La luce della fede
“Come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
(Lc 12,56)
Fede e discernimento
Corso di Esercizi Spirituali
Figlie della Chiesa
Domus Aurea
19-26 Settembre 2013
La luce della fede
Dall’Inno dell’Ora Terza
Venga su noi, Signore,
il dono dello Spirito,
che in quest’ora discese
sulla Chiesa nascente.
Si rinnovi il prodigio
di quella Pentecoste,
che rivelò alle genti
la luce del tuo regno.
Sia lode al Padre e al Figlio
e allo Spirito Santo,
al Dio trino e unico,
nei secoli sia gloria. Amen
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Simbologia pasquale e battesimale
Sappiamo che la liturgia non solo ci fa celebrare il “mistero di Cristo”, cioè il provvidenziale disegno di salvezza compiuto dal Padre, ma possiede un carattere pedagogico, educativo. Insegna. Così si esprime chiaramente la Costituzione Sacrosanctum Concilium:
Benché la sacra liturgia sia principalmente culto della maestà divina, tuttavia presenta anche un grande valore pedagogico per il popolo credente. Nella liturgia, infatti, Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il suo Vangelo; il popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l’assemblea nel ruolo di Cristo, vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti. Infine, i segni visibili di cui la sacra liturgia si serve per significare le realtà invisibili, sono stati scelti da Cristo o dalla Chiesa. Perciò non solo quando si legge «ciò che fu scritto a nostra istruzione» (Rm 15,4) ma anche quando la Chiesa prega o canta o agisce, la fede dei partecipanti è alimentata, le menti sono elevate verso Dio per rendergli un ossequio ragionevole e ricevere con più abbondanza la sua grazia (33).
Per cercare di orientarci nell’argomento della nostra meditazione ci metteremo alla scuola della liturgia che potremmo definire “fontale” per la fede della Chiesa, in particolare della liturgia pasquale e di quella battesimale. Storicamente e anticamente il battesimo veniva celebrato proprio durante la liturgia pasquale della notte santa. Quindi le due liturgie coincidevano. In esse leggiamo una complessa ricchezza di “segni visibili” che significano “realtà invisibili”. E la liturgia non rinuncia ad offrire spiegazioni che li accompagnano.
La liturgia pasquale si apre con la benedizione del fuoco nuovo. Le parole pronunciate dal sacerdote suonano così:
O Padre, che per mezzo del tuo Figlio ci hai comunicato
la fiamma viva della tua gloria,
benedici † questo fuoco nuovo,
fa’ che le feste pasquali accendano in noi il desiderio del cielo,
e ci guidino, rinnovati nello spirito,
alla festa dello splendore eterno.
Il segno del fuoco è eloquente: si parla di “fiamma viva” che rappresenta e significa la gloria di Dio, la presenza di Dio. Ricordiamo tutti l’episodio dell’incontro di Mosè con il Signore nel roveto ardente (Es 3,2). Nella notte pasquale riconosciamo che la presenza viva della gloria di Dio ci è stata comunicata da Cristo e ci auguriamo che questa celebrazione che si rinnova annualmente riaccenda in noi “il desiderio del cielo”, visto come festoso incontro di persone “rinnovate”.
Al fuoco nuovo, fiamma viva, segno della gloria di Dio il sacerdote accende il cero pasquale accompagnando il gesto con le parole “La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito”. È del tutto pacifico che il cero sia interpretato quale simbolo di risurrezione e di gloria, una presenza misteriosa di Cristo-luce, che si pone alla testa di un popolo in cammino (ingresso processionale all’interno della chiesa).
Il simbolismo del cero viene richiamato durante il canto del Preconio. Molteplici sono gli elementi che lo costituiscono:
- lo splendore inonda la terra, che per questo gioisce (“Gioisca la terra inondata da così grande splendore”);
- le tenebre del mondo sono vinte dalla luce del Re eterno;
- la Chiesa splende della gloria del suo Signore e ne gioisce;
- i fedeli sono “radunati nella solare chiarezza di questa nuova luce”;
- al Signore viene chiesto di irradiare “il suo mirabile fulgore”;
- le tenebre del peccato sono vinte “con lo splendore della colonna di fuoco”;
- “ la notte splenderà come il giorno, e sarà fonte di luce per la mia delizia”;
- il cero, “colonna dell’Esodo”, acceso in onore del Padre è un fuoco ardente che diviso in tante fiammelle non perde il suo vigore;
- il cero risplende di una luce che mai si spegne.
