S. Maria dell’Orazione e Morte
Excursus storico dal ‘400 ad oggi
Origini della confraternita:
Correva l’anno 1448 quando in Roma, nella zona denominata “regione dei
fiorentini”, operava piamente, e senza destare soverchi scalpori, la
COMPAGNIA DELLA PIETA’ che, presso la chiesetta di S. Pantaleo sul
Tevere (detta San Pantaleo in Chiavica) – concessa per la cura degli
appestati – dal capitolo di S. Celso e poi ampliata e dedicata a
Giovanni S. Giovanni dei Fiorentini, che oggi fa bella mostra di se tra
via degli Acciaioli e l’inizio della nobile Via Giulia. La Compagnia,
formata presumibilmente da una cinquantina di volenterosi, imitando la
Misericordia di Firenze operava, in una specie di nosocomio a cielo
aperto, in condizioni di maggior disagio rispetto alla Misericordia
fiorentina, presa come esempio.
Di certo in quegli anni, dove: coltellate, giustiziati, malattie
endemiche ed esantematiche non facevano mancare il lavoro a cerusici,
guaritori e becchini la Compagnia aveva a josa materiali e opportunità
con cui santificarsi praticando la sua opera di carità.
Le notizie dettagliate in merito a questi anni di attività non sono
molte ma, da quel che si può leggere da alcune cronache del tempo, si
trattava di un gruppo di amici tenaci e soprattutto capaci di correre
tutti i rischi dei contagi, facili da prendere, in quelle zone scarse di
pulizia e maleodoranti. Tutto ciò, al solo fine di portare sollievo ai
sofferenti – nella maggioranza dei casi e come ovvietà presuppone –
anche inabbienti.
Accadde dunque che nel 1448, tale fra Roberto da Lecce
venuto a predicare sul Campidoglio, in occasione della ben nota peste,
il 23 Ottobre, organizza o forse meglio si organizzò in maniera
spontanea, un corteo di fustiganti (gente di certa fede ma di qualche
discutibile atteggiamento). Costoro erano fermamente convinti che, con
il loro dolore e le loro preghiere, potessero portare a commozione
Domine Iddio perché concentrasse la sua santa attenzione in quei siti e
rivolgesse il suo sguardo misericordioso sulla città di Pietro, messa in
ginocchio dal morbo.
Fu così, dicono le cronache, che dall’Ara Coeli il corteo si mosse per
raggiungere S. Maria Maggiore. Lungo la strada il corteo si infoltì,
alcuni chiesero di poter farsi aggregare a quelli che se le davano di
santa ragione con legni e scudisci, ma molti di più, saggiamente,
chiesero di aderire alla Compagnia che meno cruentamente pregava e si
prodigava per gli infermi. E’ al termine della processione che, nella
Basilica Liberiana, che la Compagnia di Pietà si fonda in termini ufficiali.
La storia dell’epoca, poco incline alle leggende popolari, assicura che a dare primo seguito a tale iniziativa sia stato Giovanni Golderer, Penitenziere in S. Pietro, il quale raccolse attorno a se i suoi connazionali sotto il titolo di Compagnia di S. Maria della Pietà, per rinnovare il ricordo delle antiche “scholae” medioevali.
Di seguito, nel 1519 a Roma, un’altra istituzione, anch’essa di ispirazione fiorentina, la Compagnia di Carità,
raccoglieva e seppelliva i morti abbandonati, dando buon esempio ai
qualunquisti che indifferenti continuavano a lasciare i loro e gli
altrui morti insepolti per le strade. Era uso, in quei tempi, quando
capitava di imbattersi in un cadavere, per strada o sul greto del fiume,
scavalcarlo e proseguire, avendo cura di non sporcarsi. Quel cadavere,
come tutto ciò che era in Roma, apparteneva al Papa ed era lui a
doversene fare carico ed a lui spettava di far fare pulizia.
Nel 1538, sotto il pontificato di Paolo III, Alessandro Farnese, nasce
un’aggregazione di romani: la Compagnia della Morte, detta anche della
“Buona Morte” oppure, dei Fratelloni. Ancora una volta si sa poco di
questo nuovo sodalizio che si collegava ai precedenti; e ciò almeno fino
al 1551.
Con ciò si dimostra che le cose che suscitano scalpore o turbano le
coscienze, di solito sono ben descritte e tramandate; invece, a quelle
buone raramente si presta la dovuta attenzione.
