristo in una nazione ormai divisa in due regni fin dalla morte di re Salomone (922 a.C.). Egli proviene da un paesino vicino Betlemme (Tekoa) quindi nel regno del sud, il regno di Giuda, ma la sua attività da profeta si svolge a nord, nel regno di Israele durante il tempo di Geroboamo II. Le sue origini sono umili. Lui stesso si presenta come un “pastore e coltivatore di piante di sicomoro” (7,14) e ricorda che il Signore lo prese, lo chiamò mentre seguiva il gregge.
Forse proprio la sua umile origine, con quell’isolamento tipico dei mandriani che per seguire il gregge vivono ai margini della società impossibilitati a partecipare a tutte le vicende quotidiane, gli offre una visione disincantata del mondo contemporaneo. Storicamente il regno di Geroboamo II fu caratterizzato da un periodo di estremo splendore: nessun pericolo di guerre, grandi scambi economici, grandi ricchezze. Ma al rude pastore preso dal Signore da dietro il gregge non sfugge che tanta opulenza materiale non corrisponde ad altrettanta ricchezza spirituale. Anzi, pare esattamente il contrario. Così egli pronuncia le parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura. I poveri del paese sono dimenticati e soffrono, i ricchi e i notabili si comportano in modo scorretto e ipocrita, tentando di trarre il maggiore profitto possibile persino falsificando le unità di misura. Truffa ai danni dell’indigente e del bisognoso.
Ad Amos, profeta della “dottrina sociale”, più che ad ogni altro è chiaro il significato delle parole di Gesù: “non potete servire Dio e la ricchezza”. Come è chiaro del perché tali parole siano rivolte ai suoi discepoli e non a tutti. Sono i discepoli infatti che da una parte devono essere animati dallo stesso spirito profetico diventando capaci come Amos di denunciare le condizioni di povertà e le prevaricazioni delle società; dall’altra devono essere capaci di farsi prossimo degli emarginati, dei poveri, degli esclusi perché questi ultimi, prima di tutti, possano ricevere attraverso di loro il messaggio divino di “prossimità”: “certo – dice il Signore – non dimenticherò mai”.
Il tema della dialettica tra povertà e ricchezza è molto caro a Luca. Basti solo pensare che nell’arco di un paio di capitoli si trovano racchiusi una serie di interventi particolarmente severi. Al termine del capitolo 14 Gesù osserva che una folla imponente lo seguiva e ad essa dice esplicitamente: “chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (v. 33). Segue la parentesi del cap 15 dove il Signore parla di misericordia agli scribi e ai farisei. Ma ecco l’apertura del capitolo 16, il vangelo di questa domenica. Egli si rivolge ai discepoli, a quelli che sono tali perché presumibilmente hanno rinunciato a tutti i loro averi.
Non è difficile ipotizzare con l’uso del termine “tutti” riferito agli averi il Signore intenda riferirsi non solo alle ricchezze materiali, ma anche ad ogni altra pretesa ricchezza del discepolo. San Paolo afferma che “Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Ed evidentemente non parla tanto né solamente di ricchezze materiali, quanto dell’umiltà abbracciata da Cristo per porsi al servizio dell’uomo e dell’arricchimento che tale comportamento del Signore ha comportato per il credente in termini di salvezza. In questo senso la lettura “spiritualizzata” offerta da Paolo circa la dialettica tra povertà e ricchezza è un superamento di una visione meramente “economica”.
Così la stessa parabola dell’amministratore infedele si caratterizza per presentare altri due temi non secondari: quello del ruolo dei discepoli e quello della relazione con il “mondo”.
Nel primo caso l’amministrazione riguarda i beni di un “uomo ricco”. Non mi soffermo sui particolari della parabola legati alle tradizioni del tempo. Il senso appare invece piuttosto chiaro: il protagonista del racconto agisce in nome del suo “datore di lavoro”. Trattandosi di parole rivolte ai discepoli credo che tutti noi possiamo sentircele rivolgere. Il discepolo è chiamato ad amministrare beni non suoi; ad avere tra le mani doni di grazia che lo arricchiscono nella misura in cui egli sa farli fruttificare per gli altri. Come Cristo il discepolo deve rendere ricco di redenzione, di riscatto, di salvezza coloro che sono posti nelle sue mani. L’infedeltà a tale missione comporta l’esclusione, il rifiuto.
Contemporaneamente la parabola chiama in causa le relazioni dei discepoli con il “mondo” i cui figli sono più scaltri dei “figli della luce”. Sembrerebbe esserci un paradosso nelle parole di Gesù. Da una parte l’amministratore è il discepolo che deve fare gli interessi del padrone. Dall’altra il padrone loda quel discepolo che ha fatto i propri interessi beneficando i suoi fratelli. Questa scaltrezza non pare tanto mondana. E se lo fosse, sarebbe proprio quella che manca a tanti figli della luce. In un certo senso dobbiamo aspettarci che la strada per il paradiso sia affollata anche da tanti figli del mondo che comportandosi con scaltrezza riescono a raggiungere lo stesso obbiettivo dei discepoli. Tale osservazione acuta del Signore dimostra ancora una volta che nessuno è lontano dalla via della salvezza e che molti uomini, molte donne spesso inconsapevolmente mettono in atto comportamenti tali da farli essere “discepoli a loro insaputa”.
Se un insegnamento morale rivolto ai discepoli vogliamo trarre da tali considerazioni è di sicuro quello di una rinnovata esortazione al servizio di Dio disinteressato, intelligente, fecondo, senza ripensamenti né riserve. In tale servizio, nel quale il discepolo è chiamato a prendersi cura di tutti i suoi fratelli, compiuto con fedeltà è iscritta tutta la dignità e la speranza dei “figli della luce”. E la loro autentica ricchezza.