La ferita trasformata e trasformante. Riconciliazione tra noi
Il presente post rappresenta il testo del secondo dei due interventi in occasione del ritiro della Parrocchia S. Gregorio VII (Roma) del 9 marzo 2019 dal titolo: “Riconciliarsi con Dio e tra noi. «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,1-5)”.
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La riconciliazione è considerata tanto importante dalla Chiesa che al tema è stato dedicato il VI Sinodo dei Vescovi (29/9/1983 – 29/10/1983) dal titolo: “La penitenza e la riconciliazione nella missione della Chiesa“. Da osservare le circostanze nelle quali maturò la scelta del tema da parte di San Giovanni Paolo II. Il card. Tomko, Segretario Generale del Sinodo, il 25 luglio 1981 scrive una lettera al card. Ballestrero, allora Presidente della CEI, annunciando il tema del Sinodo che – precisa – gli era stato comunicato dal Papa nell’udienza a lui concessa il 16 luglio 1981 nell’Ospedale Gemelli dove il Santo Padre era ricoverato (website · mirror pdf). Ricordiamo che il 13 maggio 1981 Giovanni Paolo II era rimasto vittima di un attentato riportando ferite all’addome e ad una mano. Viene dimesso nel giro di due settimane, il 3 giugno, ma il 20 giugno torna di nuovo al Gemelli per un’infezione da cytomegalovirus contratta probabilmente nel precedente ricovero. Dimesso il 14 agosto, nei quasi due mesi di ricovero venne sottoposto ad un altro intervento chirurgico per rimuovere la stomia intestinale (ricoveri di Giovanni Paolo II: website · mirror pdf).
Il tema del Sinodo matura così, nelle circostanze dolorose dell’attentato e delle sue conseguenze, fisiche, psicologiche e pastorali. Pur provato, il santo Papa pensa però al bene della Chiesa e alla sua missione attingendo dalla sua esperienza personale un Sinodo e una esortazione: riconciliazione e penitenza. È alla luce di tali circostanze infatti che occorre anche leggere l’esortazione post sinodale Reconciliatio et paenitentia del 2 dicembre 1984, che vi invito a riprendere in mano non appena ne trovate il tempo.
La Chiesa considera la riconciliazione un tema così importante che io diffido, e vi invito a diffidare, di chi lo riduce ad un brodo melenso di sentimenti ed esortazioni paternalistiche, a volte senza riflettere che non solo nella Chiesa viene avvertita la necessità di risolvere i conflitti ma anche al di fuori di essa sono stati studiati e strutturati efficaci percorsi di riconciliazione nei più diversi ambiti. Il brodo melenso dei sentimenti crea un clima irrespirabile: si fa appello all’amore, al cuore, alla tenerezza, alla comunione, al perdono, senza che a nessuna di tali parole corrisponda una reale passione per la persona ferita da riconciliare. Parafrasando una celebre espressione del Signore, verrebbe da dire che la riconciliazione è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la riconciliazione (cfr Mc 2,27). Le esortazioni paternalistiche trovano nell’ambiente ecclesiale sempre terreno fertile; poiché la comunità cristiana si confronta spesso con l’analogia della famiglia (padre, madre, figli, fratelli…) è facile travisare al suo interno il significato di autorità, che si veste di autoritarismo per mascherare l’assenza di autorevolezza, perdere di vista il senso di fini condivisi e sottoposti ad autentica verifica, confondere sviluppo dell’autonomia e dell’autodeterminazione con disobbedienza e rivolta. Ma non si può fare la riconciliazione per decreto, o perché una comunità deve per forza apparire riconciliata, o perché bisogna eliminare ogni forma di confronto per timore che nascano conflitti.