Durante l’Avvento del 1538 – all’inizio di Dicembre – un padre
cappuccino, durante la sua predica in S. Lorenzo in Damaso, la chiesa
sita all’interno del Palazzo della Cancelleria riesce a descrivere, in
maniera appassionante la tragedia dei morti abbandonati e la ricchezza
d’animo di coloro che li raccoglievano e li seppellivano tanto che le
sue parole fecero breccia nei cuori dei fedeli che coinvolti decisero di
interessarsi fattivamente alla questione. Deve aver parlato in maniera
così ispirata che molti decisero, su due piedi, di entrare nel sodalizio
e mettere a disposizione della struttura: le proprie virtù, il tempo e
qualche risparmio. I neofiti o Novizi, vollero generosamente consacrarsi
all’associazione dei fedeli defunti al pari del pio Tobia delle Sacre
Scritture. Le coriacee coscienze degli abitanti del Rione Regola erano
state saggiamente “toccate”, tant’è che ancor’oggi la Confraternita è
attiva.
Aumentata così di numero, la venerabile confraternita si accinse, forte
di questa nuova linfa, ad incamminarsi verso quel grande percorso che la
porterà ad essere una delle principali aggregazioni laicali della
chiesa di Roma ed epigone dei primi servizi sociali nella capitale.
Il 25.12.1551, nella Cappella della Concezione di S. Lorenzo in Damaso,
la Compagnia fa l’Esposizione del SS Sacramento, con grande concorso di
popolo. E’ così che nasce una delle più prestigiose, e, care ai Romani
la pia pratica delle QUARANTORE: quarant’ore di veglia e di preghiera
ininterrotta ai piedi del Santissimo sacramento, esposto alla
venerazione dei fedeli. La Compagnia, che gestiva un libro con le ore
dei turni di veglia e di preghiera, appella questi fedeli devoti, con il
nome di “Numero della Notte” e li poneva, al pari dei Compagni o
Confratelli sotto il patrocinio di S. Michele Arcangelo.
Dando fede al Fanucci, però il vero animatore della Compagnia, quello
presente sul pezzo – per dirla in termini militari – fu il sacerdote
senese Crescenzio Selva. Ad avvalorare tale ipotesi può fare riscontro
la presenza di un dipinto su tavola databile 1450/1500, forse regalato
dalla Misericordia di Firenze, opera del pittore senese: Raffaele del
Colle, detto “il Raffaellino” perché il più piccolo della bottega del
grande maestro, portato a Roma in ricordo del dì di fondazione e oggi
posto nella sacrestia dell’Arciconfraternita di S. Maria dell’Orazione e
Morte, continuatrice dell’opera della Compagnia.
Dunque, sotto il pontificato di Paolo III inizia la storia vera e
documentabile della Compagnia della Morte che ha sede e Chiesa alle
spalle del casa avita del pontefice (Palazzo Farnese) e ad essa si
collega con lo splendido ponte che ancor’oggi unisce i due edifici.
Qualce anno dopo, Papa Giulio III, al secolo Giovanni Maria Cicchi dal
Monte approvò questa iniziativa di solidarietà ed esortò (si scrive così
ma si legge ordinò) agli iscritti, in ricordo della sempre più
coinvolgente pratica delle Quarantore, ad aggiungere al titolo della
Morte anche quello dell’Orazione. L’invito fu accettato di buon grado.
Molte confraternite, forse poco inclini all’innovazione o forse per non
perdere il primo motivo della fondazione, decisero di immettere la
parola Orazione dopo quella di Morte; al contrario di Roma (più
papalina) che si definì Orazione e Morte.
In quegli stessi giorni nasceva, poco distante, un’altra Compagnia,
egualmente importante, “La Compagnia di Gesù” ad opera di S. Ignazio di
Loyola.
Pio IV, al secolo Giovanni Angelo Medici, sempre più convinto delle
qualità e dello spirito che animava i confratelli e dall’enorme seguito
di gente che chiedeva di poter essere ammessa al sodalizio, la eleva al
rango di Arciconfraternita e con la Bolla “ Divina disponente clementiae
“ del 17 Novembre 1560 ne ratifica il tutto e le dona la facoltà di
ricevere limosine e legati, di potersi trasferire in qualsiasi chiesa e
di avere libertà di erigere, col proprio, una sua chiesa ed oratorio per
la celebrazione dei divini uffici.
