La cacca del Papa non profuma di mughetto
Parte prima. La cacca del Santo Padre
Correva l’anno 1988. O 1989. Era l’8 dicembre, solennità dell’Immacolata Concezione. Come seminarista dell’Almo Collegio Capranica svolgevo il servizio liturgico presso Santa Maria Maggiore. Così prevede infatti il motu proprio Nobilissimam sacrarum di Benedetto XV (Benedetto XV fu ex alunno del Collegio capranicense e lo rese un po’ meno elitario; strano Collegio, il Capranica, che dalla sua fondazione nel 1457 ha dato alla Chiesa un numero considerevole di cardinali e di vescovi, ma nessun santo… e due papi – Benedetto XV e Pio XII – uno nella I Guerra Mondiale l’altro nella II Guerra Mondiale…).
Nella solennità dell’Immacolata, San Giovanni Paolo II tradizionalmente al mattino celebrava la Messa in Santa Maria Maggiore e al pomeriggio deponeva una corona di fiori alla statua della Madonna a Piazza di Spagna. Per la Messa in Basilica venni scelto e incaricato come turiferario. In poche parole avrei dovuto portare il turibolo (il bruciaprofumi dell’incenso) durante la processione e in altre occasioni della celebrazione, dopo avervi fatto infondere l’incenso dalle mani del Santo Padre.
Vestiti di tutto punto in talare e cotta io e i miei compagni ministranti eravamo in attesa dell’inizio della celebrazione nella sagrestia della Basilica. Quando arrivò Monsignor Piero Marini, allora Maestro delle Cerimonie Pontificie, i quattro ministranti che servivano per i momenti iniziali della celebrazione, tra cui io, furono invitati ad entrare in una cameretta riservata, attigua alla sagrestia, dove tutto era pronto per accogliere il Santo Padre e i paramenti che avrebbe indossato durante la Messa ben piegati sull’altare.
Ricordo il silenzio intenso e religioso dell’attesa. Alla mia sinistra la porticina di ingresso della cameretta. Davanti a me, pochi passi sulla destra, l’altare con i paramenti. Tappeti, tende e armadi di legno intarsiato racchiudevano tutto come in uno scrigno. Mi resi conto dell’ingresso del Santo Padre solo quando fu a un paio di metri da me. Era entrato in quel silenzio tra lo svolazzamento di sottane e lo stropiccio di abiti e qualche frase incomprensibile, appena sussurrata. Mi irrigidii.
Giovanni Paolo II restò fermo in piedi davanti all’altare per qualche minuto, assorto come in preghiera, quindi gli si avvicinò il suo Aiutante di Camera, Angelo Gugel (colui che aveva sorretto con calma e lucidità il Papa trafitto dalle pallottole dell’attentato), e gli tolse il mantello rosso allontanandosi sulla mia sinistra, verso la porta da cui eravamo entrati. Ero emozionatissimo, non distoglievo lo sguardo dal Papa, seguivo a malapena quello che accadeva attorno a me. Monsignor Marini si avvicinò al Santo Padre e gli tolse la croce pettorale e la pellegrina (la mantellina bianca aperta sul davanti che il Papa porta appoggiata sulle spalle). Quindi prese l’amitto per iniziare la vestizione, ma il Papa lo fermò, sussurrandogli qualcosa all’orecchio.
Marini lasciò cadere l’amitto sull’altare e si allontanò. Tutti gli sguardi erano sul Papa. Qualche secondo dopo rientrò Angelo Gugel dalla mia sinistra, imponente e discreto, mi passò avanti quasi sfiorandomi e scomparve dietro una tenda alla mia destra, posta proprio a lato dell’altare. Trascorse del tempo, non molto, e Gugel riattraversò la tenda, si diresse verso Giovanni Paolo II, si accostò al suo orecchio, bisbigliò qualcosa. Giovanni Paolo II, immobile fino a quel momento, si voltò e si diresse verso la tenda da cui era uscito Gugel. Stavolta si sentì chiudere una porta.