Nel mio primo intervento vi ho inviati a riflettere sulla riconciliazione con Dio. Questo secondo intervento è orientato alla riconciliazione tra noi. In questo “noi” dobbiamo cogliere sia l’aspetto più personale e direi quasi “privato” della riconciliazione, sia l’aspetto comunitario e “pubblico” della riconciliazione. Vorrei esplorare l’orizzonte in tre direzioni: il rapporto tra riconciliazione e perdono con una particolare attenzione verso le vittime; il rapporto tra riconciliazione e penitenza con particolare riferimento all’offensore (non parlo di peccatore ma più genericamente di offensore; perché ricorrano le condizioni dell’offesa è sufficiente che vi sia una vittima trattata ingiustamente, invece per definire una condizione di peccato si devono verificare condizioni diverse che vanno dalla violazione della legge di Dio alle disposizioni soggettive di chi lo commette; insomma, potrebbe esserci la vittima di una persona non perfettamente equilibrata di mente la quale perciò non si può considerare colpevole di peccato, ma si deve ugualmente riconoscere come autrice dell’offesa); le vie della riconciliazione, specialmente rivolto alle comunità.
La ferita trasformata e trasformante. Riconciliazione e perdono
Sulla relazione tra riconciliazione e perdono si sofferma spesso Giovanni Paolo II nell’esortazione citata. Se il termine riconciliazione compare nel testo ben 173 volte e il termine penitenza 111 volte, il termine perdono ritorna 30 volte, segno che si tratta di un tema non proprio secondario. Anzi, esiste un nesso inscindibile tra riconciliazione e perdono, tanto che si potrebbe dire che la riconciliazione è impossibile senza prima essere passati attraverso il perdono. Che è anzitutto perdono dei peccati, cioè del male agito, pensato, detto e del bene non fatto. Parlando della funzione riconciliatrice della Chiesa, Giovanni Paolo II sostiene che deve svolgersi
secondo quell’intimo nesso, che raccorda strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena riconciliazione dell’umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione – divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione. (RP 23)
In psicologia è molto chiaro cosa non è il perdono. Vi invito a spendere qualche minuto per riflettere su questo argomento.
Anzitutto riconciliazione e perdono non coincidono. Entrambi sono frutto di un lungo processo che però percorre sentieri diversi. Si può perdonare, per esempio un marito violento o una moglie infedele, ma si può valutare non opportuno o anche semplicemente non dignitoso riprendere il ménage precedente.
Il perdono non è dimenticare. Di sicuro non esiste un interruttore che stacchi la memoria a piacimento, anzi più si cerca di evitare un certo ricordo maggiori sono le probabilità che resti sempre vivido. Inoltre un ricordo rigettato nell’inconscio o rimosso rischia di produrre danni maggiori di quanti ne causerebbe alla coscienza.
Ovviamente vi sono alcuni atteggiamenti che non sono propriamente perdono, anche se possono somigliargli e spesso vengono scambiati per perdono. Per esempio, chi dice “Io perdono ma non dimentico” in realtà non sta perdonando, sta solo rimandando il momento di presentare il conto; chi dice “Ti perdono per amore di Dio” può essere anche molto sincero, ma esibisce con un pizzico di vanità un senso di superiorità che di fatto rappresenta uno schiaffo per l’altra persona; chi dice “Meglio perdonare che soffrire” non solo pare rinunciare alla lotta per la chiarezza dei rapporti, ma evidenzia uno stato d’animo più preoccupato per il proprio benessere che per la verità.
Infine sembra quasi superfluo rammentare che il perdono non si identifica con comportamenti evitanti e fughe davanti al confronto, segno più di un non risolto groviglio emotivo che di un maturo atteggiamento di assunzione delle contrarietà.
Ad uno sguardo di fede non sfugge la necessità di rendere il perdono una mentalità, uno stile di vita tipico del cristiano. In esso si ritrovano certamente le qualità che le scienze umane indicano e sono valide per tutti:
- abbandono di sentimenti di vendetta e di evitamento della vittima verso l’offensore;
- cambiamento dell’atteggiamento della vittima, passando da una disposizione più negativa ad una disposizione più positiva verso l’offensore;
- assunzione di comportamenti che favoriscono la normalizzazione dei rapporti sociali tra vittima e offensore;
- consapevolezza del dono richiesto alla vittima: perché il perdono prescinde dalle disposizioni dell’offensore, che potrebbe anche non ammettere la propria colpa;
- coltivazione delle virtù da parte della vittima: generosità, compassione, amore, senza meriti da parte dell’offensore.
