La lumacata di San Giovanni
La leggenda dice che…
… la figlia (Salomè?) di Erodiade e sua madre dessero appuntamento a streghe e demòni sul colle laterano nella notte tra il 23 e il 24 giugno, proprio loro due causa del martirio di San Giovanni il Battista.
Il popolo romano, allora, accorreva da tutti i rioni della città per pregare il santo e chiedere grazie. E anche per fare festa alla faccia di streghe e di demòni. Per l’occasione si allestivano tavolate e si consumava un pasto povero, quello che la natura primaverile aveva offerto, erbe (le famose erbe di San Giovanni, tra cui cipolle e aglio, indicate come efficaci rimedi contro streghe e demòni oltreché potenti vermifughi) e soprattutto lumache.
A piazza San Giovanni per secoli si è consumata la tradizionale lumacata, appuntamento definitivamente tramontato con la seconda guerra mondiale. A seguito degli eventi bellici, l’afflusso di nuovi abitanti della Capitale all’oscuro della tradizione (e privi dello stesso gusto per i molluschi classificati più esattamente come chiocciole) ne ha decretato la fine irrimediabile.
Primi Vespri della Solennità della Natività di San Giovanni il Battista
La lumacata è stata sostituita dalla preghiera dei Primi Vespri in Cattedrale e – come recita la lettera d’invito – in quest’occasione, come negli anni passati, dalla condivisione delle linee del cammino pastorale sulla fase sapienziale del prossimo anno pastorale.
L’invito a partecipare come segno di comunione ecclesiale è stato colto specialmente dai membri dei Consigli e dell’Équipe pastorali. Perché a giudicare dai piani lunghissimi della regia (molto utili in questi casi) non è che vi fosse particolare affollamento di chierici. E nemmeno troppo di laici. Ma in parte questo si spiega perché l’evento era trasmesso in streaming (qui) e pure io così ho potuto seguirlo.
Il Vicario Generale ha tenuto una breve omelia in cui ha ricordato che la natività di Giovanni il Battista si colloca sei mesi prima di quella di Gesù. Ha quindi fatto cenno al solstizio di estate, quando le giornate cominciano ad accorciarsi. Da qui ha ricavato l’invito rivolto a noi, ad accorciarci, a diminuire. Perché Lui – Gesù – è colui che deve crescere. E ha suggerito che Giovanni il Battista fosse il Patrono di chi diminuisce.
Non è stato difficile cogliere nelle parole del Vicario Generale un riferimento autobiografico nemmeno troppo velato. Infatti dal gennaio 2023, con la riforma della Curia della Diocesi, il ruolo del Vicario Generale di Roma è stato svuotato di molte delle prerogative del passato, tanto da renderlo irriconoscibile rispetto al ruolo che poteva avere nel giugno 2017, quando l’attuale Vicario Generale iniziò con grande entusiasmo il suo nuovo incarico. Una diminuzione evangelica che non è passata inosservata.
La fase sapienziale
Dopo i Vespri, con un discorso di quindici fitte pagine e di nessuna slide (scarica pdf) in quasi un’ora il Vicario Generale ha esposto i risultati della lunga fase narrativa del cammino diocesano (4 pagine quattro) iniziata nel 2017 e ha poi illustrato i successivi passaggi della fase sapienziale, un discernimento comunitario scandito dal ritmo di comunione, partecipazione e missione.
Trascuro i dettagli, di per sé nulla di nuovo, il Secondo Sinodo di Roma del 1993 aveva consegnato alla Chiesa e alla Città il medesimo ritmo articolato in un Libro di dettagliate, minuziose fino all’asfissia, indicazioni pastorali. Ma è in fondo il ritmo stesso della vita ecclesiale di sempre. Tra i vari altri elementi della fase sapienziale proposta in comune con l’esperienza sinodale precedente, sono due che meritano menzione. Il primo è il consueto deficit di metodo, ci torneremo; l’altro è la lentezza del passo, praticamente da lumaca, in linea con l’indole generale dei romani i quali, pur avendo abbandonato la tradizione della lumacata di San Giovanni, non hanno però rinunciato ad imitare l’andamento del gasteropode. Cosa che comporta l’invecchiamento precoce di ogni iniziativa.
