La conversione

 

  1. dalla comunità alla comunità cristianaNella prospettiva della nuova evangelizzazione “urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali” (LS, 23).
  2. dal mistero al mistero pasqualeIl mistero pasquale di Cristo si rende continuamente presente e operante nella Chiesa, ma per accedervi è necessario entrare nell’itinerario della conversione e della fede, essere associati alla morte e risurrezione di Lui mediante i sacramenti dell’iniziazione, partecipare assiduamente alla vita della comunità ecclesiale che ha come centro la parola, l’Eucaristia e la preghiera. Non può esistere un’autentica vita liturgica senza il profondo legame tra la parola e la conversione, la fede e i sacramenti, la celebrazione e la vita, in una dimensione di responsabilità personale e di comunione fraterna (LS, 44).
  3. dal giorno al giorno del SignoreIn un ritmo di vita assillato dal successo, dall’attivismo e dal consumo, dall’avere e dal fare, più che dall’essere e dal donare, attraverso la celebrazione del giorno del Signore, la Chiesa richiama l’uomo alle sue più profonde esigenze e potenzialità (LS, 48).
  4. dall’evangelizzazione alla nuova evangelizzazioneLa nuova evangelizzazione si esprime nell’invito a credere all’amore di Dio rivelato nella croce e risurrezione di Cristo (cf 1Gv 4,14-16), a rifare con questo amore – dono dello Spirito – il tessuto di comunione della comunità ecclesiale e quindi il tessuto cristiano della stessa società umana, a realizzare così la svolta verso una pastorale maggiormente missionaria: la nuova evangelizzazione investe dunque tutte le dimensioni della vita e della pastorale della Chiesa (LS, 19).

Conversione alla chiesa

Dovendo preparare delle meditazioni per un corso di ES per operatori di pastorale, come sempre ho dovuto scegliere le fonti alle quali attingere. La Scrittura è la fonte insostituibile, e quasi la diamo per scontata. Ma allora anche doverosamente il Magistero. Ad esso dobbiamo fare riferimento, infatti, nel momento stesso in cui ricerchiamo la chiave di lettura delle nostre riflessioni.

Abbiamo già avuto modo di precisare che la chiave di lettura degli ES è la chiesa. La chiesa nasce come corpo di Cristo non solo nell’evento – ritenuto tradizionalmente fondante – della morte sulla croce. Dal fianco squarciato di Cristo, la fuoriuscita di sangue e acqua ricorda i sacramenti dai quali prende origine la chiesa; e come l’Adamo dormiente venne privato di una costola per formare Eva, la madre di tutti i viventi, così dal fianco di Cristo addormentato sulla croce la nuova Eva, la chiesa, diventa madre dei nuovi figli di Dio. Si tratta di un insegnamento classico, che però deve trovare un punto di equilibrio con una riflessione ulteriore, non meno vera.

La chiesa nasce come corpo di Cristo fin dal momento dell’incarnazione. Il teologo von Balthasar arriva addirittura a intravvedere nel sì di Maria l’atto fondante della chiesa. Essa è l’insieme dei salvati, potremmo definirla il germe terreno del paradiso, ma lo è in ragione del fatto che il Signore Gesù associa al suo corpo, e al suo corpo di carne che è contemporaneamente corpo glorificato nella risurrezione, tutti coloro che nella fede e nel battesimo aderiscono al suo stile di vita. La costituzione strutturale di tale corpo, mistico per natura, rende perciò la chiesa fin da questo momento storico indefettibilmente santa (cfr LG, 39), soprattutto in ragione del fatto che Cristo, il solo santo, ha amato la chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per essa al fine di santificarla.

Convertirsi a Cristo, in qualche maniera, oggi è inscindibile dal convertirsi alla chiesa, e comunque una conversione che porti a Cristo senza partire dalla chiesa o passare attraverso di essa o giungere ad essa è una conversione tendenzialmente falsa. Il fatto che la chiesa sia il luogo del matrimonio di Cristo con l’umanità ci manifesta anche la caratteristica propria della chiesa che per mezzo di lui e in lui non solo è santa ma diventa anche santificante (cfr CCC, 824) e, possiamo aggiungere, a pieno titolo – divinamente santificante.

Conversione nella chiesa

Se la chiesa è santa, è però anche vero che non tutti i suoi membri lo sono allo stesso tempo e allo stesso grado: “Mentre Cristo santo, innocente, immacolato non conobbe il peccato, ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo, la chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento” (LG, 8).

Se ricordate le parole conclusive della meditazione precedente erano quelle del protokerygma petrino: “Cosa dobbiamo fare, fratelli?”. Pietro risponde: “Pentitevi, fatevi battezzare, dopo riceverete il dono dello Spirito” (At 2,38). Queste parole sono perfettamente applicabili alla chiesa in quanto tale. Essa, infatti, comprendendo nel suo interno anche i peccatori, non può esimersi dal perseverare nella conversione come condizione sempre in atto di fedeltà a Cristo. La conversione è un meccanismo complesso che richiede diversi elementi per funzionare.

  1. Il pentimentoVi mettete in macchina e cominciate a guidare. Con la solita fretta di ogni giorno imboccate la strada percorsa abitualmente e dopo qualche centinaio di metri vi accorgete che avete sbagliato direzione, dovevate andare in un altro posto. L’istante in cui vi folgora la sensazione di aver sbagliato è il pentimento, che rappresenta il primo e indispensabile passo della conversione.
  2. La conversioneRallentate frenando, guardate la strada dallo specchietto, arrabbiati con voi stessi, per la vostra sbadataggine, del tempo che state perdendo, ecc. ecc., ed accostate al lato della strada. Sapete che proseguire è inutile, dovete prendere una decisione che vi consenta di raggiungere il vostro obiettivo. Il momento in cui vi trovate nell’imbarazzo della scelta e vi chiedete cosa fare possiamo chiamarlo conversione. In effetti il prendere in considerazione soluzioni varie per uscire dal vostro impasse richiede una mentalità disposta al cambiamento, alla conversione appunto.
  3. Il rinnovamentoAvete deciso: riprendete la strada e vi predisponete per tornare indietro, con una manovra che può essere anche rischiosissima a volte, ma dovete rischiare se volete arrivare in tempo. E’ questo il momento del rinnovamento.

Conversione della chiesa

Pentimento – conversione – rinnovamento: è lo schema che persino la chiesa segue nella consapevolezza di incorporare santi e peccatori, applicandosi incessantemente alla penitenza e al rinnovamento.
In tempi recenti questo rinnovamento, come ultimo atto di un processo di conversione, si è manifestato in maniera grandiosa con il CVII per l’intera chiesa universale, e i benefici effetti di quella straordinaria ventata di Spirito Santo si fanno sentire ancora oggi.

In tempi ancora più recenti è stata la nostra Chiesa di Roma ad intraprendere una seria conversione, con il II Sinodo, per vedere i frutti del quale dovremo ancora attendere parecchi anni (forse ci riusciranno i nostri nipoti). Ma a noi è demandato l’onere di seminare, attraverso l’approfondimento, l’assimilazione, la realizzazione dei primi elementi che il Sinodo ci richiede. Trattandosi di ES conglomerati al tema centrale della Chiesa ci era impossibile non fare riferimento al Libro del Sinodo (LS) come guida anche spirituale, e non solo pastorale, delle nostre riflessioni.