Il tempo passava, era già stato abbondantemente superato l’orario fissato per l’inizio della Messa. Dove era andato il Papa? Aveva ricordato forse un impegno importante? Aveva un appuntamento telefonico non procrastinabile? Marini e Gugel erano rimasti nella cameretta, stavano proprio davanti a me, sorridenti scambiavano battute sottovoce, di cui pur a così breve distanza non riuscivo a distinguere il significato.
D’improvviso da dietro la tenda si udì l’inconfondibile rumore dello sciacquone e tempo qualche altro minuto la serratura della porta; la tenda che proteggeva il disimpegno si scostò e ne riemerse il Papa. Seguito da una nuvola di odore (per amore di cronaca devo precisare: importante, davvero importante) che invase rapidamente l’angusta cameretta. Tutto allora proseguì speditamente, il Papa fu vestito e la Messa cominciò con inusuale ritardo. Mentre con la processione d’ingresso avanzavo attraverso la navata osservavo la gente assiepata sulle balaustre, protesa verso il passaggio del Papa e mi chiedevo cosa pensassero di quel ritardo e se mai ne avrebbero compreso la vera ragione: il Santo Padre aveva fatto la cacca.
Parte seconda. L’illuminazione
Conclusi da quell’episodio così fuori del comune che la cacca del Papa non profuma di mughetto. Nemmeno di rosa, né di lavanda. Odora di cacca. Come tutta la cacca di questo mondo. Anche quella di un Papa santo.
Scrissi la sintesi di tale constatazione qualche tempo dopo in una riflessione su Pietro e sui suoi successori (che ho posto come primo post di questo blog qui). Si allontanò da me in modo definitivo la tendenza alla “idealizzazione” della figura del Papa, così comune a quel tempo. Il Papa fa la cacca puzzolente come tutti. E non è sempre infallibile. Come tutti ha bisogno di nutrirsi e come tutti ha bisogno di medici e di medicine che lo curino, Giovanni Paolo II (il cui tremore fu ufficialmente riconosciuto nel 1996 come “disturbo extrapiramidale” negando la presenza del Parkinson [qui], mentre il suo medico personale ha dichiarato di aver notato i primi sintomi del Parkinson nel 1991 [qui]) lo dimostrò ampiamente. A volte un Papa ha bisogno anche di psicanalisti, come ammesso di recente da Papa Francesco (qui); e molti cardinali e vescovi frequentano abitualmente psichiatri e psicologi…
Sembrano affermazioni prive di senso, nessuno infatti proverebbe a sostenere il contrario. Normalmente nessuno poi si va a porre questioni sugli aspetti intimi della vita di una persona, chiunque essa sia; per quanto nella Scrittura non sia passato inosservato il momento in cui qualcuno di importante (il Re) si è “coperto i piedi“, espressione usata per indicare l’espletamento dei bisogni fisiologici (cfr 1 Sam 24).
Penso però che riappropriarsi di una illuminante verità fondamentale non faccia male a nessuno. Nella Chiesa abbiamo disperatamente bisogno di ricordare (ricordare = RIportare al COR, cordis – cuore) che l’idealizzazione delle persone, siano esse papi, cardinali, vescovi, preti o semplici credenti laici, conduce a paradossi che rendono invivibile il cristianesimo. Per quanto animati da buone intenzioni si finisce per idolatrare una idea di identità, di modo di essere e si perde di vista l’umanità nel fascino della sua imperfezione.
Se è vero che àgere sèquitur esse (l’agire segue l’essere; se senti un latrato molto probabile che l’animale che lo ha emesso non sia una chiocciola ma un cane), è pur vero che nella profondità dell’essere può vedere (e agire) solo Dio, mentre a noi esseri umani resta più semplicemente giudicare, ispirare e coordinare azioni, attraverso le quali rivelare l’essere.
“Mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” sfidava l’apostolo Giacomo. Secondo lui l’autorevolezza dell’essere cristiano non si conquista assumendo una identità, un modo di essere, ma praticando opere cristiane nello specifico a favore dei più bisognosi.