Nel discorso del Vicario Generale si colgono diversi spunti da sottolineare. Il primo è che il piano proposto è “frutto del lavoro comune compiuto con gli altri Vescovi ausiliari [nel complesso otto, l’ultimo dei quali eletto il 26 maggio sarà ordinato il 2 settembre proveniente dalla Diocesi di Milano, curiosamente il secondo non romano dopo l’ubriacatura degli eletti del clero indigeno negli scorsi anni, NdR], i parroci Prefetti [complessivamente trentasei, NdR] e i direttori degli Uffici Diocesani [una quarantina, NdR] e l’Équipe pastorale Diocesana [una ventina di membri, NdR]”. Circa un centinaio di persone ai più alti livelli diocesani hanno lavorato per stabilire in otto punti alcune attenzioni da avere nella fase sapienziale del discernimento comunitario. Elenco in sintesi gli illuminanti risultati dell’autorevole contributo, che confluiranno in sei schede su altrettante questioni fondamentali della nostra vita pastorale:
- il soggetto che discerne è la comunità
- occorre precisare e circoscrivere in ogni riunione quale sia l’oggetto del discernimento
- fare discernimento significa entrare in un processo di preghiera
- interpretare la situazione presente alla luce della Parola di Dio
- ricercare un tempo lungo e sereno per ascoltare la Parola di Dio e ascoltare tutti
- condividere con gli altri i pensieri e i sentimenti che ciascuno prova
- oltre al proprio mondo interiore è bene raccontare le tradizioni di provenienza
- provare ad individuare tra le cose dette e ascoltate quelle che contengono l’indicazione della volontà di Dio
Degno di nota è anche il fatto che la fase sapienziale decreta la fine dell’esperienza delle équipe pastorali, considerate più carismatiche che istituzionali. Era luglio 2019, arrivò una lettera ai sacerdoti (qui) per disegnare il percorso pastorale dei prossimi tempi. Si chiedeva di scegliere dodici persone “fuori dalle righe” per collaborare stabilmente con i sacerdoti stessi. Dovevano essere gli esploratori coraggiosi fermamente convinti della “brace sotto la cenere“. Si davano consigli e indicazioni per il loro compito. Vabbè, si dimenticava di citare l’ispiratore del pensiero, il compianto cardinal Martini, ma è solo un dettaglio nell’insieme di un processo difficile da definire e da giudicare. A distanza di quattro anni, di cui due e mezzo di pandemia, le équipe pastorali finiscono gloriosamente per confluire negli organismi ordinari, cioè i Consigli Pastorali. Che l’attuale Vescovo di Roma vuole siano costituiti in ogni Parrocchia. Così come stabiliva anche il Secondo Sinodo di Roma 1993. E così come non ovunque è stato realizzato.
Altro spunto interessante è il linguaggio espositivo a cui ci hanno abituati il Vicario Generale e in parte anche i membri dell’attuale Consiglio Episcopale. Nel suo discorso il Vicario Generale ha ripetuto per 14 volte espressioni come “ciò che si è vissuto / i passaggi vissuti / le esperienze vissute / il cammino vissuto / i momenti vissuti / le relazioni vissute“; e per altre 10 volte ha utilizzato il verbo “vivere” in espressioni come “vivere il dialogo e l’ascolto / vivere l’esperienza / vivere incontri comunitari / vivere nella concretezza / vivere un cambiamento d’epoca / vivere un metodo / vivere il discernimento / vivere il traboccamento / vivere un pellegrinaggio / vivere un momento“. Non pare trattarsi di una specie di povertà lessicale. Il lessico dei gerarchi adotta invece sistematicamente una forma riflessiva esperienziale che privilegia il vissuto in polemica col ragionato.