Tutto il LS però è impossibile, occorre fare una cernita di temi. A quale livello, perciò dobbiamo tentare di leggere il LS? Con quale prospettiva?

Rinnovare ridicendo il mistero

Sullo sfondo di ogni azione di rinnovamento e di conversione della chiesa rimane sempre la preoccupazione di rendere accessibile agli uomini il mistero nascosto da secoli. Di quale mistero si tratta? Lo accenna la dossologia conclusiva della lettera ai Rm (16,25-27): “A colui che ha il potere di confermarvi… secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni, ma rivelato ora…”; lo riprende l’inno di Ef 1,9 chiamandolo “il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose”; lo ricorda ai Colossesi esplicitamente Paolo, quando dichiara di lottare per coloro che ha evangelizzati, perché “giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo” (2,2).

Cristo è il mistero di Dio! Dove mistero, come ormai è ben noto, significa qualcosa di tutt’altro che misterioso, nel senso di nascosto, incomprensibile. Quando i padri occidentali cercarono di tradurre in latino la parola mistero, che è di origine greca, non trovarono nulla di meglio nella loro lingua per descriverla che la parola sacramentum, cioè sacramento. Quasi sempre, quando noi troviamo la parola mistero nella scrittura, possiamo pensare che il suo significato è identico a quello che noi diamo al termine sacramento: segno efficace di grazia. Cristo, secondo questa nostra prospettiva, è mistero, cioè sacramento, dell’amore del Padre, lo realizza, lo attua.

La chiesa dunque si trova ingaggiata su questo fronte, di rendere cioè accessibile il mistero nascosto da secoli, Cristo. Mistero che è sacramento efficace dell’amore del Padre, della misericordia riconciliante di Dio verso l’uomo peccatore. In questo senso la chiesa si dimostra disponibile alla conversione, quando cioè non solo dal profilo morale, ma anche sotto l’aspetto intellettuale e relazionale attraverso l’evangelizzazione fa partecipe l’uomo di oggi del mistero nascosto da secoli.

Il mistero nella vita della chiesa e dell’uomo

E’ a questo punto che occorre presentare con dettagli maggiori la griglia di lettura che teologicamente è necessaria per comprendere l’azione della chiesa, e perciò il livello nel quale si colloca la conversione richiesta anche agli operatori pastorali.

Livello mistico Livello sacramentale Livello liturgico
Piano trascendente MISTERO MISTERO PASQUALE FEDE
Piano misterico CHIESA CELEBRAZIONE RITI
Piano esistenziale UOMO VITA OPERE

Secondo questa griglia di lettura l’azione della chiesa risulta centrale e di mediazione tra Dio e uomo. Ad ognuno dei tre livelli, mistico, sacramentale e liturgico, si trovano tre piani corrispondenti, che identificano un’area ben precisa della dinamica della fede.

A livello mistico il piano trascendente è quello che indica in Cristo il Mistero della salvezza nascosto da secoli, ma che sul piano misterico si traduce nella realtà della chiesa come realizzazione e concretizzazione nel tempo della salvezza di Cristo. E’ sempre la chiesa che a livello sacramentale con le sue celebrazioni celebra sempre e comunque il mistero pasquale, che è la concentrazione dell’azione salvifica del mistero di Cristo. In ogni sua azione la chiesa rende noto (celebr-azione) tale mistero. Attenzione, in ogni sua azione: non solo dunque nella sinassi eucaristica, non solo nei sette sacramenti, ma anche nella preghiera, anche nell’assistenza ai sofferenti, anche nell’organizzazione di un convegno, anche nella costituzione di un consiglio pastorale. Tutta l’azione della chiesa è rivolta a rendere noto il mistero pasquale di Cristo.

Il fine ultimo dell’azione della Chiesa rimane quello di fare in modo che il mistero raggiunga l’uomo e lo coinvolga sul piano esistenziale. La vita dell’uomo diviene così un riflesso del mistero pasquale di Cristo – morto e risorto e gloriosamente asceso al cielo – così come mette in rilievo il CVII: “L’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell’AT è stata compiuta da Cristo Signore specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione dai morti e gloriosa ascensione… Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (SC, 5).

Dal mistero pasquale, cioè dall’esperienza salvifica di Cristo, viene originata la fede della chiesa, anche essa ormai sacramento di salvezza e segno di unità e di riconciliazione di tutto il genere umano con Dio e degli uomini tra di loro (cfr LG, 1). E’ la fede che nel piano trascendente a livello liturgico fa sì che l’azione della chiesa, quale popolo di Dio, riesprima e riattui attraverso i vari riti la storia della salvezza, facendo incontrare gli uomini con Cristo. Essa compie tale missione nella celebrazione del mistero pasquale sviluppandola lungo le tre dimensioni tipiche dei suoi riti.

  1. dimensione storica:

    alla base della celebrazione c’è sempre un fatto, e mentre si “ritualizza” il fatto si rifà l’azione salvifica di Dio. Basti pensare alla pasqua, come evento che collega il fatto storico dell’uscita dall’Egitto del popolo di Israele e il fatto storico della risurrezione di Cristo.

  2. dimensione comunitaria:

    celebrare implica sempre relazionalità. Non solo l’uomo è affidato alle mani dell’uomo, non solo la salvezza è sempre qualcosa di collettivo e mai privato, non solo un cristiano è inconcepibile da solo (un cristiano non sia salva mai da solo, o non si salva per niente). Ma è insito nel celebrare “liturgicamente” il compiere un’azione popolare. Liturgia infatti è anch’essa parola greca composta dall’aggettivo di laos (popolo, aggettivo popolare) e da ergon (opera). Il composto popolo-opera presenta due fronti. Da una parte significa che ciò che si fa è l’opera di un popolo (e in questo senso assomiglia al termine chirurgia, che significa opera delle mani); da un’altra parte significa l’azione sul popolo (e in questo secondo senso si avvicina al termine metallurgia, che non vuol dire opera del metallo, ma opera sul metallo). Perciò nella celebrazione liturgica è sempre un popolo che, modellato da Dio attraverso la sua opera, opera nella storia l’opera di Dio.

  3. dimensione misterica:

    tutto ciò che il popolo opera attraverso azioni, parole, cose ritualizzate ridiventa vero per il solo fatto che qualcuno lo ricupera. Il senso del memoriale, cioè di un ricordo che parte dall’evento storico per dilatarsi all’intera storia e quindi costituire un eterno presente, si trova collocato nel modo più giusto solo all’interno della dimensione misterica, per cui ogni realtà nella chiesa vive del respiro sacramentale e trascendente.

