La guerra non è bella e fa male

La canzone diceva che la guerra è bella anche se fa male.

De Gregori – Pino Daniele, Generale (live, 2002)

Ma no, sappiamo tutti che non è così. Parliamo del conflitto che sta insanguinando l’Europa in tempi recenti, la guerra russo-ucraina.

Qualche giorno fa su Twitter @avvbartolozzie1 pubblica un pensiero di cordoglio

al quale rispondo che la guerra addolora, che la morte di chiunque in guerra è un lutto tragico ed insensato. Che resto dell’avviso che il popolo russo, nella misura in cui non vuole o non riesce a liberarsi di un regime oppressivo e tirannico, ne diviene fatalmente sostenitore e vittima. Anche chi muore.

Ho letto diversi interventi che mi hanno spinto a pubblicare questo post per precisare il mio pensiero. Uno in particolare colpisce.

@SandrozBelardoz mette in risalto, non senza un pizzico di sarcasmo, il fatto che molti riservisti e comunque combattenti sul fronte non siano contrari alla guerra.

Invece @Anna26648966 sinteticamente esprime un dispiacere, peraltro condivisibile.

Non esiste una guerra bella o giusta. Lo ripeterò fino alla nausea. Anche quando un soggetto è costretto ad usare la violenza per difendere se stesso, i suoi cari, i suoi interessi legittimi non c’è nulla di appassionante o di esaltante nel vedere esseri umani contrapporsi ad altri esseri umani. Ma come giudicare chi combatte dalla parte che noi riteniamo sbagliata?

Per cercare di spiegare meglio il mio pensiero vi propongo un esperimento mentale.

La guerra di Sasha

Il nostro personaggio si chiama Sasha. Il nome Sasha è il diminutivo di Alessandro, quindi significa “protettore degli uomini“.

Sasha è un giovane laureato moscovita, non ha mai sostenuto il regime instaurato dal Presidente Putin e condanna la nuova guerra da lui voluta. Tuttavia, per non esporre la sua famiglia a ritorsioni e se stesso al rischio di finire in carcere per 15 anni, Sasha non ha mai apertamente espresso le sue convinzioni.

Quando giunge l’ordine di mobilitazione, Sasha viene costretto con la forza ad arruolarsi e viene inviato sul fronte ucraino. Sasha è consapevole che potrebbe arrendersi e probabilmente sta cercando il momento opportuno per farlo, al riparo dal pericolo di essere colpito dai suoi commilitoni. Nel frattempo combatte.

La guerra di Sasha può finire in quatttro modi: (1) Sasha si arrende e viene fatto prigioniero; (2) l’esercito russo vince la guerra; (3) l’esercito russo perde la guerra; (4) Sasha muore in combattimento.

Se ciascuno dei quattro modi influenzerà in maniera sostanziale il futuro di Sasha, quel che non cambia è che Sasha ha contribuito alla guerra russa. Sarà molto difficile per Sasha spiegare alle famiglie dei caduti della parte avversa che lui la guerra non la voleva e che Putin gli stava persino antipatico. Anche qualora Sasha riuscisse ad arrendersi e dichiarasse di non aver mai voluto combattere, nessuno potrà ragionevolmente distinguere nelle sue parole quanto sia verità e quanto opportunismo.

Sasha ha fatto una scelta, che non è stata semplicemente quella di non opporsi al regime per paure più o meno giustificate, ma ha fatto la scelta di contribuire attivamente al processo bellico infliggendo danni alla parte avversa. La guerra di Sasha potrebbe non coincidere nelle intenzioni con la guerra di Putin, ma nei fatti sarà alla base del successo o dell’insuccesso di quest’ultima.

Chi regge il sacco e chi ruba

Sarebbe troppo pensare che le responsabilità di chi ruba e di chi regge il sacco siano le stesse? Solo se uno dei due riuscisse a dimostrare di essere stato costretto dall’altro forse il giudice potrà mostrare maggiore indulgenza. Ma non è certo. Si può e si deve riconoscere in capo a chi detiene responsabilità di governo una colpa maggiore, eppure non si riesce a vedere come siano immuni da colpe coloro che abbiano in qualche misura contribuito alle scelte dei propri governanti.

L’unico modo per potersi dire contrario ad una guerra è non prendervi parte, assumendo tutte le conseguenze che questa scelta comporta. Chi combatte ha già scelto, o per convinzione o per “male minore“, da quale parte stare.

Tra i personaggi che reggono il sacco si possono riconoscere anche coloro che, pur in apparenza animati da lodevole spirito di umanità, confondono quieto vivere con pace. Li ho chiamati esichisti.