Ne abbiamo una testimonianza ulteriore in un incontro del Vescovo Ambarus, il quale, un paio di giorni prima, introducendo un evento organizzato dalla Caritas romana dal tema ambizioso “Stazione Termini: Giustizia e promozione umana per una città inclusiva” ha dato un suggerimento: riascoltare e rivedere il video dell’incontro da soli perché
l’argomento che stiamo per affrontare non è una questione di testa… la possiamo anche affrontare così… ma basta!, affrontare le questioni solo con la testa. Bisogna scendere nella carne viva!
In definitiva verrebbe da osservare che i gerarchi, insieme alla pletora dei consiglieri, si assumono il compito in un certo senso faticoso di standardizzare indicazioni metodologiche coerenti a beneficio dell’intera Amministrazione per consentirle di sentirsi viva in quello che fa e che sperimenta.
Torniamo al metodo
Torniamo dunque al metodo. Il Vicario Generale propone di continuare a vivere un metodo, quello della “conversazione spirituale” già utilizzato negli scorsi anni e – pare – bello ed efficace per tutte le Chiese d’Italia.
In effetti è stata la CEI, in preparazione del Sinodo, a confermare la validità del metodo (download vademecum):
Il primo anno consegna l’unanime apprezzamento per il metodo della conversazione spirituale a partire da piccoli gruppi disseminati sul territorio e per i frutti che ha consentito di raccogliere. L’ascolto della Parola di Dio e delle esperienze di vita, seguito dalle risonanze interiori dei compagni di viaggio, crea quel clima di discernimento comunitario che evita logiche di contrapposizione o dibattiti superficiali, permettendo la ricerca di una vera sintonia e lasciando risuonare la voce dello Spirito. Il metodo viene dunque confermato e dovrà essere approfondito.
Naturalmente si tratta di un metodo classico e notevolmente diffuso dentro e fuori la Chiesa, che mutatis mutandis trova il suo corrispondente nei gruppi di auto mutuo aiuto di diversa natura (per esempio, alcolisti anonimi, giocatori compulsivi, eccetera); si potrebbe definire il metodo delle reti sociali artificiali. Grazie agli studi di Alfred H. Katz e Eugene I. Bender (Self-Help Groups in Western Society: History and Prospects, 1976) siamo anche in grado di rintracciare gli elementi caratterizzanti di tale metodologia: si tratta di piccoli gruppi
- su base volontaria
- composti da pari o comunque da soggetti che si assicurano reciproca assistenza e soddisfazione di bisogni comuni
- finalizzati al mutuo aiuto e al raggiungimento di fini particolari
- nella convinzione che non sia possibile soddisfare i bisogni seguendo vie istituzionali
- con una speciale enfasi sulle interazioni faccia a faccia
- capaci di assicurare il sostegno emotivo
- proponendo un background ideologico o valoriale che permette la definizione o il potenziamento dell’identità personale dei membri
La scelta metodologica del Vicario Generale e dell’intera Chiesa italiana di costruire reti sociali artificiali mostra una contiguità evidente con esperienze di ambiti completamente diversi. Se si è portati a riconoscere così la comune base socio-antropologica, ciò evidenzia pure i tratti distintivi del percorso sinodale:
- ci si trova in presenza di problematiche ecclesiali e comunitarie diffuse, avvertite con sofferenza, di fronte a mutazioni sociali e religiose di portata epocale non sempre accettate o ritenute accettabili
- si ammette che le istituzioni ecclesiali si sono dimostrate inefficaci nel soddisfacimento dei bisogni personali e comunitari
- si intende realizzare il fine di lenire e di prendersi cura del dolore causato dalle problematiche ecclesiali e comunitarie, da una parte; e di trovare soluzioni condivise e comuni trasferibili in un ambito maggiormente strutturato, dall’altra
- si conferma la necessità di ritrovarsi personalmente e comunitariamente attorno ad una identità religiosa e ispirata
I vantaggi di un simile metodo applicato in ambito ecclesiale sono essenzialmente due. Primo vantaggio: si circoscrive l’attenzione al dolore avvertito in misura maggiore o minore da tutti per uscire da sé ed aiutare altri che hanno il medesimo problema, compiendo un significativo passo in avanti nella direzione di prendere consapevolezza, affrontare e risolvere il proprio problema. Secondo vantaggio: non si incrina la fiducia nell’istituzione che si è rivelata insufficiente nella soluzione dei problemi e nel soddisfacimento dei bisogni, in quanto si viene in qualche modo associati al medesimo destino.