Dal divorzio alla conversione

La celebrazione del mistero pasquale dunque si compie a livello liturgico-misterico attraverso dei riti, i quali diventano simboli viventi ed efficaci (cioè realizzano quello che significano) del mistero. Attraverso i riti il mistero si fa presente qui e ora: Cristo si fa presente qui e ora. Ma se il fine della chiesa è l’uomo e il fine della celebrazione è la vita, il fine dei riti sono le opere. Non è credibile un cristiano che durante una liturgia celebri i riti di comunione (preghiera del Signore, scambio di pace e comunione eucaristica) e poi nelle sue opere contraddica apertamente tali gesti: prega con difficoltà a causa di un cattivo rapporto con il Padre, è in lite con i suoi fratelli, rifiuta di spezzare il pane della propria vita in segno di comunione con ogni uomo.

E’ d’altra parte evidente che esiste un divorzio chiaro tra chiesa e uomo (spesso si sente ripetere: Cristo sì, chiesa no), tra celebrazione e vita (la vita non viene vista come luogo della celebrazione del mistero, mentre a questo vengono dedicati solo alcuni momenti e dentro le strutture ecclesiali), tra riti e opere (secondo quanto abbiamo detto poco sopra). E’ tanto evidente che il Sinodo stesso si è posto un quesito: dove collocare la svolta della conversione ecclesiale di cui tutti avvertono la necessità?

Certamente occorre notare che il divorzio denunciato non basta a dare ragione di tanti fallimenti e inadeguatezze della chiesa. Esso stesso è peraltro facilmente spiegabile, almeno in parte, attraverso riferimenti di ordine sociologico e culturale. Pensiamo per un attimo ai riti che caratterizzano le nostre liturgie. Essi sono legati a culture precedenti, ed alcuni riferimenti a quelle culture sono ormai divenuti incomprensibili. Tra i tanti esempi prendiamo quello dell’offertorio durante la Messa. Il rito appartiene ad un epoca in cui prevaleva un tipo di società bucolica, rurale, e doveva avere un duplice senso: i contadini e gli allevatori andavano incontro alle necessità del clero offrendo loro il frutto delle loro fatiche; ma d’altra parte il rito aveva anche il compito, ben più importante, di far entrare nella liturgia eucaristica l’intero creato, così come il Signore lo aveva donato all’uomo e così come l’uomo lo aveva trasformato. Un’eco di tale significato lo ritroviamo nella prima preghiera eucaristica, laddove il sacerdote, dopo la consacrazione ricorda l’offerta che il popolo sta facendo: “In questo sacrificio, o Padre, noi tuoi ministri e il tuo popolo santo celebriamo il memoriale della beata passione, della risurrezione dai morti e della gloriosa ascensione al cielo del Cristo tuo Figlio e nostro Signore; e offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza”.

Sembra superfluo notare che i nostri offertori sono diventati semplici “collette”, anche queste abbastanza importanti per la vita della comunità, ma inefficaci per esprimere la densità di significato teologico che ha l’offerta dei prodotti della terra e dei manufatti dell’uomo. C’è da chiedersi se l’attuale rito di offertorio ha un senso durante la Messa, o non andrebbe invece adattato, rivisto, riproposto all’attenzione dei fedeli riportando alla luce lo splendore del suo significato d’una volta. Ma, attenzione, non si tratta che di un solo, piccolo, banale esempio dell’influenza che la cultura può avere sugli stessi riti e del motivo per cui alcuni di essi sono diventati incomprensibili perché non parlano più il linguaggio degli uomini di oggi.

Se il problema dell’incapacità della chiesa di tradurre il mistero pasquale nella vita degli uomini risiedesse solo nel lamentato divorzio tra chiesa e uomo, celebrazione e vita, riti e opere, se il problema fosse solo questo, per assurdo sarebbe sufficiente adeguare un rito perché le persone compiano le opere corrispondenti (p.e., cambiare l’offertorio in modo tale che i fedeli si mostrino disposti ad offrire a Dio ogni ambito della loro vita; oppure cambiare i riti di comunione e avere comunione in una parrocchia: ci pensate!) – se ponesse solo o prevalentemente a livello culturale (di linguaggio, di mezzi di strutture di gestione) allora le cose sarebbero davvero semplici: qualche scuola o ora di formazione in più, l’uso di strumenti audiovisivi in forma massiccia, la moltiplicazione dei consigli d’ogni genere, qualche ritocco e tutto sarebbe risolto. Un po’ polemicamente (anche se con benevolenza) dico che anche molti operatori pastorali sono vittima di questo spirito di rinnovamento, assolutamente inadeguato perché partendo da premesse giuste si spinge nella direzione sbagliata.

Ad un gradino superiore

La soluzione alle enormi questioni sollevate dalla scristianizzazione e dalla secolarizzazione di intere fasce di popolazione, nel mondo e nella nostra città, non si trova nel cambiare i linguaggi, nel proporre catechismi sempre più elettronici e metodi multimediali interattivi sempre più sofisticati; non si trova nemmeno nel formare fio fiore di operatori con lunghi tirocini e studi (che hanno anche la tendenza a clericalizzare un po’ troppo i laici; sull’argomento torneremo oltre); nemmeno è possibile attendersi miracoli dalle strutture, nuove o antiche, di gestione ecclesiale.

Tutto questo è importante, e dal momento che la chiesa lo chiede e lo propone io dico: sono veri mezzi di santificazione e di rinnovamento, e perciò utili e doverosi (non si può tralasciare nessun mezzo se si sa che è buono, anche se i risultati conseguibili con esso fossero inferiori ad un altro). Il problema allora che spinge, deve spingere alla conversione si colloca ad un gradino superiore: è il problema del rapporto mistero/chiesa, cioè del mistero pasquale/celebrazione, ed infine della fede/riti. Oggi l’uomo non coglie più tale rapporto, tale nesso, e perciò non incontra più Cristo, e dunque non è più spinto a far entrare nella sua esistenza i valori che la fede gli propone. La chiamata alla conversione, la necessità del cambiamento, perciò, riguarda con grande puntualità il modo in cui chiesa, celebrazione del mistero e riti della fede entrano in rapporto con Dio.

Stiamo entrando in un campo minato, me ne rendo conto. Se dovessi stingere qualche conclusione in base a quanto finora enunciato, dovrei azzardare: la compagine visibile del corpo mistico non funziona, è da convertire. La chiesa, i preti, i sacramenti, le suore, i riti, le processioni, la predicazione, gli esercizi spirituali, le liturgie… in questa furia distruttiva non salvo nulla, tutto da convertire.

Questa conclusione spaventa, Non era un caso che fin dall’inizio dicevo: prepariamoci, forse scopriremo che il Signore ci chiede qualcosa di grosso. Debbo dire che per me è chiaro: questa chiesa, così com’è oggi in molti suoi aspetti, non funziona secondo la sua missione. Il CVII e il Sinodo Romano (SR) hanno dischiuso un cammino di rinnovamento che però è stato intrapreso solo parzialmente o appena iniziato, e solo con poco coraggio. Mi ritorna in mente la vocazione di Geremia, un giovane profeta ìmpari di fronte alla missione di cui è consapevole per se stesso, un giovane profeta che il Signore rende un “muro di bronzo per questo popolo”. Solo così Geremia riuscì ad affrontare con coraggio l’ostilità incontrata dalle sue parole, parole di fuoco messe sulle sue labbra dal Signore stesso.