Davanti ad un quadro simile, che evoca in ciascuno di noi il senso di frustrazione per non essere capaci di abbracciarlo con slancio fino alla perfezione, mi pare giusto esprimere due concetti:
- il perdono non è un fatto puntuale, ma è il frutto di un processo a volte molto lungo; in un certo senso è vero che il tempo è alleato del perdono, ma solo a condizione che la vittima desideri giungervi, perché nessuno mai inciamperà per caso nel perdono dell’offensore;
- non alimentiamo ansie di (falso) perfezionismo; a nessuno è richiesto di immolarsi sull’altare del cristiano perfetto, che non esiste; ciascuno di noi deve aspirare al massimo, senza con ciò perdere di vista le proprie possibilità; quanto dico vale ovviamente sia per la vittima che per l’offensore: meglio accettare passi graduali di perdono e di riconciliazione piuttosto che vagheggiare impossibili ideali di eroismi o illudersi di soddisfazioni che mai arriveranno.
Un punto di partenza per un realistico progetto di riconciliazione – personale e comunitario – che includa un processo di perdono è rappresentato dalla trasformazione delle ferite da parte della vittima. Ve lo propongo a mo’ di esercizio, perché si tratta dello stesso esercizio che i cristiani dei primi tempi dovettero fare. Infatti il pensiero che Dio potesse essere stato ferito dall’uomo fino alla morte infamante della Croce impressionò molto i contemporanei di Gesù.
Così l’evangelista Giovanni osserva che il biglietto da visita del Risorto era mostrare le mani e il costato feriti sia per farsi riconoscere che come segno di pace (cfr Gv 20,20). L’apostolo Tommaso pone come condizione per la sua fede nel Risorto il toccare le ferite dei chiodi e della lancia (cfr Gv 20,24-27). Pietro scrive interpretando il profeta Isaia: “Egli [Gesù] portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pt 2,24-25). Infatti Isaia, parlando di un misterioso servo sofferente dice: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5). Il passaggio dal “noi” del profeta al “voi” dell’apostolo è un delicato incoraggiamento rivolto ai domestici che sperimentavano la durezza del trattamento dei padroni: come Cristo li ha guariti con le sue ferite, le ferite dei domestici maltrattati guariranno i loro padroni.
Vi invito a fare questo esercizio. Anzitutto a prendere coscienza che come vittime siamo stati feriti, e che quelle ferite le abbiamo sempre davanti ai nostri occhi. Quindi iniziamo ad usare le nostre ferite come fossero il nostro biglietto da visita, abituandoci all’idea che saranno proprio esse a portare pace. Chiamatele per nome, come le ferite di Gesù: delle mani, dei piedi, del costato, del capo… Sono ferite dell’orgoglio, sono ferite dell’amore, sono ferite fisiche; sono persone dalle quali non ci aspettavamo un trattamento così misero, sono fatti della vita che ci hanno mortificato, sono sogni infranti. Per iniziare il percorso del perdono fino alla riconciliazione iniziate a guardare le potenzialità di bene che si trovano nelle vostre ferite. Curerete chi vi ha ferito, con le vostre stesse ferite. È il primo passo.
La trasformazione della sofferenza. Riconciliazione e penitenza
Quando il Papa impartisce la benedizione Urbi et Orbi tra le varie cose che dice si trovano queste parole: “tríbuat vobis omnípotens et miséricors Dóminus… cor semper paenitens”, il Signore onnipotente e misericordioso vi conceda un cuore sempre penitente.
Se da parte di una vittima la riconciliazione avviene con la trasformazione della ferita, da parte dell’offensore la riconciliazione è possibile solo trasformando la sofferenza. In questo secondo punto cercheremo di capire in che modo ciascuno di noi, che non è sempre e solo vittima ma in molti casi è anche offensore, può favorire la riconciliazione tramite la penitenza. Disponiamoci a ricevere anche noi la benedizione di un cuore sempre penitente. Ma cos’è la penitenza?
