La fine dell’Italia e l’avvento di un’Europa guelfa
La fine dell’Italia e l’avvento di un’Europa guelfa
Note sul futuro dello stato nazionale italiano e dell’Unione Europea
Giorgio Benigni
La crisi dell’Europa
Dopo la crisi finanziaria della Grecia e le incertezze nella sua gestione da parte dell’Unione è difficile pensare all’Europa di Maastricht e di Lisbona come un progetto dotato di futuro. L’Europa come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, quella di Delors, Kohl e Mitterrand, proseguita dalla Presidenza Prodi non esiste più. Il disegno d’integrazione europeo, privo di uno sbocco è in pieno stallo. Un’idea che non riesce a rinnovarsi non si conserva, si deteriora. Prodi aveva provato a contrastare il declino dell’idea di Europa dando una prospettiva all’Unione con la politica dell’allargamento a est, quasi una “nuova frontiera” in stile americano. L’allargamento però non è mai riuscito a diventare “epica”, a diventare una “narrazione collettiva”, in grado di suscitare speranze di una vita migliore sia nei cittadini dei paesi già aderenti all’UE sia nei cittadini dei paesi di nuova adesione. L’allargamento ad est per l’Europa non è riuscito a rappresentare il mito della conquista del West per gli Stati Uniti. Anche perché effettivamente di conquista non si poteva parlare. Anzi. Guai a parlarne. Prodi ha sempre pensato all’Europa come a un soggetto in grado di confrontarsi con i grandi giganti del XXI secolo: Usa, India Cina. Ma il suo disegno politico viene minato prestissimo innanzitutto dal pensiero neoconservatore americano che teorizza, all’inizio del secolo, dopo l’11 settembre, le due Europe: la nuova Europa quella uscita dal patto di Varsavia, giovane e filoamericana e la vecchia Europa quella della vecchia Nato, esclusa la Gran Bretanga, ormai stanca e invecchiata, infiacchita e demotivata dal suo comodo welfare state. L’opera di smantellamento dell’idea di Unione da parte del pensiero neocon non ha avuto una coesa opposizione europea, anzi. Le risposte sono state o nazionali o trasversali: l’asse anti Bush tra Schroeder, Chirac, Putin contrapposto all’asse pro Bush di Blair Aznar e una certa distanza Berlusconi. L’Europa di questo primo decennio del XXI secolo sta tutta in due foto: quella dell’incontro di Svertlogorsk nella Russia Europea, che ritrae insieme i capi di Russia Francia e Germania e quella del “vertice delle Azzorre”, con i capi di Spagna Inghilterra e Stati Uniti. Una distanza siderale dall’Europa di Kohl e Mitterrand, da soli, fotografati mano nella mano, davanti al sacrario di Verdun.
Questi ultimi dieci anni sono stati segnati da un processo di progressiva “rinazionalizzazione” della politica europea. È questa la ragione della mostruosa impreparazione politica che ha colto le istituzioni europee di fronte alla crisi finanziaria della Grecia. E’ evidente come tutta questa fibrillazione non sia dovuta a una mancanza di politiche, di policies, ma solo ed esclusivamente a un’assenza di politica, di politics. Il problema non sono mai le soluzioni che alla fine si riescono sempre trovare. Il problema è sempre quali problemi dobbiamo risolvere.
La CEE, la Comunità Economica Europea, ad esempio nasce per dare la soluzione a due problemi: l’integrazione delle diverse economie in un sistema di libero scambio, la risoluzione del secolare problema dell’instabilità europea dovuta all’insoluto conflitto franco-tedesco. In due parole: sviluppo e pace. Il 1989 segna per un verso la data della sua vittoria storica e politica: la scelta del modello di sviluppo occidentale e quindi vincente; per altro verso segna anche l’inizio di un cammino incerto e accidentato. Mentre la costruzione della CEE nella seconda metà del Novecento accompagna le speranze e la concretizzazione di una vita migliore per milioni di europei, dal 1989, e quindi dall’avvio della costruzione dell’Euro le condizioni di benessere e di qualità della vita dei Paesi UE non migliorano, anzi in qualche caso si deteriorano. Fino all’inclusione di Spagna e Portogallo (1986), l’automatismo che fa coincidere nuovi stati con nuovi mercati e quindi con maggiori opportunità per i Paesi fondatori è un meccanismo che funziona. Europa vuol dire crescita, benessere, miglioramento della qualità della vita per tutti. Più siamo più cresciamo.