Accettare e fare novità

Conversione: questa parola deve risuonare nei nostri cuori prima ancora che nelle nostre orecchie. Noi siamo invitati alla conversione perché nella Chiesa qualcosa cambi, realmente, e non si ricorra più ad espedienti e sotterfugi per fare in modo che le cose rimangano le stesse, Se vogliamo, la conversione, oltre alle caratteristiche accennate, ne presenta un’altra, la dimensione “sacramentale”. Se un cristiano si converte, tutta la chiesa si converte un poco. Quel cristiano convertito diventa “sacramento” della novità che attende anche il resto della chiesa.

Oggi noi dobbiamo domandarci se veramente vogliamo che la nostra chiesa, le nostre comunità si convertano. I nostri preti, i nostri gruppi, le nostre attività… dobbiamo chiederci se siamo veramente disposti ad accogliere la novità sempre creativa della volontà di Dio. Se siamo disposti, cioè, ad essere veri operatori pastorali, rifiutando evidentemente a priori il pericolo di trasformarci in “operatori di iniquità”, nell’assumere consapevolmente la volontà del Padre nostro che è nei cieli.

Questo comporta necessariamente l’abbandono di pregiudizi, di mentalità, di schemi precostituiti per rendersi aperti ad accettare una “crisi” positiva di quegli elementi che ritenevamo intangibili, e che invece dimostrano di subire, come ogni realtà, l’usura del tempo. La chiesa, di fatto, non consta solo di immutabili elementi trascendenti, ma come è pacificamente riconosciuto da tutti, anche di più cangianti elementi umani. Ed è su questi che occorre operare una continua “innovazione”, occorre fare novità.

Lo stesso LS, presentando nell’introduzione i lavori, le intenzioni e gli obiettivi del SR, presenta anche la sua concezione di Chiesa: “La chiesa è il popolo nuovo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, la città nuova che vive nel mondo pur non essendo del mondo. Ha un’identità e una missione che la rendono unica e originale:

comunità di coloro che

non per loro merito

ma per grazia di Dio

sono chiamati

ad accogliere la luce che è Cristo

a lasciarsi

cambiare

e convertire da essa

a renderle testimonianza

davanti a tutti gli uomini” (LS, 1).

“Alle soglie del terzo millennio cristiano – prosegue il LS,2 – … essa per prima è chiamata a vivere il grande impegno della nuova evangelizzazione”.

La novità è elemento decisivo dell’impegno sinodale e postsinodale. E aggiungiamo: della conversione in senso più generale. La novità è la caratteristica primordiale del messaggio evangelico. esso è il vino nuovo che deve essere versato in otri nuovi (cfr Mt 9,17). E’ interessante dove troviamo collocato questo appunto di Cristo in Matteo. Gesù ha predicato le beatitudini, ha fatto miracoli, ha chiamato i primi discepoli, e nessuno ha detto nulla; ma appena egli si è seduto a tavola con i peccatori – cosa troppo “nuova” per la mentalità dell’epoca! – nascono malumori e critiche, che fanno concludere al Signore: il vino nuovo va in otri nuovi, e chiunque ha bevuto del vecchio non vuole assaggiare il nuovo.

Si spiega in parte anche il motivo della visione della chiesa da parte di Giovanni nella conclusione dell’apocalisse: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E Colui che sedeva sul trono disse: Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,1-5).

“Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Karol Wojtila predicò da cardinale un corso di ES in Vaticano, nel 1976 a papa Paolo VI. Il corso è poi divenuto un libro: “Segno di contraddizione. Meditazioni” (Vita e pensiero, Milano 1977). Nel punto in cui il card. Wojtila parla della redenzione, che come sappiamo è una categoria fondamentale del suo pensiero, dice: Gesù ha abbracciato tutto per restituire tutto al Padre suo. E nell’atto di quella Restituzione, nell’atto di quel Sacrificio Egli ha fatto tutto nuovo (cfr Ger 31,35; Es 35,36). Esse, nova facio omnia… E’ un punto della storia, in cui tutti gli uomini vengono, per così dire, concepiti di nuovo ed entrano in una traiettoria nuova del disegno di Dio, che il Padre ha preparato nella verità della parola e nel dono dell’amore. Punto in cui la storia dell’uomo incomincia di nuovo indipendentemente, se così si può dire, dai condizionamenti umani. Questo punto appartiene all’ordine divino, al modo divino di vedere l’uomo e il mondo. Le categorie umane del tempo e dello spazio sono quasi del tutto secondarie” (p. 99).

Io sono personalmente e sinceramente convinto che anche la nostra chiesa si trova oggi ad un crocevia della storia, ve ne rendete conto?, si trova in quel punto in cui decidere (come la persona dell’esempio della macchina fatto all’inizio) di decidere se andare avanti così o se abbandonarsi fiduciosamente alla novità di Dio, cambiando direzione. In questo cambiamento ciò che più conta è che la nuova Gerusalemme, la nuova chiesa non sale dall’uomo a Dio, non viene fatta – e come potrebbe essere? – dalle forze umane, ma scende dal cielo, da Dio verso l’uomo come dono da parte del Signore all’uomo, e come chiesa che piace al Signore stesso, preparata da lui per se stesso. Questa è la novità più essenziale che noi siamo chiamati ad accettare e a fare.

Il cammino sinodale è un cammino di popolo

Caratteristica fondamentale del cammino sinodale è stata, ed è ancora, il “camminare insieme”. Camminare insieme, lungo le vie della storia e le vie della città; camminare insieme pastori e laici; camminare insieme con obiettivi comuni e tappe obbligate. Camminare insieme un cammino di popolo. Roma, grazie al SR, si riscopre chiesa dalle mille sfaccettature, dunque ricca di risorse e di energie, finalmente disposta ad affrontare unita le formidabili sfide di questo terzo millennio cristiano.

Come in un qualsiasi altro popolo in movimento – e pensiamo per un attimo all’Israele antico mentre abbandona l’Egitto; ma pensiamo anche alle popolazioni Tuzi o agli abitanti dell’ex-Yugoslavia, costretti dalla guerra ad un esodo forzato – anche nella chiesa vi è qualcuno che corre più avanti, che ha fretta di arrivare, che vede già all’orizzonte la terra promessa e incita gli altri, i più lenti, a non perdersi d’animo, ad andare avanti, lungo quella strada nuova, sconosciuta. E vi è qualcuno che rimane più dietro, sono i più deboli, gli anziani che si muovono a fatica, i bambini dalle gambette troppo piccole, dalla tanta voglia di giocare, dalla stanchezza facile, le donne, che debbono accudire i figli e spesso farsi carico delle molteplici necessità della famiglia, i malati che debbono essere portati dai più forti e dai sani. Il grosso del popolo nel mezzo segue, faticosamente, la via indicata.
La metafora del popolo, anche se detta così semplicemente, illustra bene la situazione reale della chiesa di Roma, nella quale pure esistono diverse componenti:

  1. le più sane, che corrono avanti, “profetiche”
  2. le malate, paralizzate entro schemi inossidabili
  3. le deboli, che vorrebbero, ma non possono
  4. le masse, pronte a seguire la testa del popolo ovunque vada, ma lente.

