Loquerisne latinam linguam?

Fortasse olim nihil opus fuisset tibi quaestionem quaerere illam, id est si loqueris latinam linguam. Quod omnes gentes locutae. Cives enim inter se romani cum alienis quoque etiam latine conloquebantur.

Traduco.

Parli latino?

Forse un tempo non sarebbe stato necessario farti la domanda, se cioè parli latino. Perché tutti lo parlavano. Infatti i romani conversavano in latino tra di loro e anche con gli stranieri.

Sollevare una questione come quella della lingua ufficiale della chiesa, il latino appunto, potrebbe apparire di marginale importanza, in considerazione di questioni e problemi ben più gravi e urgenti dentro e fuori la chiesa. Spero di riuscire a dimostrare nella necessaria brevità di questo post che invece la questione della lingua investe la visione stessa di chiesa e del suo futuro.

Ricordo che già vangeli e scritti del nuovo testamento ci riportano ad una essenziale verità: il sistema di comunicazione del tempo prevedeva che accanto alla lingua di ciascuna popolazione venisse utilizzata quella dei conquistatori e insieme una lingua più conosciuta adatta allo scambio interculturale, l’inglese dell’epoca, insomma.

Perciò l’iscrizione sulla croce di Gesù (il titulus crucis) riportava il motivo della condanna (Gesù Nazareno, il Re dei Giudei) in tre lingue: ebraico, latino, greco. Lo riferisce specificamente il vangelo di Giovanni 19,19-20.

Paolo di Tarso era ebreo, della tribù di Beniamino (Rm 11,1; Fl 3,5), quindi conosceva ebraico (lingua dotta) e aramaico (dialetto comune); era, per nascita, cittadino romano (At 16,37-38; 22,25-29; 25,7-12) e parlava latino; conosceva e parlava il greco, cosa che fa incuriosire il tribuno di Gerusalemme (At 21,37) e gli consente di girare senza interprete il mondo allora conosciuto.

Dovendo scegliere una lingua nella quale celebrare la liturgia (etimologicamente: azione del popolo) e la preghiera ufficiale e comunitaria, la chiesa dei primi secoli adottò il greco. Non l’ebraico, lingua etnica destinata a pochi, del quale però salvò alcune parole (amen, alleluia, osanna…); non il latino, lingua del conquistatore pagano; ma il greco, lingua parlata sì dai filosofi, ma usata pure negli scambi commerciali e come lingua franca dell’Impero. Potrebbe sorprendere, ma ad Ostia, porto di Roma, mercanti e marinai parlavano greco tra loro… Del resto il sud Italia fu colonizzato dai greci e nella Magna Grecia si parlavano vari dialetti ellenici. Ancora oggi il grecanico (Reggio Calabria) e il griko (Salento), lingue discendenti dal greco, sono parlati da minoranze riconosciute dallo Stato.

Insomma, fino al IV secolo tutto bene. Ma l’Impero si andava dissolvendo ed era sottoposto a pesanti trasformazioni. La germanizzazione dell’esercito e delle cariche pubbliche, effetto della dilatazione a nord dei confini e della contestuale pressione di nuove popolazioni estranee al contesto orientale, aveva comportato l’esigenza di trovare una lingua comune. Ed essa fu il latino, lingua ormai a quel tempo diffusa ovunque fosse necessario entrare in contatto con ciò che restava dell’Impero d’occidente.

Fu Papa Damaso I a rendersi conto che, mentre si rafforzavano la figura religiosa e il ruolo politico del Vescovo di Roma, l’asse missionario della chiesa si era spostato da oriente a settentrione. A partire dal 382 incoraggia il suo focoso (ex) segretario Girolamo a rivedere la traduzione della Bibbia in latino. L’opera di traduzione sui testi ebraici e greci fu condotta a Betlemme dallo stesso Girolamo (che così si mise al riparo dalle tensioni col clero romano), finanziato nella sua opera da una matrona romana rimasta vedova, Paola. Il risultato è passato alla storia come Volgata di San Girolamo (per inciso: anche Paola Romana insieme a sua figlia Eustochio e – ça va sans dire – Damaso sono venerati come santi).

