L’obbedienza della fede

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Preghiamo

Donaci, Padre misericordioso, di rendere presente in ogni momento della vita la fecondità della Pasqua, che si attua nei tuoi misteri. Tu vivi e regni per sempre. Amen.

La regola d’oro del sapere

Capita spesso di sentir dire che esistono situazioni nelle quali non bisogna capire, bisogna solo aver fede. A volte qualcuno cerca addirittura di avallare tale convinzione citando qualche brano della Scrittura. Non è stato forse l’Apostolo Giacomo a scrivere che “Dio resiste ai superbi, ma dà la grazia agli umili” (Gc 4,6)? E non è stato forse Paolo a dire che “la scienza gonfia” e “se alcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere (1Cor 8,1-2)?

Bernardo di Chiaravalle riflette esattamente su questi brani della Scrittura nei Sermoni sul Cantico dei Cantici. Ma non nel senso di negare validità al desiderio di conoscere, bensì nel rettificare quel desiderio e in una pagina mirabile fornisce una chiave di interpretazione che potremo utilizzare anche nei nostri Esercizi (Sermone XXXVI 3-4).

Qui se, inquit, putat aliquid scire, nondum scit quomodo oporteat eum scire (I Cor. VIII, 2). Vides quoniam non probat multa scientem, si sciendi modum nescierit. Vides, inquam, quomodo fructum et utilitatem scientiae in modo sciendi constituit? Quid ergo dicit modum sciendi? Quid, nisi ut scias quo ordine, quo studio, quo fine quaeque nosse oporteat? Quo ordine, ut id prius, quod maturius ad salutem: quo studio, ut id ardentius, quod vehementius ad amorem: quo fine, ut non ad inanem gloriam, aut curiositatem, aut aliquid simile, sed tantum ad aedificationem tuam vel proximi. Sunt namque qui scire volunt eo fine tantum, ut sciant; et turpis curiositas est. Et sunt qui scire volunt, ut sciantur ipsi; et turpis vanitas est. Qui profecto non evadent subsannantem satyricum, et ei qui ejusmodi est decantantem:Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter. (PERSIUS, satyra 1, vers. 27.)Et sunt item qui scire volunt ut scientiam suam vendant; verbi causa, pro pecunia, pro honoribus: et turpis quaestus est. Sed sunt quoque qui scire volunt, ut aedificent; et charitas est. Et item qui scire volunt, ut aedificenfur: et prudentia est.Horum omnium soli ultimi duo non inveniuntur in abusione scientiae, quippe qui ad hoc volunt intelligere ut bene faciant. Denique: Intellectus bonus omnibus facientibus eum (Psal. CX, 10). Reliqui omnes audiant: Scienti bonum et non facienti, peccatum est ei (Jac. IV, 17)

Se alcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere (1 Cor 8,2). Vedete come non importa sapere tante cose, se non si sa il modo di saperle. Vedete, dico, come l’Apostolo fa dipendere il frutto e l’utilità della scienza dal modo. Che cosa dice dunque circa questo modo di sapere? Egli spiega con quale ordine, con quali sentimenti, per quale fine bisogna imparare. Con quale ordine cioè si studi prima ciò che è più urgente per la salvezza; con quali sentimenti: si cerchi con più ardore ciò che spinge con più forza all’amore; con quale scopo: che non si cerchi la vanagloria o la curiosità, o nulla di simile, ma solo l’edificazione propria e del prossimo.

Vi sono infatti coloro che vogliono sapere soltanto per sapere: ed è una turpe curiosità. E vi sono di quelli che vogliono sapere per esser conosciuti: ed è turpe vanità. Questi tali non eviteranno le beffe del Satirico che canta loro:

Il tuo sapere è nulla, se non che un altro sappia che tu sai (PERSIO, Sat. I,27).

Così vi sono coloro che vogliono sapere per vendere la loro scienza, o per procurarsi denaro od onori: ed è un turpe guadagno. Ma vi sono anche quelli che vogliono sapere per edificare: e questa è carità. E vi sono ancora altri che vogliono sapere per edificarsi: e questa è prudenza.