La caduta del muro di Berlino e la conseguente riunificazione tedesca accelerano il processo di realizzazione della nuova moneta; la speranza è che facendo morire le monete, si possano anche far morire per sempre i nazionalismi. L’Euro diventa il prezzo che Mitterrand chiede a Kohl come concambio della riunificazione tedesca: germanizzare le monete europee per europeizzare la nuova Germania. Questa è la vera ratio politica che sta dietro la moneta unica. Ma per non permettere la fuga dal gruppo dello sprinter tedesco e la sua vittoria in solitaria, tutti gli altri devono cominciare a intraprendere abitudini e costumi fino a prima sconosciuti. Il risultato è un’Europa stressata e frustrata, vissuta più come un vincolo che come un’opportunità, in cui molti sono obbligati a fare cose verso le quali non hanno né la preparazione né il cuore.
L’Euro doveva e poteva essere una grande “riforma intellettuale e morale” ma non è stato così. Parafrasando una nota battuta di D’Alema verrebbe da dire che l’Unione Europea nel 2010 assomiglia ad “un amalgama mal riuscito”, anche se, a ben vedere segni di una fragilità politica dell’amalgama c’erano già stati nei primi anni ’90. Mentre infatti dal punto di vista della geoeconomia si avvia il poderoso processo d’integrazione monetaria, contestualmente, dal punto di vista della geopolitica, si determinava una frattura tra le più importanti nazioni europee: il 1991 non è solo l’anno di Maastricht è anche l’anno della fine della Jugoslavia, le cui divisioni etnico nazionali si proiettano nelle diverse posizioni degli stati dell’Europa occidentale: Germania e Italia da una parte, Francia e Gran Bretagna dall’altra.
C’è un parallelismo sorprendente tra l’Europa di allora e quella di oggi: impreparati, divisi e indecisi allora nel gestire la crisi politica yugoslava, impreparati divisi e indecisi oggi nel gestire la crisi finanziaria greca. Entrambe le volte sollevati dall’intervento risolutore degli Stati Uniti. Clinton per la crisi nei Balcani, Obama per la Grecia.
Tutto questo fino a quando può durare? Il tempo passa ma l’Europa continua a mancare l’appuntamento con la maturità, la responsabilità, l’adultità.
Ecco allora che imprecare contro l’attacco speculativo, come per esempio ha fatto Sarkozy, il leader più imboscato d’Europa durante la crisi, non ha senso e non è maturo; perché è evidente che la speculazione ha maggiore effetto laddove c’è incertezza e confusione nella strategia di risposta. Non si possono accusare gli speculatori di fare il loro mestiere, sporco quanto si vuole, ma prevedibile. Ben più colpevoli sono quei politici che non fanno e che non sanno più fare il loro mestiere. Il fatto è che, ossessionati dalle regole e dalle regolamentazioni gli europei non sanno più che mestiere è la politica. Che è creatività, progettualità e non regolamentazione. Se non si risponde alla domanda: in nome di cosa salvare la Grecia? Qual è il progetto? Tutto il resto, regole, parametri, sanzioni viene giù come un castello di carta.
E’ molto probabile che a questo punto si riaffaccino le suggestioni euroscettiche, dove “euro” sta anche a significare lo scetticismo verso la moneta vera e propria. C’è troppa disomogeneità. Non solo economica. Culturale. Antropologica. L’integrazione è impossibile. Si è tentati di dire: andiamo avanti con i simili, gli omogenei. Che agli omogenei se gli dai una regola la rispettano tutti. Ma l’omogeneità è conservazione. Assenza di progetto. Puro e semplice mantenimento dello status quo.
Tutto questo mentre in tutti i bar d’Europa ci si chiede se la Grecia pagherà o non pagherà; ovvero se stia andando verso un semplice salvataggio, una mezza specie di “bancarotta pilotata” perché, come direbbero gli economisti è “illiquida” oppure se stia andando verso una bancarotta vera e propria, perché come direbbero sempre gli economisti è “insolvente”. Il ché vorrebbe dire che i soldi prestati sono soldi buttati. Non è dato saperlo. Constatiamo però che cominciano ad apparire commenti che parlano non tanto di Europa a due velocità ma di Europa a due monete (1). Questa volta non vecchia e nuova Europa, est contro ovest ma nord contro sud. Una sola zona di libero scambio ma due distinte monete. Una più forte e l’altra più debole. Una prospettiva che potrebbe interessare non solo la Grecia ma tutti gli stati europei piantanti nel Mediterraneo a cominciare dall’Italia o meglio da una parte dell’Italia.
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Luigi Zingales, Il Sole 24 ore, 9 maggio 2010
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