Da quel momento le sorti dell’Arciconfraternita volgono al meglio:
grandi architetti, pittori, scultori, musici, storici, gente di Palazzo,
nobili romani e della provincia vogliono entrare a far parte del
sodalizio. Gli iscritti, ed erano tanti, a testimoniare la buona volontà
e la voglia cristiana di fare i servizi con la massima pietà e
modestia, decidono di indossare, come abito sociale, un sacco nero di
foggia fratesca, un cingolo di corda nera alla vita a cui è agganciata
una catena del Santo Rosario – rigidamente nera – e con un “capoccetta
di morto” a dividere i grani dalla croce. Al collo avrebbero portato un
semplice colletto ad alette o facciola (detta dall’inclito popolo
romano: braciole) che poteva servire alla bisogna, quando i cadaveri da
raccogliere erano già putrefatti o maleodoranti quale mascherina per
naso e bocca. Il distintivo confraternale non sarebbe stato di metallo,
come di prassi confraternale ma di pezza: in testimonianza di povertà e
di distacco dalle cose terrene. In servizio, sia in città che nelle
campagne, era vietata l’ostentazione di anelli, bracciali o oggetti di
valore; anzi, nei momenti culminanti, si sarebbe indossato il cappuccio,
così da rendersi irriconoscibili. “Quando fai il bene, che la tua
destra non sappia cosa fa la sinistra”!
La prima sede confraternale fu in S. Lorenzo in Damaso e non poteva
essere altrimenti. E’ certo che nei primi anni di vita non ci fosse
presenza di donne; queste appaiono nel 700 circa ma con funzioni
prettamente di supporto: ricamo, stiratura, orazione, mantenimento dei
paramenti e pulizie.
Stante la continua richiesta di aderire all’Arciconfraternita si giunse
all’obbligo di avere una propria sede. San Lorenzo in Damaso non era più
idonea alla bisogna, occorreva trovare altri siti più comodi.
Per pochi mesi il sodalizio si trasferì in S. Caterina da Siena, nella
Via Giulia, sede della Confraternita dei Senesi a Roma. Così riferisce
l’Eminente Cardinale Bernardino Maffei in data 8 aprile 1552. Dalle
cronache confraternali, si legge che la convivenza ebbe vita breve. In
effetti, i confratelli Senesi, tutti commercianti, avevano avanzato
richieste di denaro eccessive a fronte dei pochi spazi messi a
disposizione. Ma, ammesso e non concesso, che la richiesta dei Senesi
fosse stata equa, il vero guaio fu che: per le casse della nascente
comunità, qualunque fosse stata la somma richiesta, questa esulava dalle
disponibilità del Camerlengo. Ergo, i confratelli si trovarono senza
tetto, era estate e si poteva anche accettare di adunarsi per strada o
in cortile ma occorreva prendere in seria considerazione l’opportunità
di trovare un luogo in cui radunarsi e pregare.
Nella seconda metà di agosto, i confratelli vengono ospitati nella
chiesa di S. Giovanni in Ayno, nell’odierna Piazza Ricci, poi
ignobilmente trasformata in magazzino di legnami e ferrarecce. Siccome
il numero dei confratelli continuava ad aumentare a dismisura (quando si
dice che il troppo può anche storpiare) l’allora responsabile della
Banca (Consiglio Direttivo) avanzò formale richiesta, per il tramite del
Cardinale Protettore, al Capitolo Vaticano per l’uso della vicina
chiesa di S. Caterina in Catenaria, oggi S. Caterina della Rota e sede
del venerabile arcisodalizio di S. Anna dei Parafrenieri. La
scontentezza per la coabitazione fu grande; e, non potè essere lenita
dalle benemerenze acquisite e dalla stima dei concittadini. Occorreva
trovare una sede propria, ove poter agire in libertà, entrare ed uscire
secondo necessità e conservare gli oggetti dei riti e i materiali utili
alla bisogna (cataletti, coperte, pale, picconi, ecc) in un posto comodo
e ben custodito. Il sottostare alla volubilità di terzi non aiutava ne
lo sviluppo ne la disponibilità dei confratelli. Si decide di mettersi
tutti alla ricerca di una nuova sede.
Preso definitivamente atto che serviva una sede autonoma si diede
incarico al notaro Valeriano Carosio, perché ne stabilìsse vincoli e
tempi per la realizzazione del progetto; era il 27 gennaio 1571. Anche
in quei tempi le finanze rivestivano ruoli primari! Il contratto
stilato, sottoscritto dalle parti è approvato dal pontefice dell’epoca,
poi divenuto santo: Pio V, al secolo Michele Ghislieri, con il motu
proprio “ Cum postquam “ del 13 marzo 1571 attivava il concreto processo
dell’autonomia. Dopo lunga meditazione e l’aver contato i denari a
disposizione, si decise di acquistare un piccolo pezzo di terra con
caseggiato sito tra Palazzo Farnese e il Tevere, sul Vicolo che separa
le foresterie dei Farnese dal palazzo Falconieri.