La liturgia pasquale è “liturgia di luce”. Nel passato, più che ai nostri giorni nei quali per far luce si usano lampadine a basso consumo “fredde”, si intuiva come la luce fosse emanazione di corpi caldi, anzi fiammeggianti, ed era facile concludere che la luce “spirituale” fosse emanazione della gloria di Dio, alla quale sempre si associava il maestoso propagarsi di un incendio, con il suo calore e la sua forza dirompente. E per quanto l’incendio fosse sempre un temibile evento distruttivo, nondimeno era chiaro agli antichi quale formidabile strumento di purificazione e di rinnovamento esso fosse: un bosco rinasce dalle proprie ceneri più forte di prima.
La liturgia pasquale, in un certo senso, invita a considerare che la “gloria di Dio”, la sua presenza infiammante, non solo non è da temere, ma anzi è da invocare e desiderare. Le nostre preoccupazioni, i nostri peccati, le nostre ansie, ma direi anche i nostri desideri di bene e tutto, tutto quello che costituisce la nostra creaturale presenza nel mondo – tutto gettato nel “fuoco divorante” (Is 33,14) di Dio non viene perduto, ma purificato, esaltato, rinnovato, riscaldato, illuminato. Il timore del profeta (“Chi di noi può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni?“) è superato nella considerazione che chi rifiuta il male e compie il bene non ha nulla da temere, anzi “abiterà in alto” (33,16).
Quanto questo simbolismo sia efficace e in grado di offrire spiegazioni lo dimostra san Bonaventura (Coll. in Hexaëm. IV II 2-3) che adotta l’immagine del sole, dal quale proviene luce, forza, calore, per parlare di Dio e della Trinità:
Il Sole eterno è pieno di vita e di energia, di splendore, di calore. In questo senso possiamo interpretare la Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre è straripante di forza, il Figlio rifulge di splendore, lo Spirito Santo infiamma. Il Padre è luce potente, il Figlio splendore accecante, lo Spirito Santo amore entusiasta. E come nel sole queste tre proprietà sono compenetrate tra di loro – anche il sole infatti possiede una forza che splende e riscalda, uno splendore che dà vita e calore, un calore che è potente e pieno di luce – allo stesso modo le Persone della Trinità sono distinte nell’unità e sono compenetrate senza confusione. |
Est igitur Sol aeternus vigens, fulgens, calens. Per quod intelligitur trinitas Pater, Filius, Spiritus Sanctus. Pater summe vigens, Filius summe fulgens, Spiritus Sanctus summe calens; Pater lux vigentissima, Filius splendor fulgidissimus, Spiritus Sanctus amor ferventissimus. Et sicut in iis tribus proprietatibus solis est circumincessio – est namque solis vigor splendens calens, splendor est vigens calens, calor est vigens splendens – sic in personis est cum unitate discretio, cum discretione circumincessio. |
L’inizio della liturgia pasquale è caratterizzato dall’ingresso processionale in chiesa al seguito del cero pasquale, mentre ciascun fedele regge tra le mani una piccola candela accesa allo stesso cero. Il preconio parla di fiammelle in cui si divide il cero senza che il fuoco perda la sua forza. Un simbolo potente in grado di spiegare senza troppe spiegazioni la qualità della fede come “luce”. Infatti entrando in chiesa si canta per tre volte “Cristo, luce del mondo”, o in un latino più concentrato: “Lumen Christi”.
Non a caso la stessa piccola candela viene tenuta accesa al momento di rinnovare la propria fede durante la veglia pasquale, ma anche durante il rito battesimale. In particolare nel battesimo celebrato al di fuori della veglia pasquale è presente un rito apposito che riporta direttamente a quella notte. Subito dopo il battesimo, l’unzione crismale e l’imposizione della veste bianza, si invitano i genitori del bambino neo-battezzato ad accendere una candela al cero pasquale, accompagnando il gesto con queste parole:
Ricevete la luce di Cristo.
A voi, genitori, e a voi, padrino e madrina,
è affidato questo segno pasquale,
fiamma che sempre dovete alimentare.