Un passaggio particolarmente illuminante dell’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II ci mette subito sulla direzione giusta.
Il termine e il concetto stesso di penitenza sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metanoia, a cui si riferiscono i sinottici, allora la penitenza significa l’intimo cambiamento del cuore sotto l’influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno. Ma penitenza vuol dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza: è tutta l’esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino verso il meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed efficace soltanto se si traduce in atti e gesti di penitenza. In questo senso, penitenza significa, nel vocabolario cristiano teologico e spirituale, l’ascesi, vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano dell’uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per perdere la propria vita per Cristo, quale unico modo di guadagnarla; per spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo; per superare in se stesso ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale; per innalzarsi continuamente dalle cose di quaggiù a quelle di lassù, dove è Cristo. La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano. (RP 4)
Teniamo fisso lo sguardo su quest’ultima espressione: la penitenza è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano.
Essere offensori è un mestiere tutt’altro che facile e piacevole. Alla base ritroviamo l’atteggiamento tipico delle persone anaffettive. La persona anaffettiva è quella che non riesce a sentire gli effetti che le proprie azioni producono sugli altri. In qualche caso sembra in apparenza che chi offende lo faccia con piena consapevolezza del dolore che arreca alla vittima, e ne possa persino godere. In realtà non è umano infliggere dolore e addirittura godere del dolore inflitto agli altri. C’è qualcosa di patologico nei sentimenti dell’offensore, è come se l’offensore fosse costretto ad anestetizzare una parte della coscienza per non provare il dolore del dolore inflitto alla vittima.
Perciò il primo passo richiesto ad un offensore è la conversione del cuore. In questo caso l’immagine del cuore dice bene la necessità di educare i propri sentimenti ad avvertire con dolore il dolore inflitto agli altri, a non essere impassibili, a non godere della sofferenza altrui, a restare umani.
Posso aggiungere anche che la conversione del cuore si lega a filo doppio con quello che Santa Caterina da Siena chiama il cognoscimento di sé. In varie lettere (pdf) scritte dalla Santa si trova l’esortazione al cognoscimento. Così a Monna Lapa, sua madre: “Carissima madre in Cristo dolce Gesù, io Caterina, serva e schiava dei servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo, con il desiderio di vedervi ricolma della vera conoscenza [cognoscimento] di voi stessa e della bontà di Dio in voi, perché senza questa vera conoscenza non potreste partecipare alla vita della grazia”1.
E al prete Andrea de’ Vitroni scrive che l’amor proprio è la cosa più temibile: “Oh, quanto è pericoloso! Sapete quanto? Che l’amor proprio priva l’uomo della conoscenza [cognoscimento] di sé, dalla quale conoscenza si acquista la virtù dell’umiltà; e nell’umiltà sta piantato l’amore e l’affetto dell’anima, che è ordinata verso la carità. Lo priva anche della conoscenza di Dio, dalla quale l’anima trae il dolce fuoco della divina carità”2.
A frate Raimondo da Capua la santa scrive: “È necessario amare virilmente e schiettamente, distaccandoci dalla nostra sensibilità e dalle creature ragionevoli; per giungere a questo dolce amore bisogna aprire l’occhio dell’intelletto e conoscere e vedere quanto siamo amati da Dio. Ma per arrivare a tale conoscenza si deve entrare, con i piedi dell’affetto, nella cella della vera conoscenza [cognoscimento] di noi stessi, perché nella conoscenza di noi stessi si concepisce l’avversione verso la nostra sensualità e l’amore verso Dio, per la sua inestimabile carità, trovata dentro di noi”3.