Parte terza. Controllo dei processi e controllo delle persone
Ok, tutte queste parole per dire cosa? Per sostenere la tesi che nella lodevole iniziativa di scorticare il clericalismo di dosso alle comunità cristiane, nel sacro furore di rinnovare il presbiterio adottando un preciso modello di spiritualità del sacerdote diocesano, nell’entusiasmo di superare la distinzione tra pastoralità e spiritualità si scivola senza accorgersene dal controllo dei processi (le azioni, le attività, personali e comunitarie) al controllo delle persone (le identità, i modi di essere).
Nessuna grande novità, eh. A volte, nella chiesa delle sperimentazioni ingenue, si è sostituito banalmente un modello di identità cristiana non più vincente con uno ritenuto maggiormente adatto. Fu così, per esempio, con la fine delle persecuzioni, verso il IV secolo. Siccome l’ideale di santità coincideva con quella del martirio venne a mancare una fonte importante di identità. E per questo si rafforzò l’ideale dei padri del deserto, eremiti e anacoreti, che rifiutarono la vita ritenuta comoda delle città per rifugiarsi in luoghi sperduti, molto spesso in forme curiose ed esagerate di isolamento (Simeone lo Stilita visse 37 anni in cima a una colonna…), per sperimentare nuove forme di martirio.
Nella chiesa del potere, laddove cioè si è praticata l’autorità più come esercizio di potere che come esercizio di servizio e di responsabilità, si è sempre osservato, accanto a una progressiva perdita di autorevolezza, l’esigenza insopprimibile di controllare le persone, i credenti, i sudditi. Così fu per i papi del Rinascimento, portati ad esempio di corruzione e intolleranza.
Nella chiesa post conciliare (in tal modo si definisce il periodo successivo al Concilio Vatinano II) costretta a misurarsi con una modernità dai tempi accelerati e spesso contraddittori si comprese quasi subito che gli entusiasmi delle novità non erano privi di ambiguità. Il Cardinal Poma, Presidente della CEI, diffuse nel giugno del 1971 tra i vescovi italiani la lettera con alcune domande in preparazione del Sinodo dei Vescovi, per comprendere meglio i fatti che avessero influenzato positivamente o negativamente la vita della chiesa dopo il Concilio Vaticano II. Le nostalgie delle identità di un passato circonfuso di gloria riaffiorano sempre quando il presente propone problemi nuovi che richiedono supplementi di energia per essere affrontati e risolti.
Infine arriviamo ad oggi, alla chiesa debole degli scandali e del mondo post moderno che soffre la tentazione dell’intimismo spiritualista: l’arretramento della pastorale nelle relazioni intracomunitarie fatte di ferite da leccare per i gravi peccati ed errori di cui si sono macchiati rappresentanti della comunità cattolica, il disorientamento di comunità “vecchie dentro” spinte dalla società contemporanea, che corre più veloce, a ricollocare la propria presenza e il proprio credito. Ripiegarsi su se stessi, cercare la prossimità calda e rassicurante (“dalla culla alla tomba“) di una comunità piuttosto uniforme e concorde, rafforzare identità e modi di essere, tornare con la memoria al passato, confortarsi a vicenda con la narrazione di esperienze, di suggestioni positive, di storie di successo sono tutti espedienti attraverso i quali il controllo delle persone diventa determinante per la riuscita del nuovo corso.
In questo quadro l’impegno dei fedeli si rafforza positivamente mettendoli in evidenza per quello che sono più che per quello che fanno. Si determina al di là di ogni ragionevole dubbio l’urgenza di assumere l’identità che la leadership ritiene più confacente al progetto, indipendentemente dal conseguimento di obiettivi e risultati.
Parte quarta. Il curato di Torcy
Vi propongo la lettura di una pagina memorabile del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos (traduzione e prefazione di Adriano Grande). Il curato di campagna scrive nel suo diario di essere stato a trovare il curato di Torcy. Lo descrive come un buon prete, puntualissimo, di solito un po’ terra terra: figlio di ricchi contadini, conosce il valore del danaro e impressiona con la sua esperienza mondana. Dalle sue labbra, tra una tirata di pipa e un’altra, ascolta un aneddoto molto istruttivo.