Di tutti questi, solo gli ultimi due non abusano della scienza, in quanto vogliono sapere per fare del bene. Hanno buon intelletto tutti quelli che fanno il bene (Sal 110,10). Tutti gli altri ascoltino questo: Chi conosce il bene e non lo fa, commette peccato (Gc 4,17)

Nel brano troviamo un paio di intuizioni importanti. La prima riguarda la distinzione tra l’oggetto del sapere e il modo con il quale si consegue la conoscenza che compare nella citazione paolina. Non è fondamentale sapere tante cose, sottolinea Bernardo, focalizzando la sua attenzione sul modo di apprendimento. E qui lui, interpretando l’Apostolo, stabilisce tre piste metodologiche:

  1. l’ordine con il quale si deve imparare: si studi prima ciò che è più urgente per la salvezza;
  2. i sentimenti che bisogna avere: si cerchi con più ardore ciò che spinge con più forza all’amore;
  3. lo scopo che spinge alla conoscenza: non si cerchi la vanagloria o la curiosità, o nulla di simile, ma solo l’edificazione propria e del prossimo.

Degna di nota è la profondità psicologica del santo dottore nell’identificare i cinque generi di persone che approcciano la conoscenza e a definire i relativi vizi o virtù:

  1. vi sono coloro che vogliono sapere soltanto per sapere: ed è una turpe curiosità;

  2. vi sono di quelli che vogliono sapere per esser conosciuti: ed è turpe vanità;

  3. vi sono coloro che vogliono sapere per vendere la loro scienza, o per procurarsi denaro od onori: ed è un turpe guadagno;

  4. vi sono anche quelli che vogliono sapere per edificare: e questa è carità;

  5. vi sono ancora altri che vogliono sapere per edificarsi: e questa è prudenza.

Tuttavia la conclusione offre davvero la regola aurea del sapere: non abusa della conoscenza chi vuole sapere per fare il bene. San Bernardo riesce così a coniugare in modo equilibrato le esigenze di un intelletto che cerca di comprendere quel che crede, di una volontà che si deve animare d’amore e di una finalizzazione al bene che può progredire fino al Bene supremo, a Dio e alla salvezza che lui offre all’uomo.

Un cammino di obbedienza

Con il conforto delle parole di Bernardo riprendiamo il filo del nostro discorso aperto dalla citazione del Motu Proprio Porta Fidei, nel quale Papa Benedetto XVI ricordando l’omelia di inizio pontificato accenna al cammino che anche Gesù avrebbe fatto, invitando la Chiesa nel suo insieme ad imitare il Signore. Cercheremo quindi di vedere-capire-contemplare nel cammino di Gesù quel passaggio che porterà gli uomini a riconoscerlo come Giusto, Figlio dell’Uomo, Signore.

Quando il Papa pronunciò quelle parole il 24 aprile 2005 esse appartenevano al contesto della missione del pastore, che prende spunto dall’imposizione del pallio e dalla parabola del Buon Pastore. Benedetto XVI drammatizza la missione di Cristo e la spiega con queste parole:

L’umanità – noi tutti – è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore… La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto.

Il Papa continua pensando ai molteplici deserti nei quali l’umanità può disperdersi o si è persa. Ed è per questa ragione che la Chiesa nel suo insieme deve mettersi in cammino, esattamente come ha fatto Gesù Pastore alla ricerca della pecora perduta, per trarre l’umanità dal deserto. Ma il metodo non è quello della violenza o dell’impazienza davanti al peccato, non quello del trionfo della forza o dell’ideologia. La mansuetudine di Gesù ha salvato il mondo. Continua con toccante e profonda semplicità il Papa:

Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini.

La drammatizzazione che Benedetto XVI fa della missione di Cristo racchiude un nucleo profondo di verità gravitante attorno ad una parola non espressa ma pulsante al centro stesso di quella missione: obbedienza. È esattamente l’omelia agli Ebrei che mette in risalto questo aspetto della missione di Cristo: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Non è difficile riconoscere in questa semplice espressione il segno di un percorso già in qualche modo delineato da Benedetto XVI nella citata omelia. Gesù apprende qualcosa che prima non conosceva, non perché non fosse obbediente al Padre, ma perché quell’obbedienza deriva da realtà non ancora sofferte, da condizioni non ancora provate e da una umanità amata ma non ancora redenta. Quella fu un’obbedienza salvifica per l’uomo. Come ricorda san Paolo, “Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2, 8) e “per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5, 19).