Ogni volta che ci troviamo nella condizione dell’offensore dobbiamo domandarci se possediamo una vera conoscenza di noi e di Dio o se invece ci stiamo illudendo. Senza vera conoscenza non si dà umiltà, nella quale stanno piantati amore e carità. Soprattutto perdiamo la possibilità di conoscere e vedere quanto siamo amati da Dio. L’offensore perde il gusto di essere amato. La riconciliazione riporta il gusto di essere amato.
La penitenza è sempre legata alla sofferenza. Talora la sofferenza, non ricercata, non attesa, può essere considerata una penitenza: una malattia, la perdita di una persona cara, una contrarietà della vita. Altre volte la sofferenza è ricercata in vista di un bene superiore: un digiuno, la rinuncia ai beni materiali e al denaro, l’umiliazione, il risarcimento del danno causato. La sofferenza, sia quella non attesa che quella ricercata, sperimentata come penitenza – cor sempre paenitens – risveglia in noi offensori quella parte della nostra coscienza che avevamo anestetizzato e ci trasforma da persone anaffettive e disumanizzate in persone sensibili e piene di umanità.
Vi invito a fare un secondo esercizio, stavolta nei panni dell’offensore. Ricordate un’occasione in cui avete volontariamente offeso qualcuno? Non ha importanza se avevate ragione o meno. Ricordate la reazione dell’altra persona? Come la descrivereste con una parola? Rabbia? Stizza? Umiliazione? Ricordate il vostro stato d’animo? Come lo descrivereste con una parola? Compiacimento? Soddisfazione? Piacere?
Entrate in voi stessi, nella cella del vostro cognoscimento. Era questo che volevate? Provare piacere per l’umiliazione di qualcuno? Avvertire soddisfazione per un senso di giustizia amministrata? E vi riconoscete in questo tipo di persona che ha agito così? Siete a vostro agio nei panni di un offensore? Era quello che volevate essere?
O forse non avete ottenuto nulla di quello che in realtà dentro di voi, a torto o a ragione, pensavate di conseguire?
E se il vostro comportamento vi rivela come offensori, non sentite ora un po’ di dolore non tanto per orgoglio e per amore di voi stessi quanto per il dolore inflitto agli altri e per amore dell’umanità? Provate a immaginare la giusta penitenza che, anche a distanza di tempo, fa passare la conversione dal cuore alle opere.
Riconciliazione come percorso comunitario. Le vie della riconciliazione
Nelle nostre comunità cristiane abbiamo dimenticato un po’ troppo presto, a mio avviso, che il peccato ha certamente un valore personale e individuale, ma nondimeno si caratterizza per il suo coinvolgimento comunitario e sociale. Se recentemente si è potuto osservare che molte comunità cristiane si sono ammalate spiritualmente a causa di divisione e contrapposizioni e tutto ciò richiede un rinnovato sforzo di riconciliazione, allora è giunto il momento di rileggere la pagina che Giovanni Paolo II dedica al tema, fornendoci le tre accezioni di peccato sociale.
Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale.
Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un’aggressione diretta al prossimo e – più esattamente, in base al linguaggio evangelico – al fratello. Essi sono un’offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato contro l’amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo, perché è in gioco il secondo comandamento, che è «simile al primo». E’ egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona. E’ sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l’integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l’onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l’ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s’impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all’intera società.
La terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Così la contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l’altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un male sociale. (RP 16)
Alle parole di Giovanni Paolo II, dopo ormai 20 anni, si potrebbero aggiungere concetti nuovi, derivanti dal peccato sociale in chiave moderna: ricordo qui l’uso di internet con presenze come quelle degli haters, dei propalatori di fake news, di troll ed hackers. Anche comportamenti di rifiuto delle persone diverse da noi o addirittura di violenza contro di esse sono peccati sociali: diversità nel campo del sesso, della religione, della cultura, della provenienza geografica, della ricchezza. Sono da annoverare tra i peccati sociali anche quelli della Chiesa, nella persona dei suoi ministri e dei suoi membri e nella misura in cui i loro comportamenti hanno contraddetto radicalmente la loro missione: la pedofilia, il disinteresse per le vittime, la calunnia, l’amore per il denaro, l’esercizio non fraterno dell’autorità.