Mi domando che cosa avete nelle vene, oggi, voialtri giovani preti! Al mio tempo, si formavano degli uomini di chiesa – non aggrottate le sopracciglia, mi fate venir voglia di scappellottarvi – sì, degli uomini di chiesa, prendete la parola come volete, dei capi di parrocchia, dei padroni, insomma, uomini di governo…
Adesso, i seminari ci mandano dei chierichetti, dei piccoli vagabondi che si immaginano di lavorare più di tutti perché non vengono a capo di nulla. Invece di comandare, piagnucolano. Leggono mucchi di libri e non son mai stati capaci di capire – di capire, intendetemi! – la parabola dello Sposo e della Sposa.
Che cos’è una vera sposa, ragazzo mio, una vera donna, quale un uomo può augurarsi di trovarne una se è abbastanza stupido da non seguire il consiglio di San Paolo? Non rispondete, direste delle bestialità! Ebbene, è una robustona, dura alla fatica, ma che tiene per le cose e sa che tutto sarà sempre da ricominciare, sino alla fine.
La Santa Chiesa avrà un bel darsi da fare: non cambierà questo mondo in altarino del Corpus Domini. Avevo una volta – vi parlo della mia vecchia parrocchia – una sacrestana stupefacente, una buona suora di Bruges secolarizzata nel 1908, un cuore coraggioso.
Gli otto primi giorni, strofina tu che strofino anch’io, la casa del buon Dio si era messa a luccicare come un parlatorio di convento; non la riconoscevo più, parola d’onore! Eravamo all’epoca del raccolto, devo dire; non veniva un gatto e quella satanica vecchietta esigeva che mi levassi le scarpe: io, che ho orrore delle pantofole! Credo persino che quelle le avesse pagate di tasca sua.
Ogni mattina, beninteso, trovava un nuovo strato di polvere sui banchi, uno o due funghi del tutto freschi sul tappeto del coro, e delle tele di ragno, ah, piccino mio!, delle tele di ragno da farci un corredo da sposa.
Mi dicevo: continua a strofinare, figlia mia, domenica vedrai.
E la domenica è venuta.
Oh! Una domenica come le altre, una festa senza scampanii, con la solita clientela. Inezie! Insomma, a mezzanotte ella dava la cera e strofinava ancora, a lume di candela.
Qualche settimana dopo, per Ognissanti, venne una missione da fracassar tutto, predicata da due Padri redentoristi, due valentuomini. La disgraziata passava le notti a quattro zampe, tra il suo secchio e la catinella – annaffia tu che annaffio io, – tanto che la muffa cominciava ad arrampicarsi su per le colonne e l’erba spuntava tra le giunture delle lastre.
Non c’era mezzo di farle intender ragione, a quella buona suora! A darle retta, avrei messo alla porta tutti quanti perché il buon Dio avesse i piedi all’asciutto, capite? Le dicevo: “Mi rovinerete in medicine!” poiché tossiva, povera vecchia! Ha finito per mettersi a letto con una crisi di reumatismo articolare, il cuore non ha resistito e pluf! ecco la mia buona suora davanti a San Pietro.
In un certo senso, è una martire, non si può sostenere il contrario. Il suo torto, certo, non è stato di voler combattere la sporcizia, ma d’averla voluta annientare, come se fosse possibile.
Una parrocchia è forzatamente sporca.
Una cristianità è ancora più sporca.
Aspettate il grande giorno del Giudizio, e vedrete quel che gli angeli dovranno tirar via dai monasteri più santi, a palate – che vendemmia! -. E allora, piccolo mio, questo prova che la Chiesa dev’essere una buona massaia, solida e ragionevole. La mia brava suora non era una vera donna di casa: una vera donna di casa sa che una casa non è un reliquiario. Sono idee da poeta, tutte queste…
Solo, i vagabondi non hanno la perseveranza della mia buona suora, ecco tutto. Al primo assaggio, col pretesto che l’esperienza del ministero smentisce il loro piccolo comprendonio, abbandonano tutto.
Son dei musi sporchi di marmellata. Ma una cristianità non si nutre di marmellata, più di quanto se ne nutra un uomo.
Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale.
Ora, il nostro povero mondo rassomiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letame. Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia. Ma le impedisce anche di marcire.
Con l’idea di sterminare il diavolo, l’altra vostra manìa è di essere amati, amati per voi stessi, s’intende. Un vero prete non è mai amato, ricòrdatelo.
E vuoi che te lo dica? La Chiesa se ne infischia che voi siate amati, ragazzo mio.
Parte quinta. Il miele e il sale
Ringraziamo Bernanos per la potente immagine del curato di Torcy (e un amico che me l’ha ricordata). Sono in conclusione di questo lungo post e non voglio rubare altro tempo a chi legge. Mi basta ora riprendere alcuni punti qualificanti della pagina del romanzo per condividerne la forza profetica valida ancora oggi.
Una parrocchia è forzatamente sporca. Una cristianità è ancora più sporca
Il torto di una visione disincarnata del cristianesimo, che vuol pulire, pulire, pulire e far apparire tutto lindo e tinto come il “parlatorio di un convento” non è voler combattere la sporcizia, ma volerla annientare. Persino Dio si è riservato di sconfiggere l’ultimo nemico (la morte) alla fine dei tempi. Non andrà molto lontano una chiesa ripiegata su se stessa alla ricerca del perfezionismo pastorale e spirituale.
La Chiesa dev’essere una buona massaia, solida e ragionevole
La buona massaia sa che la casa non è un reliquario. Trasformare la chiesa in teche e cassetti dove il sacro è ordinatamente disposto ad uso e consumo dei credenti finisce per diventare la tomba della fede. Perciò tanto più devianti e nocive sono certe forme di tradizionalismo che si accetta di far coesistere per quieto vivere dentro la chiesa, come ninnoli archeologici di un passato nostalgico. La solidità e la ragionevolezza della chiesa deve portare a dire che quella chiesa non esiste più, è morta e regolarsi di conseguenza (ai morti si fa il funerale e poi si seppelliscono).
Una cristianità non si nutre di marmellata, più di quanto se ne nutra un uomo
Cosa accade ad una cristianità rintanata nelle proprie comunità, disimpegnata dal sociale e dal politico, incapace di realistiche visioni economiche e scientifiche, non pronta a misurarsi con le sfide umane del terzo millennio, insomma una cristianità che continua a nutrirsi prevalentemente della marmellata parrocchiale e non si dimostra in grado di nutrirsi del cibo solido della vita quotidiana insieme a tutti gli uomini e le donne contemporanee? Semplicemente perde forza e diventa incapace di bene.
Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ma il sale
Il controllo delle persone che favorisca alcuni modelli e identità a scapito di altri non solo uniforma e appiattisce la vita ecclesiale ma le fa perdere il sapore. Il mondo contemporaneo ha bisogno della testimonianza di uomini e donne veri, non di figure prefabbricate che parlino a bassa voce, non si arrabbino mai, sorridano sempre, cerchino il quieto vivere, rifiutino i problemi… i melliflui, in buona sostanza. Occorre valorizzare il controllo dei processi, assaggiare la zuppa e aggiustare il sale… se amare significa fare il bene, verificare che si faccia il bene, non che si sia buoni.
Un vero prete non è mai amato, ricòrdatelo
Se la Chiesa si mostra preoccupata che i suoi preti (i ministri in genere, persino i fedeli…) siano “amati” in e da questo povero mondo e si muove, agisce di conseguenza, purtroppo ha fallito in partenza la sua missione. Un vero prete può essere rispettato, ascoltato, persino temuto; ma amato per se stesso mai. Non si può chiedere a qualcuno di amare qualcun altro ex officio ipsius, giacché per essere amati occorre pure essere amabili. Non si amano i ruoli, le funzioni, nemmeno i sacramenti, si amano le persone. E se qualcuno si presentasse in seminario con bisogni affettivi espressi o inespressi pensando che possano essere appagati perché si indossa una particolare veste o si fa parte di un certo ordine sacro o religioso, scoraggiatelo subito, non è vocazione.