La Scrittura sta a dire che Gesù non ha percorso distrattamente la sua vicenda umana. Non ci sono stati momenti o situazioni che non siano entrate a far parte di una coscienza consapevole e che non abbiano in qualche modo contribuito a determinare Gesù nella sua missione. Potrebbe questo da solo costituire un monito e un esempio a livello personale e a livello ecclesiale affinché nessuno trascuri di rendere denso di significato ogni momento della propria esistenza, dagli eventi più piccoli a quelli più esaltanti.

Ma non bisogna dimenticare che per Gesù tale cammino di obbedienza è stato determinato dall’urgenza della salvezza dell’uomo, dalla forza dell’amore verso il Padre e verso ogni creatura, dalla ricerca dell’edificazione e non della distruzione, del perdono del peccato e non della dannazione eterna. Potremmo ritrovare in queste tre azioni le ragioni che hanno portato Stefano a riconoscere in lui, in Gesù, i tre “titoli” che egli pronuncia.

Gesù è Giusto in quanto rende giustizia all’uomo, andando a ricercarlo nei suoi deserti e sottraendolo alle forze oscure del male.
Gesù è Figlio dell’uomo in quanto abbraccia appieno con amore la condizione creaturale e la riscatta della sua decadenza.
Infine Gesù è Signore in quanto compie l’opera divina del perdono aprendo all’umanità le porte del Paradiso.

L’obbedienza della fede

Può apparire fuori del nostro tempo parlare di obbedienza come di una virtù salvifica. Alcuni tra noi appartengono a qualche ordine religioso e hanno fatto voto di obbedienza, sperimentando quotidianamente sia la difficoltà a rimanervi fedele senza mormorazioni e critiche, sia quel senso di abbandono e di spoliazione della propria volontà a volte frustrante e amaro.

Vorrei ricordare che nessuna di queste sensazioni è stata distante dall’esperienza di Gesù, che imparò l’obbedienza proprio da quello che patì, trasformato grazie a quella esperienza in un agnello mansueto condotto al macello. Vorrei ricordare con voi che mentre il mondo potrà inorridire per la terribile ingiustizia perpetrata nei confronti di un innocente e anche dichiarare incomprensibili i motivi che abbiano portato l’innocente a lasciarsi martirizzare, i credenti sono invece consapevoli di trovarsi di fronte alla commovente icona della loro salvezza e si possono soffermare a contemplarla non con senso di colpa ma con cuore gonfio di gratitudine.

La difficoltà ricordata in una precedente meditazione circa il passaggio che porta l’uomo a professare la fede in Gesù si colloca in un punto molto vicino a quello a cui siamo giunti. Perché in effetti è stata da una parte la “disobbedienza del peccato” ad allontanare l’uomo dalla Fonte della vita, e dall’altra l’ignoranza o la non ammissione della propria necessità di salvezza a mantenerlo distante anche emotivamente dal Redentore. Laddove mancano obbedienza al bene e attesa della salvezza difficilmente può farsi strada il riconoscimento di Gesù come Giusto, Figlio dell’uomo e Signore.

Al contrario, prosegue l’omelia agli Ebrei: Gesù che ha imparato l’obbedienza, “reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (5,9). L’obbedienza di Gesù si trasferisce ai credenti in forma asimmetrica. Gesù obbedisce al Padre e impara umanamente l’obbedienza attraverso ciò che ha subito divenendo con ciò stesso “perfetto” (“Tutto è compiuto” Gv 19,30). I credenti, invece, obbediscono a lui e in tal modo sono certi che la loro obbedienza è al Padre: “chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9).

Nelle parole del Concilio Vaticano II troviamo espresso in modo autorevole questo concetto:

A Dio che si rivela è dovuta « l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli « il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà » (4) e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia « a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità » (5). Affinché poi l’ intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni (DV 5).

Come è possibile notare, la famosa citazione della Costituzione Dei Verbum da una parte rinnova la convinzione della Chiesa che non sia possibile esprimere un atto di fede senza la grazia di Dio e l’aiuto dello Spirito Santo (che però è bene notare non vengono negati a nessuna persona), ma allo stesso tempo si preoccupa di aggiungere che la fede deve essere perfezionata per approfondire la conoscenza della Rivelazione.