La Chiesa in particolare, per timore di perdere prestigio e potere, sembra aver trascurato il suo dovere primario di prestare rispettoso ascolto alle presunte vittime, di prendere sempre la parte delle vittime accertate, di correggere – pur senza asprezza, ma con determinazione – gli offensori, di indicare concreti percorsi di riparazione del danno e di riconciliazione. Inoltre ci sono grandi ritardi nella comprensione che la portata sociale di alcuni peccati implica la portata sociale della loro giusta riparazione.
Temo che le nostre comunità si siano ammalate perché hanno trascurato di emendare il peccato sociale, un po’ troppo concentrate su se stesse e sulle proprie ritualità né si sono opposte al peccato né se ne sono fatte carico con la penitenza. Dalle malattie spirituali delle comunità cristiane non si guarirà se le comunità cristiane non smetteranno di pensare a se stesse e non riprenderanno a vedersi al servizio dell’umanità, segno e strumento dell’intima unione dell’uomo con Dio e degli uomini tra di loro (cfr LG 1).
Trovare vie di riconciliazione soprattutto in situazioni comunitarie conflittuali, incancrenite e ingarbugliate non è facile. Non vi posso chiedere esercizi in questo senso. Ma posso chiedervi di lasciarvi guidare da un sincero desiderio di rispondere al meglio alla nostra vocazione cristiana. Perciò vi propongo di confrontarvi sugli argomenti che vi presento, uno dietro l’altro, non come un’unica via ma come tante vie di riconciliazione.
“Meglio mezzo passo insieme nella stessa direzione che un passo intero uno in una direzione e uno nell’altra”. Infatti se andiamo nella stessa direzione, anche mezzo passo alla volta presto o tardi arriveremo alla meta. Ma se corressimo ciascuno in una direzione diversa, presto o tardi non ci incontreremo più. E la direzione è quella della vita nuova in Cristo: “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4).
“Meglio un onorevole accordo che un disonorevole verdetto”. Ci stiamo rendendo conto che la storia non tarda a giudicare nessuno, nemmeno la Chiesa è immune dal giudizio. Trovare accordi con gli avversari prima di essere ritenuti inutili e anzi pericolosi implica la capacità di andare oltre la lettera della legge: “Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!” (Mt 5,25-26).
“Meglio rinunciare a qualche diritto che perdere credibilità e onorabilità”. Credibilità e onorabilità sono qualità fondamentali della persona umana, e anche delle comunità umane. Perdute credibilità e onorabilità la rivendicazioni dei diritti diventa un puro esercizio giuridico. A volte è meglio rinunciare anche a cose legittime ma secondarie per tenere fede alla propria missione: “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio; né, se non ne mangiamo, veniamo a mancare di qualche cosa, né mangiandone ne abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la scienza, stare a convito in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni immolate agli idoli? Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello” (1Cor 8,8-13).
“Meglio prevenire che curare”. Le nostre comunità cristiane non devono essere solo luoghi dove ci si prende cura gli uni degli altri per guarire dalle malattie spirituali, ma devono diventare anche luoghi dove si fa prevenzione delle malattie spirituali. La prevenzione richiede procedure, persone, creatività, obiettivi condivisi, verifiche, correzioni: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,2-4.22.26-27).
1 “Carissima madre in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi con vero cognoscimento di voi medesima, e della bontà di Dio in voi; perocchè senza questo vero cognoscimento non potreste participare la vita della Grazia” (Caterina da Siena, 1); mia la conversione in italiano corrente.
2 “Oh quanto è pericoloso! sapete quanto? Che egli priva l’uomo del cognoscimento di sè, onde acquisterebbe la virtù dell’umilità; nella quale umiltà sta piantato l’amore e l’affetto dell’anima, che è ordinata in carità. E privalo del cognoscimento di Dio, dal quale cognoscimento trae questo dolce fuoco della divina carità” (Caterina da Siena, 3); mia la conversione in italiano corrente.