Camminare insieme: il SR ci ha rivelato la necessità di fare un’andatura che consenta a tutti di muoversi allo stesso tempo, un’andatura che segua il passo del più lento per non perdere nessuno.

Per non perdere nessuno

Questa deve essere la costante preoccupazione di una chiesa: non perdere nessuno. Preoccupazione che già fu di Cristo: “Padre, quando ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che tu mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione” (Gv 17,12). Nelle parole di Gesù si coglie un senso di soddisfatto compiacimento: ho conservato, ho custodito, nessuno si è perduto. Anche nel momento in cui accenna alla figura del figlio della perdizione (quasi certamente Giuda) Gesù non mostra cedimenti: egli si è perduto perché, come figlio della perdizione, non avrebbe mai riconosciuta giusta nessuna strada. Qualsiasi proposta, qualsiasi scelta, qualsiasi novità egli l’avrebbe presa e lasciata, perdendosi dietro le sue fantasie. Al figlio della predizione risulta impossibile seguire Cristo perché egli è già in partenza su strade diverse da quelle del Signore.

Come fare a non perdersi? Certamente occorre riconoscersi anzitutto all’interno di un popolo (la comunità) dal quale non allontanarsi per avventure senza esito. In secondo luogo occorre ricalcare le orme di Cristo morto e risorto (il mistero che scandalizza il figlio della perdizione), sapendo che ognuno di noi va verso l’incontro con il Signore (il giorno) e che perciò è chiamato fin da ora ad anticipare ed annunciare agli uomini il destino dell’umanità (l’evangelizzazione).
Da una parte, allora, come operatori pastorali anche noi ci troviamo a dover vigilare su noi stessi, perché nel seguire le orme di Cristo continuiamo ad appartenergli, nella misura in cui facciamo la volontà del Padre nostro che è nei cieli; dall’altra ricade sull’intera compagine ecclesiale il compito oneroso di non perdere nessuno, costringendo tutti coloro che si dicono cristiani a fare un serio esame di coscienza al riguardo, per verificare nei fatti l’adesione a tale precisa missione ricevuta dal Signore.

Ripercorriamo, quindi, insieme le quattro tappe che abbiamo indicato (comunità, mistero, giorno ed evangelizzazione) lasciando emergere da ciascuna di esse lo slancio del rinnovamento preconizzato dal SR come segno di una conversione ecclesiale sempre in atto.

Dalla comunità alla comunità cristiana

Il passaggio da una “comunità” anonima e indistinta ad una comunità dal carattere propriamente “cristiano” è una delle conversioni richieste alla chiesa di Roma per essere fedele alla missione del Signore di non perdere nessuno. In tale passaggio noi possiamo cogliere un primo spunto di riflessione per la nostra vita spirituale che deve risultare premessa indispensabile di ogni rinnovamento futuro. E’ il vangelo di Luca a fornirci la materia di riflessione.

Gesù prese con sé gli apostoli e si ritirò verso una città chiamata Betsaida. Ma le folle lo seppero e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlar loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si accostarono dicendo: “Congeda la folla, perché vada nei villaggi e nelle campagne dintorno per alloggiare e trovare cibo, poiché qui siamo in una zona deserta”. Gesù disse loro: “Dategli voi stessi da mangiare”. Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente”. C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai discepoli: “Fateli sedere per gruppi di cinquanta”. Così fecero e li invitarono a sedersi tutti quanti. Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono e si saziarono e delle parto loro avanzate furono portate via dodici ceste (Lc 9,12-17).
Il brano ci mostra un passaggio chiaro: vi è una massa indistinta (circa 5000 uomini che sono stati accolti da Cristo, ai quali egli ha insegnato e curato i malati) che ha fame. Gli apostoli sono spaventati dal numero, sanno di risultare inadeguati (dodici in tutto) alle esigenze dei presenti, vorrebbero che il Signore rimandasse la folla. Ma Cristo non ha mai perduto nessuno di quelli che il Padre gli ha inviato. No, il Signore è di un’altra idea: “Fateli sedere a gruppi di cinquanta”. E’ lui stesso a dare indicazioni operative che portano la massa indistinta e anonima ad assumere una consistenza “corpuscolare”, “cellulare”, diventando una realtà composita di circa 100 gruppi diversi. A questo punto è facile per lui, attraverso i discepoli (e non solo gli apostoli), raggiungere tutti quanti.

Possiamo dire che il comportamento di Cristo suggerisce un indizio importante sul quale dobbiamo riflettere non solo a livello pastorale e comunitario, ma anche a livello spirituale: occorre rifare il tessuto della comunità cristiana.

Rifare il tessuto della comunità cristiana implica il muoversi in tre direzioni:

  1. ripartendo dal piccolo. Il piccolo gruppo, la comunità a dimensione umana, nella nostra città frenetica e disaggregante, costituisce un luogo privilegiato di incontro con il Signore attraverso i fratelli. Se ci si domandasse perché il proliferare delle sette e di gruppi spontanei (per fortuna non molti, benché il fenomeno sia da non sottovalutare), tra i tanti motivi dobbiamo considerare pure quello, forte, della ricerca di rapporti più umani, più profondi, più “caldi” e immediati. Il clima di familiarità che garantisce il piccolo gruppo non può garantirlo il grande gruppo. D’altra parte è solo nel piccolo gruppo che una comunità può effettuare una verifica dei cammini ecclesiali. Risulta evidente che un’assemblea costituita da diverse centinaia di persone può solo con difficoltà riconoscere l’adeguamento del proprio cammino e dei diversi itinerari specifici alla direzione dell’intera compagine ecclesiale.
  2. andando verso la società, umana ed ecclesiale. Non a caso uno dei passi più interessanti del SR nota che nella prospettiva della nuova evangelizzazione “urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali” (LS. 23). Società umana e società ecclesiale sono tra loro mutuamente implicate, anche se distinte. E se la nuova evangelizzazione chiama i cristiani di Roma a ricostruire il tessuto umano della città, essi interpretano tale invito come un invito a partire dalla ricostruzione del tessuto della chiesa, avendo davanti agli occhi il bene di tutto gli uomini.
  3. riscoprendo l’importanza del sacerdozio comune dei credenti. Nella prospettiva di rifare il tessuto cristiano della comunità ecclesiale si trova l’urgenza di riscoprire o di comprendere sempre meglio la natura e l’importanza del sacerdozio comune. Al sospetto che in realtà molti laici, e molti pastori non completamente avvertiti dell’ampiezza della questione, sottovalutino il potere e il profilo del tutto originale del sacerdozio comune si giunge attraverso una molteplicità di segnali. Uno di questi, molto forte, è la tendenza che si sta radicalizzando nella chiesa, di “clericalizzare” i laici, facendoli diventare un supporto da sacrestia dell’ordinario lavoro pastorale. In realtà la rivalutazione del sacerdozio comune impone di comprendere che vi sono delle specificità all’interno del popolo di Dio le quali debbono intepretarsi come esclusive. Lo stesso SR al riguardo afferma: “Dare concreta e adeguata attuazione a questo insegnamento del CVII [sul sacerdozio comune] è di importanza decisiva per la nuova evangelizzazione, perché soltanto [la sottolineatura è nostra] attraverso i laici la comunità cristiana di Roma, con la grazia di Dio, può penetrare tutto lo spessore vivo della città e permearlo con il fermento del vangelo” (LS, 20). Sottolineo il “soltanto”: significa che nessun altro, certamente non i pastori, può sostituirsi ai laici nel penetrare la vita sociale della città con il fermento del vangelo. Questa penetrazione è un vero atto sacerdotale, allo stesso titolo, anche se in maniera diversa, di quello esercitato da un presbitero che consacra l’eucaristia o che assolve dai peccati. Il pericolo della clericalizzazione del laicato, dunque, si insinua proprio tra le pieghe della comprensione della missione sacerdotale come esclusiva dell’ordine sacro. Sembrerebbe che i laici esercitino il loro sacerdozio solo nel momento in cui fanno catechismo (ma anticamente questo compito era esclusivo del vescovo), oppure visitano i malati portando l’eucarestia (ma anticamente tale compito era assolto dai diaconi), o esercitino nella chiesa funzioni particolari. Al contrario, il sacerdozio comune del fedeli per i laici deve significare la consacrazione del mondo a Dio Padre nelle opere che quotidianamente essi sono chiamati a svolgere in famiglia, sul posto di lavoro, tra gli uomini.