L’appello degli esichisti

Sul quotidiano Avvenire è comparso un articolo nel quale un certo numero di intellettuali esichisti propone un appello per la fine della guerra. L’incipit dell’appello è una clamorosa concessione alla logica del terrore stabilita con la politica della deterrenza nucleare. Inaccettabile sul piano politico, inammissibile sul piano cristiano.

Sul piano politico cedere al ricatto del più forte che minaccia il più debole rappresenta il sovvertimento delle acquisizioni filosofiche, morali, ideali della civiltà umana. Una regressione che si spiega solo con l’imbarbarimento elevato a regola di vita, nella speranza di non aver problemi.

Sul piano cristiano – visto che Avvenire è il quotidiano dei Sorveglianti italiani e che ben difficilmente avrebbe pubblicato tale appello se l’Editore/Proprietario non fosse stato consenziente – è appena il caso di ricordare che la dottrina parla esplicitamente di fine del mondo, senza peraltro precisare come avverrà. Che parla di guerre e di rumori di guerre, di nazioni contro nazioni e di preghiere dei santi per abbreviare quei giorni (Mc 13). Sorprende non poco, quindi, che il prestigioso periodico abbia deciso di reggere il sacco a “falsi cristi e falsi profeti che faranno segni e prodigi per ingannare, se possibile, gli eletti” (Mc 13,22).

O forse non sorprende affatto, considerato il momento storico che coglie la Chiesa in una delle sue crisi più profonde tale da renderla debole e quasi incapace di assolvere alla sua funzione. Dunque facilmente ingannabile.

Generale, senza giustizia la guerra non è finita

Inviterei tutti a rileggere il capitolo 5 del documento conciliare Gaudium et Spes, La promozione della pace e la comunità delle nazioni. Non mi rammarico tanto che dopo 60 anni dalla sua pubblicazione il mondo si trovi ancora a dibattersi nelle guerre, quanto che vi siano cattolici che ignorino i fondamenti individuati dai Padri Conciliari.

Uno tra tutti, il primo: “La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita «opera della giustizia» (Is 32,7)” (GS 78).

Nel mio personale percorso di comprensione dei tempi e dei momenti storici non smetterò di leggere tutti, compreso Avvenire coi suoi appelli esichisti, ma mi farò guidare dal Vangelo e dal Concilio, con una pagina luminosa del quale chiudo il mio post.

Sebbene le recenti guerre abbiano portato al nostro mondo gravissimi danni sia materiali che morali, ancora ogni giorno in qualche punto della terra la guerra continua a produrre le sue devastazioni. Anzi dal momento che in essa si fa uso di armi scientifiche di ogni genere, la sua atrocità minaccia di condurre i combattenti ad una barbarie di gran lunga superiore a quella dei tempi passati. La complessità inoltre delle odierne situazioni e la intricata rete delle relazioni internazionali fanno sì che vengano portate in lungo, con nuovi metodi insidiosi e sovversivi, guerre più o meno larvate. In molti casi il ricorso ai sistemi del terrorismo è considerato anch’esso una nuova forma di guerra.

Davanti a questo stato di degradazione dell’umanità, il Concilio intende innanzi tutto richiamare alla mente il valore immutabile del diritto naturale delle genti e dei suoi principi universali. La stessa coscienza del genere umano proclama quei principi con sempre maggiore fermezza e vigore. Le azioni pertanto che deliberatamente si oppongono a quei principi e gli ordini che comandano tali azioni sono crimini, né l’ubbidienza cieca può scusare coloro che li eseguono. Tra queste azioni vanno innanzi tutto annoverati i metodi sistematici di sterminio di un intero popolo, di una nazione o di una minoranza etnica; orrendo delitto che va condannato con estremo rigore. Deve invece essere sostenuto il coraggio di coloro che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali misfatti.

Esistono, in materia di guerra, varie convenzioni internazionali, che un gran numero di nazioni ha sottoscritto per rendere meno inumane le azioni militari e le loro conseguenze. Tali sono le convenzioni relative alla sorte dei militari feriti o prigionieri e molti impegni del genere. Tutte queste convenzioni dovranno essere osservate; anzi le pubbliche autorità e gli esperti in materia dovranno fare ogni sforzo, per quanto è loro possibile, affinché siano perfezionate, in modo da renderle capaci di porre un freno più adatto ed efficace alle atrocità della guerra. Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana.

La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto.

Coloro poi che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli; se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace.

(Gaudium et Spes 79)