Abbiate cura che il vostro bambino, illuminato da Cristo,
viva sempre come figlio della luce;
e perseverando nella fede,
vada incontro al Signore che viene,
con tutti i santi, nel regno dei cieli.
La fiamma viva richiede di essere sempre alimentata perché possa continuare a dare luce. Metafora efficace della necessità che la fede venga educata, curata, alimentata appunto per non diventare “inutilizzabile”, tiepida e smorta. Al tempo stesso il richiamo alla perseveranza (“Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” Lc 21,19) porta in sé il riferimento a tutte le contrarietà che un credente deve affrontare: contrarietà della vita, interiore ed esteriore, ma anche ostacoli nella fede, se non vere e proprie persecuzioni. Come afferma sant’Agostino: “è proprio della virtù cristiana non solo operare il bene, ma anche saper sopportare i mali” (Discorso 46,13).
Quasi dispiace doversi profondere in tante spiegazioni su simboli che da soli per loro natura e funzione rendono perfettamente il significato ricercato. Tuttavia penso sia necessario, nel costante “ritorno alle origini” che caratterizza il tempo di ES, non trascurare alcuni aspetti delle fede come “luce” – immagine tanto antica, tanto immediata – utili alla meditazione e forse piuttosto sottovalutati, soprattutto dalla cultura moderna.
Lumen fidei
Come dono durante questo anno santo della fede, abbiamo ricevuto dalle mani di Benedetto XVI e di papa Francesco l’enciclica Lumen Fidei, la luce della fede. Non intendo farne una presentazione dottrinale, non sarebbe nello spirito degli ES (“non il molto sapere, ma il gustare le cose interiormente”). Così insieme con voi desidero “gustare” cinque piccole riflessioni a partire dalla lettura di questo documento, che sintetizzo in “cinque parole”:
- L’orientamento
- L’idolatria
- La saldezza
- La trasmissione
- La testimonianza
L’orientamento
La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione (n. 4).
Grazie al testo della lettera possiamo cogliere una nuova sfumatura insita nel modello della fede come “luce”. Essa è “orientamento”. Qualifica un cammino perché sa da dove viene e dove va. Con un’espressione sintetica il papa parla della memoria del futuro (n. 9).
In tale prospettiva appare evidente che il “cammino nel tempo” (non nello spazio!, come c’era da attendersi) parte da un amore – quello rivelatosi pienamente affidabile di Gesù – e giunge ad un amore, quello della comunione.
L’idolatria
Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli « hanno bocca e non parlano » (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani. L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. Per questo l’idolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro. L’idolatria non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto. Chi non vuole affidarsi a Dio deve ascoltare le voci dei tanti idoli che gli gridano: “Affidati a me!”. La fede in quanto legata alla conversione, è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia (n. 13).
Al contrario della fede, l’idolatria, il volgersi verso un volto che non è un volto ma è opera delle mani dell’uomo, è dispersiva. Non un cammino, ma una molteplicità di sentieri. Non una potenza unificatrice ma un forza disgregante.
Nella prospettiva della fede come “luce” al credente viene offerta la possibilità di rifiutare la logica seduttiva dell’emancipazione da Dio, la logica del “peccato” e dell’idolatria, la logica del “fai da te”, la logica dell’accusatore incapace di costruire ponti e di assumersi responsabilità.
La saldezza
Se non crederete, non comprenderete (cfr Is 7,9). La versione greca della Bibbia ebraica, la traduzione dei Settanta realizzata in Alessandria d’Egitto, traduceva così le parole del profeta Isaia al re Acaz. In questo modo la questione della conoscenza della verità veniva messa al centro della fede. Nel testo ebraico, tuttavia, leggiamo diversamente. In esso il profeta dice al re: “Se non crederete, non resterete saldi”. C’è qui un gioco di parole con due forme del verbo ’amàn: “crederete” (ta’aminu), e “resterete saldi” (te’amenu). Impaurito dalla potenza dei suoi nemici, il re cerca la sicurezza che gli può dare un’alleanza con il grande impero di Assiria. Il profeta, allora, lo invita ad affidarsi soltanto alla vera roccia che non vacilla, il Dio di Israele. Poiché Dio è affidabile, è ragionevole avere fede in Lui, costruire la propria sicurezza sulla sua Parola. È questo il Dio che Isaia più avanti chiamerà, per due volte, “il Dio-Amen” (cfr Is 65,16), fondamento incrollabile di fedeltà all’alleanza (n. 23).