Il SR non si nasconde che esistono numerose e gravi difficoltà per cui le comunità ecclesiali di Roma debbono intraprendere un cammino di conversione e di rinnovamento, e ne indica tra le più urgenti una che mi pare sia degna di essere menzionata e che il LS sviluppa in tal modo: “Dal punto di vista della testimonianza e dell’annuncio a chi è lontano da Cristo e dalla chiesa [e vale la pena ricordare che a Roma praticamente tutti gli abitanti sono battezzati, ma di fatto sembra che tra di essi alcuni si siano “perduti”], vanno ricordate la fatica a tenere il passo con i rapidi cambiamenti della città, a individuare i modi per andare incontro alle nuove esigenze della gente, e la non piena e adeguata valorizzazione delle strutture e delle esperienze già esistenti o la difficoltà a proporne di nuove e più opportune. Si segnalano inoltre la persistenza di una certa immagine di parrocchia poco proiettata verso la testimonianza e la missione e la carenza di coordinamento tra le diverse realtà pastorali e i differenti operatori” (LS, 33; le sottolineature sono nostre).

Mi sembra importante sintetizzare in un quadro visivo i risvolti di questa difficoltà dalle molteplici sfaccettature, che potrebbe andare complessivamente sotto il nome di “mancata missione”:

  1. fatica a tenere il passo con i cambiamenti della città
  2. fatica a individuare i modi per andare incontro alle esigenze della gente
  3. difficoltà a proporre nuove e più opportune esperienze
  4. persistenza di una immagine della parrocchia chiusa in se stessa
  5. carenza di coordinamento tra le diverse realtà ecclesiali.

E’ rispetto a tutto ciò che il SR invoca una vera e propria conversione.

Dal mistero al mistero pasquale

Del mistero abbiamo parlato a lungo e non torneremo su quanto detto. Qui mi preme sottolineare un concetto che deve fare da cardine in una rinnovata visione della missione della chiesa e in un rinnovato modo di intendere la propria testimonianza cristiana. Il concetto è che tutto quanto fa la chiesa è sempre e comunque rivelazione, memoriale, riattuazione del mistero pasquale di Cristo. Il primo passo da compiere, perciò, è di sganciare il mistero pasquale di Cristo dall’univocità con la quale esso è stato ritenuto di esclusiva pertinenza sacramentale (dei sette sacramenti, cioè). Non solo nell’eucarestia, non solo nel battesimo, non solo nell’unzione degli infermi si fra presente il mistero di Cristo, ma in ogni azione, ogni azione della chiesa, che vive impregnata di quel mistero.

Si tratta, credo io, di un cambiamento, di una conversione richiesta non solo dalla natura della cosa in sé, ma ricordata dalla scrittura come caposaldo della credibilità del mistero stesso. Se infatti il mistero di Cristo da nascosto è divenuto “pasquale” è perché ha compiuto un passaggio entrando nella storia, nella vita dell’uomo, permeando dall’interno la realtà umana della presenza di Dio; oggi si rischia di avere il passaggio inverso, cioè il mistero torna ad essere nascosto, torna ad essere “mistero”, perché chi avrebbe il compito di rivelarlo (i cristiani) lo hanno relegato in un ambito tanto ristretto da risultare incomprensibile ed inutilizzabile alla stragrande maggioranza del genere umano.

Si è verificato quello che temeva Giacomo quando scrivendo la sua lettera lanciava un avvertimento particolarmente severo.
Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede; se non ha le opere è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demoni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza calore? Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così la fede senza le opere è morta (Gc 2,14-26).

L’apostolo è convinto che Dio rimane oscuro, “misterioso” (cioè che la fede non abbia nessun potere di rendere giusti) se la comunità dei credenti non opera per manifestarlo, e a vari livelli, non solo a livello sacramentale; l’esempio fatto da Giacomo, anche questo da non prendere in modo esclusivo, tende a sottolineare l’importanza dell’azione concreta nella credibilità della fede.
Lo stesso SR interviene al riguardo e precisa: Il mistero pasquale di Cristo si rende continuamente presente e operante nella Chiesa, ma per accedervi è necessario entrare nell’itinerario della conversione e della fede, essere associati alla morte e risurrezione di Lui mediante i sacramenti dell’iniziazione, partecipare assiduamente alla vita della comunità ecclesiale che ha come centro la parola, l’Eucaristia e la preghiera. Non può esistere un’autentica vita liturgica senza il profondo legame tra la parola e la conversione, la fede e i sacramenti, la celebrazione e la vita, in una dimensione di responsabilità personale e di comunione fraterna (LS, 44).

La dimensione di responsabilità personale e comunione fraterna, che il LS riporta a conclusione della citazione, è l’ambiente nel quale si muove la rivelazione del mistero pasquale di Cristo, celebrato nella liturgia e nella vita. Tale celebrazione, come tutti sanno, possiede due direzioni, l’una ascendente di culto a Dio. Celebrando i sacramenti, soccorrendo i poveri, coordinando le attività pastorali, animando la comunità umana, il cristiano rende a Dio il culto che Cristo ci ha conquistato con la sua missione di Figlio. L’altra direzione è quella discendente di santificazione dell’uomo. Ripetiamo le stesse parole: celebrando i sacramenti, soccorrendo i poveri, coordinando le attività pastorali, animando la comunità umana (animazione del sociale, del politico, del culturale), il cristiano viene santificato e a sua volta santifica il mondo e gli altri uomini.

La dimensione del mistero solo così può acquistare un valore e un significato reale, conducendo gli uomini all’incontro salvifico ed esperienziale con il Signore crocifisso e risorto.