Intanto SS Papa Pio nella sua infinita bontà concesse, essendo messo a
conoscenza dell’opera sociale svolta dai pii uomini e dall’enorme
credito che già godevano presso la popolazione non solo del Rione Regola
ma sull’intero territorio urbano ed extra urbano, un privilegio
riservato a pochi: quello di liberare un condannato a morte nell’ottava
del Corpus Domini e concesse inoltre il “Diritto di sepoltura, di
bussolaggio nei cimiteri di Roma e dell’agro e nelle chiese “.
Per amore della storia, il primo a godere del beneficio di grazia fu
tale Giuliano Ricci (assassino) il 3 Giugno 1584 e l’ultima delle grazie
elargite è datata 8 Settembre 1867.
Nel 1586 è benedetta la nuova chiesetta sulla Via Giulia di proprietà
esclusiva della Confraternita. Da qui, si fa per dire, è storia più
moderna!
A metà del ‘700, ancora una volta si torna a discutere di capienza della
Chiesa e della casa. Tutto è insufficiente! Si acquistano quindi alcuni
spazi e si ha licenza di chiudere il Vicolo esistente, così da
ristrutturare al meglio tanto la chiesa quanto la casa.
Si affida il lavoro di parziale demolizione e ricostruzione al
confratello Ferdinando Fuga, architetto ben noto a Roma per aver
lavorato per pontefici e nobili famiglie ma soprattutto per aver rifatto
la meravigliosa facciata di Santa Maria Maggiore.
La Chiesa, dopo i lavori di ristrutturazione, è diventata a pianta ovale
e si presenta ai viandanti con una monumentale facciata. Il confratello
Arcivescovo di Pyrgi (S. Marinella) nel 1737 la inaugura, in un
tripudio di folla osannante ai “ fratelloni ”, la più bella chiesa del
Barocco Romano, dall’acustica perfetta e dalle forme aggraziate e mai
pesanti. I lavori ottocenteschi dell’architetto calabresi la modificano
lievemente ma non più di tanto.
La costruzione dei muraglioni del Tevere nel 1900-1910, che tanto bene e
male hanno fatto nel contempo al paesaggio urbano, hanno privato la
casa confraternale dell’oratorio, dei saloni e della quasi totalità
dell’antico cimitero sotterraneo. Delle vecchie sale, ove si svolgevano
le “Sacre Rappresentazioni della Morte” con le “statue di cera” e con la
partecipazione di veri cadaveri, non resta più nulla’. Il piccolo
“Coemiterium”, ancora visitabile, non è altro che una sala con
conservati alcuni teschi di confratelli, morti associati nelle campagne o
presi dal fiume, alcuni candelabri d’ossa umane e alcuni cimeli quali
un cataletto del 6/700. Nella chiesa rimane il ricordo della sepoltura
di alcuni confratelli illustri: Ferdinando Fuga pare sia sepolto nella
fossa comune con i poveri, insieme a Giovanni Ceruso (detto il
letterato), fondatore di ospizi per bambini (detti a loro volta i
letterati) e scuole per i discoli, inoltre hanno un loro sepolcro
Gioacchino Petrucci, Vincenzo Perucci, pedagogista e Paolo Pericoli,
cofondatore dell’Azione Cattolica Italiana.
E’ bene inoltre ricordare che molti sono i personaggi illustri che hanno
rivestito cariche nella Arciconfraternita o che si sono interessati ad
essa. Tanto per citarne alcuni, i pontefici: Paolo III, Pio IV, San Pio
V, Clemente VII, Pio VI e Pio VII, Leone XII, Pio IX, e, Giovanni Ceruso
detto il letterato, Ferdinando Fuga architetto, Camillo Fanucci
letterato, Bevignani archeologo, il cardinale Borromeo, mons. Cristoforo
Almeyda arcivescovo di Pyrgi e tanti altri che è impossibile elencare.
Si sono interessati della confraternita e della vita del sodalizio:
Bartolomeo Pinelli, Cesare Pascarella, G.G. Belli, Antonello Trombadori,
e altri, che volutamente non elenchiamo, per non dispiacere a chi
corriamo il rischio di dimenticare.