Difficile trovare un termine in grado di sintetizzare questo quarto pensiero. Nel cogliere certe sfumature linguistiche si può apprezzare tutta l’energia rassicurante insita nell’atto di fede in Dio: egli è affidabile. Si può costruire su di lui come su una roccia (Mt 7,24). Il cammino potrebbe dare l’impressione di qualcosa di incerto, di instabile. Non è raro conoscere persone che non amano viaggiare e preferiscono rimanere nella tranquilla sicurezza della propria città e della propria casa: anche questo è un atteggiamento tipicamente umano, come tale ci dice qualcosa persino su Dio e sulla fede.
Il Dio-Amen dischiude ai nostri occhi la splendida possibilità di ripetere insieme a Pietro: “Sulla tua parola getterò le reti” (Lc 5,5).
La trasmissione
È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’“io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il credere si esprime come risposta a un invito, ad una parola che deve essere ascoltata e non procede da me, e per questo si inserisce all’interno di un dialogo, non può essere una mera confessione che nasce dal singolo. È possibile rispondere in prima persona, “credo”, solo perché si appartiene a una comunione grande, solo perché si dice anche “crediamo”. Questa apertura al “noi” ecclesiale avviene secondo l’apertura propria dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra Padre e Figlio, tra “io” e “tu”, ma nello Spirito è anche un “noi”, una comunione di persone. Ecco perché chi crede non è mai solo, e perché la fede tende a diffondersi, ad invitare altri alla sua gioia (n 39).
Come è possibile evitare che la fede si trasformi in qualcosa di illusorio, come verificare che il credere non sia una banale fantasia? L’atto di fede si forma in modo dialogico, è “risposta ad un invito”, “parola ascoltata”. Si tratta di un dialogo che si svolge all’interno di una comunità e che mentre apre all’amore di Dio non chiude alla comunione con le persone.
Tanto vero questo aspetto che la fede, per sua natura, è diffusiva, non può restare chiusa negli spazi di un cuore pur amante (“Nel mio cuore c’era un fuoco ardente” Ger 20,9). La traditio fidei non si riduce al solo movimento di dare-ricevere, ma è fattore costitutivo dell’atto di fede.
La testimonianza
Assimilata e approfondita in famiglia, la fede diventa luce per illuminare tutti i rapporti sociali. Come esperienza della paternità di Dio e della misericordia di Dio, si dilata poi in cammino fraterno. Nella “modernità” si è cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla loro uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Occorre dunque tornare alla vera radice della fraternità. La storia di fede, fin dal suo inizio, è stata una storia di fraternità, anche se non priva di conflitti. Dio chiama Abramo ad uscire dalla sua terra e gli promette di fare di lui un’unica grande nazione, un grande popolo, sul quale riposa la Benedizione divina (cfr Gen 12,1-3). Nel procedere della storia della salvezza, l’uomo scopre che Dio vuol far partecipare tutti, come fratelli, all’unica benedizione, che trova la sua pienezza in Gesù, affinché tutti diventino uno. L’amore inesauribile del Padre ci viene comunicato, in Gesù, anche attraverso la presenza del fratello. La fede ci insegna a vedere che in ogni uomo c’è una benedizione per me, che la luce del volto di Dio mi illumina attraverso il volto del fratello. Quanti benefici ha portato lo sguardo della fede cristiana alla città degli uomini per la loro vita comune! (n. 54)
L’immagine di Abramo che diventa benedizione per l’intera umanità ci conduce a “contemplare” il valore della testimonianza. Alla quale vogliamo attribuire sì un carattere etico (fedeli e coerenti con il proprio credo) ma anzitutto un carattere spirituale (testimoni del Risorto), nel quale risiede il riconoscimento che il Signore non ha limitato la propria azione a favore di pochi eletti ma ha abbracciato tutti gli uomini nei quali il testimone è in grado di scorgere la sua presenza.
Tale figura di testimone popola la Bibbia, attraversa la storia della salvezza e le folle, con quel loro innato sensus fidei, sono capaci di riconoscerlo (e anche di avversarlo). Con altra parola la scrittura la definisce “profeta” e al profeta rivolgiamo l’attenzione delle prossime meditazioni.