Dal giorno al giorno del Signore

Entriamo ora in un terreno delicato, soprattutto in relazione al fatto notorio che l’istituzione della Domenica è entrata in una grave crisi da un lungo periodo di tempo. Il cristiano, quando sente parlare del giorno del Signore non può fare a meno di associarlo alla Domenica.

Certo, è necessario precisare: la Domenica non appartiene al Signore più di quanto non gli appartengano gli altri giorni della settimana. E se un tempo la Domenica poteva avere una rilevanza particolare a motivo della celebrazione liturgica del mistero pasquale nella sinassi eucaristica, con l’affermazione della celebrazione quotidiana anche questa rilevanza è stata assoggettata ad erosione. Il fenomeno sotto gli occhi di tutti l’anticonversione che ha caratterizzato il giorno del Signore. Anziché essere tale giorno, la Domenica appunto, a fornire agli altri giorni della settimana un senso e un verso (la settimana è orientata verso la Domenica) sono stati i giorni feriali a caratterizzare la Domenica, per cui la settimana ha finito per concentrare la ferialità delle azioni umane proprio nella Domenica, giorno del Signore, che è divenuto un giorno come tutti gli altri.

Ma tale fenomeno di anticonversione ha alla sua base una ragione forte che spesso viene taciuta o dimenticata. Solo a partire dalle parole di Gesù nei vangeli possiamo comprendere appieno il valore e il significato del giorno del Signore.

Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa, l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà. Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto? Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! In verità vi dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti (Mt 24, 37-51).

Occorre che i cristiani ricuperino coraggiosamente il senso di vigilanza implicito nella celebrazione del giorno del Signore: verrà un giorno in cui, sia a livello individuale, sia come comunità umana, ci troveremo a confrontarci con Signore. Occorre avere il coraggio di dire con Cristo che il giorno del Signore è terribile, opera un discernimento: un uomo verrà preso e un altro lasciato, e non sappiamo con esattezza indicare il loro destino. Occorre dibadire con coraggio che la Domenica ci ricorda la responsabilità di appartenere al Signore in tutto ciò che facciamo.

Questo senso di vigilanza possiede due risvolti. Il primo riguarda l’atteggiamento di attesa. Se un cristiano è felice di andre incontro a Cristo (o meglio, che Cristo vada incontro a lui) non potrà sottrarsi dal manifestare la gioia di questo incontro. Uno dei primi caratteri disitntivi del giorno del Signore è che chi lo attende consapevolmente lo attende senza timore, anzi nella gioia, nella festa. Passare dalla celebrazione del giorno a quella del giorno del Signore significa passare di continuo ad un clima di festa. Esplicitamente a questo si richiama il documento della CEI “Il giorno del Signore” del 15.7.1984, laddove dice: “Non potranno mai venire meno, nella Domenica del cristiano, quei caratteri e quello spirito che hanno fatto di questo giorno il signore dei gionri. Perché tutto questo avvenga, dovremmo essere capaci di restituirgli il carattere più vero, più proprio: il volto gioioso della vera festa. Probabilmente non basterà curare m,eglio la celebrazione eucaristica; e nemmeno punteggiare la giornata di momenti di preghiera e nemmeno fare visite ai conoscenti, ai malati, al cimitero. Tutto ciò è necessario, ma non basterà. E’ necessario tornare a “far festa”. E “festa” è letizia, volontà di stare insieme, gioia di parlarsi e di prolungare l’incontro, è convivialità, è condivisione, è riposo, è anche sano divertimento. Tutto ciò è autentico quando si radica nella gioia cristiana; nessuna festa è vera, se non si esprime nella letizia che viene dalla comunione con Dio, che edifica e sorregge la comunità ecclesiale, che è segno di speranza da dare al mondo” (nn. 39-40).

Il secondo risvolto concerne il compito degli operatori pastorali, ivi compresi i pastori della comunità. Essi possono considerarsi come il servo fidato che il padrone di casa ha preposto ai suoi domestici “per dare loro il cibo al tempo dovuto”. Un servo malvagio è quello che percuote i suoi subordinati, e certamente noi stessi per primi dobbiamo stare attenti a che i nostri giorni, il nostro servizio quotidiano nella comunità ecclesiale non si trasformi in una sorta di “percossa” verso i nostri fratelli. Imporre ritmi frenetici alle comunità, o comunque non rispettare i suoi ritmi, sopraffare le persone con le esigenze del lavoro pastorale, piegare alle necessità di moltiplicati sforzi di coordinamento, “depredare” i propri fedeli della Domenica: tutto questo deve essere considerato ubriacatura e malversazione.

Al servo fedele, ripetiamo, compete di dare il cibo al tempo dovuto. Ciò significa essenzialmente riscoprire il giorno del Signore come “nutrimento” a vari livelli, che il SR mette in luce come un’esigenza profonda dell’uomo teso ad esprimere le sue potenzialità: In un ritmo di vita assillato dal successo, dall’attivismo e dal consumo, dall’avere e dal fare, più che dall’essere e dal donare, attraverso la celebrazione del giorno del Signore, la Chiesa richiama l’uomo alle sue più profonde esigenze e potenzialità (LS, 48).

E’ sempre lo stesso SR a presentare la Domenica nei suoi tre aspetti costitutivi: “La Domenica è, anzitutto, giorno di lode e di ringraziamento a Dio Padre, Creatore e Signore di ogni cosa, al Figlio incarnato, morto e risorto per farci figli di Dio, allo Spirito Santo, che vivifica e trasfigura la nostra esistenza. Proprio per questo, come insegna la Sacra Scrittura sin dalla Genesi e come conferma la bimillenaria esperienza della Chiesa, è giorno dell’uomo, in cui gli sono offerti la possibilità di crescere in autentica umanità mediante l’incontro sereno e gioioso con i propri familiari e gli amici, il contatto con la natura e l’ambiente, e un recupero di forze spirituali e fisiche. Nell’ottica specificamente cristiana, poi, la Domenica diventa anche, per eccellenza, il giorno della chiesa. Essa, infatti educa e fa rivivere la dimensione comunitaria della fede nella mutua accoglienza e nel servizio reciproco tra i credenti che, attorno all’unica mensa, esprimono visibilmente e vivono il loro essere uno in Cristo, come molte membra dell’unico corpo (cf. 1Cor 12,12)”.