L’obbedienza è davvero un dono fatto da Dio all’uomo, un dono che lo perfeziona e lo avvicina maggiormente a Gesù. A volte si banalizza l’obbedienza degradandola a mera esecuzione di ordini nel rapporto tra un superiore e un suddito. Purtroppo anche nella comunità cristiana si ritrova una mentalità molto prossima a questa. Non passa inosservata la difficoltà di gettare uno sguardo umano sull’umanità che riesca a penetrare le nubi e a vedere l’invisibile. L’obbedienza della quale noi parliamo e che siamo chiamati a rendere è l’obbedienza della fede al Signore Gesù, ancora oggi vivo e presente in mezzo a noi.

Obbedienza all’umanità (quale antropologia?)

Per evitare di correre il rischio che le espressioni appena lette appaiano roboanti e vuote è il momento di chiederci dove sia possibile riconoscere la presenza in mezzo a noi del Signore Gesù al quale obbedire. Sgombriamo subito il campo da un pregiudizio, e cioè che se fossimo vissuti al suo tempo saremmo stati avvantaggiati.

In realtà se fosse stato tanto facile per i contemporanei di Gesù riconoscere in lui il Giusto, Figlio dell’uomo e Signore molto probabilmente non l’avrebbero ucciso perché l’umanità si sarebbe trovata in un tale grado di avanzamento nella fede che non sarebbe stata necessaria nemmeno la redenzione.

La presenza di Cristo tra i suoi trovava giustificazione in quella ricerca dell’umanità vagante nel deserto, ricerca alla quale faceva riferimento Benedetto XVI il giorno dell’inizio solenne del pontificato. Senza essere una precisa formulazione di scienze antropologiche questa visione dell’uomo e dell’azione di Gesù stabilisce di per sé un’antropologia di riferimento che per noi diventa imprescindibile: Gesù, caricatosi dell’umanità, cioè assumendola completamente nella sua carne, si è identificato e reso presente in coloro che l’umanità stessa respinge e rifiuta. Quella che potremmo chiamare antropologia divina getta sul mondo una luce nuova, per certi aspetti sconvolgente, perché inaccettabile l’idea che alla destra del Padre possa essere seduto uno condannato a morte per bestemmia e soppresso come malfattore.

Eppure l’identificazione di Gesù con la periferia dell’umanità è esplicita, ricercata, e oltre ad essere da lui praticata e anche da lui predicata e insegnata. La memorabile parabola del giudizio universale ce la propone in modo incontestabile (Mt 25,31-46). Le categorie di persone elencate sono diverse: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. Non è facilmente accettabile che Gesù preferisca identificarsi con un povero piuttosto che con un professore universitario, con uno straniero piuttosto che con un familiare, con un carcerato piuttosto che con un vescovo. Perciò quasi istintivamente dentro di noi si stabilisce, senza che ce ne accorgiamo, un invisibile confine per reinterpretare le parole del Signore. Probabilmente egli voleva dire che dobbiamo fare del bene ai poveri che sono bisognosi, e provvedere anche ai carcerati che soffrono.

Ma di lì a dire che uno che commette una rapina o un extracomunitario che toglie possibilità di lavoro agli autoctoni o uno in carcere per omicidio siano coloro nei quali oggi è possibile incontrare il Signore Gesù ce ne passa!

L’obbedienza più difficile è quella di chi resta fedele all’umanità anche quando l’umanità appare degradata al punto da apparire irriconoscibile. Amare l’inamabile, è stato il punto di conversione di molti santi. San Francesco ricorda che la sua conversione fu segnata dall’abbraccio con un lebbroso. L’abbraccio di Cristo con l’umanità sotterrata sotto il peso del peccato (e peccato vuol dire qualcosa di ributtante, come un aborto o una violenza) ha causato la salvezza dell’umanità, ma ha lasciato contemporaneamente nelle mani del credente una grande responsabilità.

Chi oggi volesse abbracciare Cristo e obbedire a Gesù non può fare a meno di “obbedire all’umanità”, di entrare con pazienza e mansuetudine dentro le miserie dell’uomo, senza rifiutare il disonore che ne deriverà. In questo modo la Chiesa e ciascun credente non farebbe altro che ripetere lo stesso cammino compiuto da Gesù, ora finalmente seduto alla destra di Dio.