Volgata appunto, quasi a ribadire l’uso di una lingua comprensibile a tutti, in particolare al volgo, il popolo meno dotto. Tutto il contrario di una lingua misterica ed iniziatica, dotata di un arcano potere soprannaturale. Quasi magica. Gradualmente nella chiesa dipendente dal papato il latino prende il posto del greco nella lettura delle Sacre Scritture come nella preghiera liturgica. E rimane per secoli la lingua franca della chiesa.

Tra i primi a rendersi conto che non era più possibile far leggere la Bibbia e far pregare il popolo di Dio in una lingua sconosciuta ai più fu un monaco – per uno scherzo del destino – di origine tedesca, Martin Lutero. Nel 1522, nascosto nel castello di Wartburg, traduce in tedesco il nuovo testamento e lo pubblica anonimamente al costo di un fiorino e mezzo, pari al salario di un anno di una domestica. In dodici mesi se ne stamparono 6.000 copie in due edizioni e almeno altre 69 edizioni seguirono nei successivi 12 anni (fonte). La strada è aperta e nel 1534 pubblica l’intera Bibbia.

La chiesa cattolica resiste. Si crea perciò un cristianesimo a due velocità: studiosi e clero, che hanno accesso al sapere, leggono e pregano in una lingua aulica; il popolino la usa, comprendendola poco e niente, e finisce per alimentarsi con le devozioni. Non sono pochi a rendersi conto della gravità della situazione.

Giovanni XXIII, a dispetto del suo fervore innovativo, resta un fautore del latino. Solennemente pubblicata il 22 febbraio 1962, la Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, inneggia alla lingua latina, la chiama “lingua viva della Chiesa“, impone che il latino sia studiato nei luoghi di formazione al sacerdozio, che le lezioni più importanti siano svolte in latino, che i docenti parlino e scrivano correttamente in latino e che gli ordinamenti accademici prevedano programmi precisi di apprendimento della lingua, dai quali i Vescovi non possono derogare con facilità. E per concludere, nel caso vi fossero state perplessità sull’attuazione della Costituzione: “In virtù della Nostra Apostolica Autorità vogliamo ed ordiniamo che quanto abbiamo stabilito, decretato, ordinato ed ingiunto con questa Nostra Costituzione resti definitivamente fermo e sancito non ostante qualsiasi prescrizione in contrario“.

Occorre perciò attendere il Concilio Ecumenico Vaticano II per consentire l’atto coraggioso di abbandonare – almeno nella prassi liturgica – il latino.

Il 7 marzo 1965 è la prima domenica di quaresima. A Roma è una domemica luminosa, fanno circa 10 gradi. Papa Paolo VI si reca in una parrocchia di periferia, Ognissanti sull’Appia nuova, per dire messa. È una messa come tutte le altre, ma straordinariamente diversa dalle altre. È la prima volta nella storia che un Papa celebra la messa in italiano. Tornato in Vaticano per l’Angelus così dirà il santo Papa:

Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina.

La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento – il Concilio lo ha suggerito e deliberato – e questo per rendere intelligibile e far capire la sua preghiera. Il bene del popolo esige questa premura, sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa. È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante. Ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l’unità di linguaggio nei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti.

E questo per voi, fedeli, perché sappiate meglio unirvi alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti ed attivi e se saprete davvero corrispondere a questa premura della Chiesa, avrete la grande gioia, il merito e la fortuna di un vero rinnovamento spirituale.

E noi pregheremo ancora la Madonna, la pregheremo ancora in latino per ora, perché ci dia questo desiderio della vita spirituale attiva e autentica e ci dia questo risvegliato senso della comunità, della fraternità, della collettività che prega insieme, del popolo di Dio, perché allora avremo certamente assicurati a noi i vantaggi di questa grande riforma liturgica.

(fonte)

Apparentemente il grande passo è fatto. Paolo VI lo chiama addirittura “sacrificio“, ma è per un bene superiore, la partecipazione attiva e fruttuosa del popolo alla vita della chiesa. Da allora lungo 50 anni la chiesa ha continuato l’opera di traduzione e di “volgarizzazione” di Scrittura e Liturgia. Pur graduale, ha però fatto gridare allo scandalo (“Ci cambiano la religione!“) nel XX secolo i cultori delle tradizioni secolari esattamente come nel IV i cristiani più rigidi gridarono allo scandalo per il passaggio dal greco al latino. Ma le parole di Paolo VI rendono ragione di un irrinunciabile valore del messaggio evangelico che il Concilio ha voluto ribadire: la principale preoccupazione della chiesa non è la sacralità di una “lingua sacra” (di cui peraltro è difficile dimostrare l’esistenza), ma la sacralità di un “popolo santo“, radunato da Dio su tutta la terra. Non nell’Impero Romano né nella filologica classica, ma nella vivente tradizione della chiesa.