Questi tre aspetti costitutivi della Domenica ci suggeriscono l’altra caratteristica fondamentale del giorno del Signore, oltre alla festa per l’attesa: la Domenica è “tempo donato”, tempo donato da Dio agli uomini e tempo donato dagli uomini a Dio. Se si recupera il senso di questo dono inserito nel senso della festa sarà inevitabile ripensare la Domenica

  1. uscendo dall’ottica puramente cultuale/sacramentale. In particolare, e proprio in quanto ogni azione della chiesa è celebrazione del mistero pasquale di Cristo, bisognerà ripensare a santificare la festa affiancando alla celebrazione della sinassi eucaristica, che rimane il vertice di ogni celebrazione domenicale, altre forme di celebrazione (della parola di Dio, della liturgia delle ore, della riconciliazione sacramentale, dell’evangelizzazione…) anche alternative alla Messa, nelle quali la chiesa continua e porta a compimento l’opera salvifica di Cristo rivolgendosi con esse a specifici gruppi di persone che educa con gradualità ad accostarsi per celebrare la Messa.
  2. uscendo dall’ottica puramente ricreativa/defatigativa. La Domenica, per un cristiano, è certamente l’ingresso nel giorno del riposo, del riposo escatologico, ma riposo non è esattamente sinonimo di inattività. Anzi, si può concepire in riposo esattamente come un cambio di attività. Perciò la Domenica rappresenta per un credente il tempo donato a quanti, parenti, amici, fratelli in Cristo, sono da servire “dando loro il cibo al tempo dovuto”. Comunione fraterna, visita agli infermi, divertimento con i più piccoli, organizzazione di attività ludiche e sportive… rientrano nello spirito di un tempo dovuto in dono che converta la Domenica da giorno a giorno del Signore.

Dall’evangelizzazione alla nuova evangelizzazione

Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28.16-20).
Con questo episodio si conclude il vangelo di Matteo, e significativamente solo con le parole di Gesù, che garantisce la sua continua assistenza ai discepoli. Il comando di “ammaestrare tutte le nazioni (“genti”)” vuol dire infatti farsi carico in ogni tempo e in ogni cultura del peso di rendere comprensibile il vangelo agli uomini. Si tratta di quella realtà dell’evangelizzazione che passa sotto il nome di “inculturazione”. Vi sono elementi che vanno aggiornati in relazione all’aggiornamento culturale. Il SR lamenta che la chiesa di Roma non sempre è stata capace di fare tale aggiornamento; l’evangelizzazione, che pure vi è stata e continua ad esservi, non ha dimostrato di avere la forza di diventare “nuova”.

Quando Giovanni Paolo II presentò la sua idea di evangelizzazione disse che era necessario che fosse nuova “nel fervore, nuova nei metodi e nuova nelle espressioni”. Ciascuno di questi tre elementi comporta una inculturazione nella mentalità corrente, che sostanzialmente significa:

nuova nel fervore:

una predicazione non piatta, non scialba e scontata, ma coinvolgente ed attuale (Raniero Cantalamessa accosta a questo elemento richiesto dal papa l’immagine di Giovanni il Battista)

nuova nei metodi:

una predicazione non scolastica, che abbia la presunzione di insegnare dall’alto di una cattedra, ma una predicazione che si ponga sulle stesse strade (metà – odos) che percorrono gli uomini di oggi

nuova nelle espressioni:

una predicazione che si appropri dell’universo simbolico dell’uomo contemporaneo e che traduca in linguaggi accettabili le verità della fede.

Ma nuova evangelizzazione non significa nuovi contenuti. Il contenuto della predicazione rimane lo stesso, quello che da sempre è stato capace di trasformare gli uomini e le culture e di spingere entrambi a servire il Dio Padre di Gesù Cristo. Il SR avverte che: La nuova evangelizzazione si esprime nell’invito a credere all’amore di Dio rivelato nella croce e risurrezione di Cristo (cf 1Gv 4,14-16), a rifare con questo amore – dono dello Spirito – il tessuto di comunione della comunità ecclesiale e quindi il tessuto cristiano della stessa società umana, a realizzare così la svolta verso una pastorale maggiormente missionaria: la nuova evangelizzazione investe dunque tutte le dimensioni della vita e della pastorale della Chiesa (LS, 19).

La svolta richiesta dalla nuova evangelizzazione è di rifare con l’amore di Dio il tessuto di comunione della comunità cristiana e della società umana, come già osservato sopra, ma principalmente a comprendere la pastorale entro un’ottica missionaria: occorre uscire dalle nostre chiese, dalle nostre sacrestie, è necessario che i cristiani investano con la potenza dell’amore di Dio coraggiosamente ogni angolo dell’esistenza intramondana! La conversione ad una nuova evangelizzazione, come abbiamo già accennato, non può non tenere conto della necessaria conversione della chiesa che da clericale deve assumere una fisionomia sempre più “laicale” (essere di popolo, in mezzo al popolo, uscire verso la città degli uomini). E’ sempre il papa nell’enciclica sui laici a ricordare l’urgenza e l’importanza dell’impegno laicale nella vita della chiesa, e a lui si ispira il SR: “Occorre che tutta la comunità ecclesiale prenda coscienza, anche medianti gli itinerari di formazione, del significato e del valore specifico della vocazione laicale e della sua indole secolare, per cui l’essere e l’agire nel mondo sono per i fedeli laici una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche specificamente teologica ed ecclesiale (CL, 15). Ciò significa che l’azione dei laici nel mondo, alla luce della dottrina sociale della chiesa, è parte integrante della nuova evangelizzazione” (LS, 27).

Se le parole non mi ingannano, indole secolare vuol dire che non è proprio del laico il supporto – oggi divenuto però indispensabile – alle attività pastorali; l’habitat naturale dell’esercizio del suo sacerdozio è il mondo, il saeculum. Tale esercizio non deve essere inteso come un’espressione puramente antropologica e sociologica, come dire: se appartieni alla categoria umana e sociale dei laici allora devi fare determinate opere. Esso invece presenta una caratteristica propriamente teologica ed ecclesiale, come dire: è perfettamente bilanciata la proporzione: “Come il ministro ordinato sta ai sacramenti, così il laico sta all’impegno nel mondo”. Il suo impegno diventa parte essenziale della nova evangelizzazione perché è teso a riordinare il mondo secondo il disegno del Padre.

Il SR stesso parlando della nuova evangelizzazione in riferimento ai laici ne individua i tre bersagli fondamentali da tenere sott’occhio:

  1. il bersaglio sociale: l’impegno del laico a livello politico, economico e sociale è un vero atto di evangelizzazione, anzi un vero atto sacro, che tende alla santificazione personale e comunitaria, e alla elevazione della compagine ecclesiale oltre e insieme a quella umana
  2. il bersaglio della questione femminile: la donna deve essere posta al centro dell’attenzione della nuova evangelizzazione, perché essa rappresenta il crocevia di problemi annosi e spinosi, spesso dimenticati o sottovalutati persino nella chiesa; di qui l’invito a lasciare spazi di responsabilità intraecclesiali sempre maggiori alle donne
  3. il bersaglio della famiglia: la famiglia, intesa anche come chiesa domestica, deve rappresentare una tappa obbligata del cammino della nuova evangelizzazione, rendendo il focolare domestico una vera espressione del mistero salvifico e vitale di Cristo, attraverso il reciproco amore e servizio, e nell’unione di intenti e di preghiera.
    Conversione! Questo appello abbiamo fatto risuonare oggi, e abbiamo cercato di sondarne alcuni aspetti. Prima ancora che una serie di prodotti pastorali, il frutto della conversione consisterà nell’interiore e personale slancio di rinnovamento della propria mentalità, rendendosi aperti e disponibili alla novità, accettando di uscire con coraggio dalle nostre sicurezze, per andare incontro al mondo che attende la parola di salvezza.