La “chiesa debole” del terzo millennio
Ridefinizione dell’identità del sacerdote (in particolare diocesano) e sua formazione
Qualcuno dopo il Concilio disse che, alla luce dei documenti conciliari, era più chiara l’identità del laico che quella del sacerdote. Giovanni Paolo II, consapevole delle difficoltà generate dalla collocazione del ministero sacerdotale (quello dei preti) in un contesto che aveva gettato le basi per una migliore comprensione ed espressione del sacerdozio comune sacramentale (quello di tutti i battezzati, cattolici e non), pensò di aver trovato nella carità pastorale il criterio esplicativo più appropriato (Pastores dabo vobis, 1992).
In realtà, pur considerando il sacramento dell’ordine, ciò che negli ultimi 50 anni è stato detto del sacerdozio ministeriale in modo specifico, può dirsi del sacerdozio sacramentale in senso generale. Questione non da poco perché all’identità e al ruolo del ministro ordinato corrisponde inevitabilmente un modello formativo.
C’è da osservare che il documento che si è occupato della formazione dei futuri sacerdoti, la Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis del 1970, rispondeva ai voti del Sinodo dei Vescovi del 1967; quel documento, aggiornato nel 1985 (fonte) a seguito della promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico (1983), è stato sostituito dalla Ratio del 2016 (fonte) con l’espressa menzione del documento pontificio del 1992. Nel frattempo (2013) la competenza sui seminari è passata dalla Congregazione per l’educazione cattolica alla Congregazione per il clero (fonte), segnale preciso che la specificità della formazione seminaristica è funzionale ad una specifica visione di clero e non ad una generica educazione cattolica.
Tuttavia nessuno di questi documenti tocca la domanda centrale dell’identità del sacerdote, dandone evidentemente per assodato il ruolo tradizionale; e di conseguenza nemmeno sfiora la revisione della formazione: il sistema seminaristico collaudato da 5 secoli di esperienza ne esce sostanzialmente immutato, anzi per certi aspetti potenziato nella sua segregazione e separazione dall’ambiente umano.
In realtà la questione dell’identità sacerdotale appariva non del tutto risolta già nel 1994, anno della pubblicazione del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (fonte). Non entro nel dettaglio di un documento complesso che ha avuto meno fortuna di quella auspicata tanto da richiederne una nuova edizione neppure trascorsi venti anni, nel 2013 (fonte). Recependo le istanze che provenivano dalla Pastores Dabo vobis si è cercato in tutti i documenti e gli incontri successivi di dare vita a itinerari di formazione permanente dei presbiteri, nella consapevolezza che il bagaglio culturale e dottrinale ricevuto dagli studi seminaristici e accademici non poteva completare l’intero percorso e andava adattato alle mutevoli esigenze pastorali.
Affrontando l’argomento, i vescovi italiani nella recente sessione autunnale del Consiglio Permanente della CEI si sono leggermente discostati dalla visione “classica” della formazione permanente del clero e hanno avanzato l’ipotesi di una “riforma”: “I Vescovi si sono ritrovati attorno a una concezione della formazione permanente che non si riduce a un aggiornamento teologico-pastorale, ma si muove nell’orizzonte di una conversione e, più ancora, di una «riforma» dei presbiteri. Il percorso – che si vuole «incisivo, comprensivo e propositivo» – punta alla verità del ministero e al carattere evangelico della sua pratica” (fonte). Quale sia tale “riforma dei presbiteri” non è dato però sapere.
In conclusione, probabilmente a nessuno di questi documenti può essere chiesto di rinnovare qualcosa, trattandosi più o meno di documenti riassuntivi e applicativi.
Perciò restano irrisolti parecchi nodi: il significato della secolarità del sacerdote diocesano; l’ambiguità del sacerdozio negli ordini religiosi; la conflittualità con il sacramento del matrimonio; il rapporto di responsabilità verso la comunità dei credenti; il tema della “fraternità sacerdotale” che scivola in quello delle lobby ecclesiali; la ineguale distribuzione del clero nel mondo; il ruolo della presenza femminile nella formazione dei sacerdoti e nel ministero ecclesiale; l’educazione alla cultura di internet e all’uso delle nuove tecnologie (di cui ho scritto qui); ed altri ancora, uno su tutti: quali le funzioni, i doveri, i diritti, il ruolo formativo della comunità cristiana nella selezione e presentazione dei candidati e in un eventuale loro insuccesso dopo l’ordinazione.
Vero è che il vescovo ordina per sé i suoi presbiteri; ma nella prassi fin dalla più antica è il popolo a presentarli e ad attestarne la dignità. In questo senso la soluzione non potrà mai essere quella di un vescovo che imponga al suo seminario, direttamente o indirettamente, la sua spiritualità personale o quella a lui più congeniale, nemmeno fosse la spiritualità di grandi santi come Charles Eugène de Foucauld, visconte di Pontbriand.
Ciao Ugo,
storicamente quasi (metto il quasi perché la storia è il regno delle eccezioni e non ammette mai regole universali ed immortali) tutti i movimenti di rinnovamento della Chiesa la hanno vista cercare di tornare, ovviamente in modo parziale, allo spirito, se non alla lettera, della Chiesa subapostolica, spesso appoggiandosi alla forza morale e spirituali dei nuovi ordini monacali del periodo.
Così fu per la Riforma Gregoriana che sfruttò la spinta innovativa di Cluny, così fu per il IV Concilio Lateranense con il riconoscimento degli Ordini Mendicanti e pure nel Concilio di Trento l’influenza della pur recente Compagnia di Gesù non fu affatto secondaria.
Quindi non posso che concordare con te, il tornare della Chiesa a fare “come in terra di missione” è la strada e personalmente l’esperienza che sto recentemente vivendo di “ritrovo spirituale” con dei fratelli a casa di uno di loro la sento fra l’altro come utilissima proprio per uscire anche dalla tentazione (ma spesso anche obbligo) del formalismo che, giustamente, ricordi.
Alessandro