È questo il punto, dove si intreccia una visione di chiesa (popolare e di popolo)  con una prospettiva del futuro (inculturazione e missione). Lo scontro, prima ancora che essere controversia sul modo di leggere le Scritture e di celebrare la liturgia, è tra ecclesiologie diverse e per certi aspetti inconciliabili tra loro. La riforma liturgica, che ha visto l’introduzione della lingua volgare (del popolo) nella lettura della Scrittura e nella celebrazione della liturgia, ha risposto non solo ad una esigenza di tipo antropologico (la necessaria comprensione del fenomeno comunicativo) ma soprattutto ha ristabilito la dimensione di “unità e universalità” della chiesa, per conseguire il “vero rinnovamento spirituale” dei fedeli attraverso la loro “attiva partecipazione al culto pubblico della Chiesa“.

Tuttavia il latino resta ancora la lingua ufficiale della chiesa. Io non avrei remore a chiedere a ciascun vescovo della chiesa: nella tua Diocesi, in quante Parrocchie si celebra la messa in latino e quante persone vi partecipano? Quante letture bibliche e catechesi vengono svolte in latino? Quando vi sono incontri tra preti, quale lingua si parla? Se si svolgono incontri internazionali, i relatori si esprimono in latino?

E chiederei ad ogni rettore di università pontificia: quante lezioni si svolgono in latino nel tuo ateneo? Quanti esami sono sostenuti in latino? In quale lingua si esprimono i relatori negli incontri internazionali?

Posso anticipare in larga misura le risposte: rare sono le messe in latino e vi partecipano pochi nostalgici, praticamente nulle sono le letture e le catechesi in latino, lezioni ed esami in latino sono un lontano ricordo, i preti tra loro parlano la lingua materna e se partecipano ad incontri internazionali si parla italiano o inglese o spagnolo.

In che senso si può ancora sostenere che il latino sia la lingua ufficiale della chiesa? Il latino, non più usato nella liturgia, nella lettura dei testi sacri, nella catechesi, nelle università pontificie, nella comunicazione del clero, negli incontri ufficiali e internazionali, resta ufficiale solo come lingua dei documenti, che però devono essere tradotti per ottenere adeguata diffusione. Anzi, a voler essere precisi i documenti ufficiali compiono un percorso tortuoso e perverso: il testo dei documenti viene redatto in lingua volgare, la versione definitiva è tradotta in latino e a partire dalla versione latina, considerata tipica, si eseguono le traduzioni nelle lingue volgari. Nei fatti la lingua (ufficiosa) della chiesa è l’italiano, imparato da preti e suore nella formazione ricevuta a Roma e in Italia. Più in generale l’inglese, che facilita la comunicazione anche con soggetti non ecclesiali, mentre la maggioranza dei cattolici parla spagnolo. In che senso dunque si può ancora sostenere che il latino sia la lingua ufficiale della chiesa?

Nella chiesa del terzo millennio l’asse missionario non occupa più una posizione geografica, come ai tempi di Papa Damaso, ma si è spostato da dentro a fuori la compagine ecclesiale, che il Concilio Vaticano II ha pensato meno ripiegata su gerarchie, riti e canoni e più proiettata verso l’incontro delle persone, l’umanizzazione dei rapporti, la trasformazione del presente, la testimonianza e la realizzazione della salvezza di Cristo, in poche parole l’instaurazione del Regno di Dio. Concetto complesso, quello di Regno di Dio, che il Concilio ha variamente inteso ma che in definitiva ci riporta alle immagini bibliche del regno di giustizia, di pace e di amore. All’interno di questo “regno” nel quale la chiesa occupa un ruolo di unità e universalità la lingua ufficiale non ha più nulla a che vedere con linguaggi più o meno scomparsi, ma richiede un rinnovamento di mentalità (conversione) che porti ad assumere come linguaggio universale la lingua della giustizia, della pace e dell’amore. E a superare definitivamente ogni tentazione etnocentrica e ogni rigurgito paleocristiano dal tenore vagamente archeologico.