I limiti dell’applicazione di tale metodo in un impegno così vasto come quello della costruzione di un cammino sinodale sono essenzialmente tre.
- Lentezza dei tempi: se il Vicario Generale ha ragione nel preoccuparsi che nessuno venga lasciato indietro per mantenere compatta l’identità dell’Amministrazione, è altrettanto vero che si rischia di perdere il senso della contemporaneità degli eventi; come se la Chiesa restasse un passo indietro alle persone del proprio tempo e finisse per parlare di sé a persone del passato, rosicchiando qualcosa della propria missione; ed è significativo che il Vicario Generale dedichi al tema della comunione (questione ad intra) 668 parole, al tema della partecipazione (questione ad intra) 604 parole e al tema della missione (questione ad extra) 219 parole.
- Rischio del ripiegamento: in riferimento a quest’ultima osservazione si deve sottolineare il rischio insito in una metodologia che ricorra a reti sociali artificiali per la soluzione dei problemi e il soddisfacimento dei bisogni, e cioè che il piccolo gruppo si senta autosufficiente e appagato e quindi rinunci sia a punti di vista differenti sia a lasciare la sicurezza del nuovo nido.
- Mancanza di verifica: se non sono chiari i criteri e i tempi di verifica al fine di determinare il raggiungimento o meno degli obiettivi, tutto quello che successivamente accadrà sarà da considerare sempre un successo (o un fallimento, ma storicamente non è mai accaduto…); è già successo in occasione del Secondo Sinodo di Roma 1993: allora non venne prevista nessuna modalità di verifica per esempio dell’attuazione dell’indicazione pastorale 9.3 “Il Sinodo stabilisce che ogni parrocchia costituisca o rinnovi il consiglio pastorale“, cosicché a distanza di 30 anni il Vescovo ha dovuto stabilire con decreto che ciò venga fatto; nel caso dell’attuale processo sinodale che al momento non prevede nemmeno una vera e propria disciplina canonica la mancanza di verifica porterà inevitabilmente al tutto va bene, Madama Dorè.
In conclusione…
Il Vicario Generale rifiuta l’idea di affidarsi ad una “tecnica pastorale”. Ancor più di affidare il discernimento comunitario ad un gruppo di persone qualificate e ben formate. Però, proprio perché sarebbe poco apprezzabile il caso in cui il discernimento personale fosse affidato all’improvvisazione o a persone senza specifiche competenze, non si vede il motivo per cui il discernimento comunitario debba essere lasciato senza guide capaci.
In realtà né il Vicario Generale né il centinaio di persone ai più alti livelli diocesani che hanno lavorato con lui hanno dato l’impressione di volersi occupare di aspetti antropologici e sociologici. Questo rappresenta senza dubbio un grosso handicap in relazione alla missione della Chiesa, l’unica ragione per cui la Chiesa esiste. E dovrebbe essere motivo di grande riflessione…
Di positivo c’è lo sforzo compiuto per partorire la montagna. Dietro si legge tutto l’annaspare di una Chiesa alla ricerca travagliata della volontà di Dio, e non è un fatto scontato, né da biasimare. Del resto nessuno potrebbe supporre di possedere la soluzione immediata a questioni tanto complesse.
Di positivo c’è il tentativo di tenere insieme una Chiesa che dà la sensazione di essere sfilacciata, tanto da richiedere continue iniezioni di fiducia e di riconoscimento (come lo scritto di un prete del clero romano intitolato “In lode del clero romano“, website • mirror pdf), e di prendersene cura, da pastore, cercando di lenire il dolore più o meno espresso del suo gregge.
Di negativo c’è che il 23 giugno si poteva fare una bella lumacata in piazza San Giovanni, e invece…