Missionari per ricominciare. Sempre.
Articolo apparso su Vivere in Sintonia, Luglio-Agosto-Settembre 1995, Anno IX – n. 3
La fine dell’estate segna il momento dei bilanci. Consuntivi, per il tempo trascorso; preventivi per quanto ci attende nel nuovo anno pastorale. Il mio bilancio personale lo traccio pubblicamente cominciando da una confessione: nonostante per ministero mi sia spesso occupato di missioni parlandone (e scrivendone), nei fatti non ho mai avuto modo di espormi in prima persona. Sì, d’accordo, ogni bravo cristiano sa che tutta l’attività pastorale è in qualche modo missionaria, perché rientra nella missione stessa della chiesa, di annunciare, testimoniare, celebrare il Figlio di Dio, Cristo Salvatore. Nemmeno si può dire che esistano criteri precisi per determinare con esattezza se la missione ad gentes differisca dalla missione di un viceparroco cittadino. Anche se dobbiamo ammettere una certa diversità nell’espressione del ministero di un prete che vive nella foresta amazzonica e di uno che vive nella civilizzata giungla del cemento.
Come fisioterapia: la missione
Sta di fatto che da un certo periodo mi sembrava veramente insufficiente quanto stavo facendo (meglio, dicendo) sulla missione. Desideravo prendere contatto con una realtà missionaria, desideravo uscir fuori da certi schemi che negli anni finiscono per immobilizzare le persone. Già nell’affiorare di questo desiderio ho compreso una verità sulla missione: la missione è per la chiesa e per le persone una grande terapia riabilitativa. Accade come per una persona che, essendosi fratturata un arto, dopo l’ingessatura deve reimparare gradualmente a muoversi. La fisioterapia ecclesiale, la fisioterapia del credente è la missione. Con la missione tu sei costretto a ripetere passetto per passetto quel che già conoscevi e che con il tempo si è intorpidito, diventando inutilizzabile e infruttuoso.
L’occasione di soddisfare, almeno parzialmente, tale desiderio mi è venuta grazie agli scout della mia parrocchia. L’AGESCI infatti segue in Albania da circa quattro anni un progetto che potremmo chiamare missionario sotto molti aspetti: è il progetto Volo d’aquila. Durante l’estate vengono organizzati alcuni campi di servizio in collaborazione con le parrocchie e i missionari cattolici di alcuni centri di quella bella e sfortunata terra. Così quest’anno con il mio Clan sono andato anch’io, più che per fare il missionario per conoscere una missione. In questo modo sono stato folgorato da un’altra verità sulla missione: ciascuno dà quel che può dare, l’importante è camminare la stessa strada. Ho visto ragazze e ragazzi a fianco di adulti e coppie di sposi “regalare” una settimana delle loro vacanze (pagandosi tra l’altro tutto di tasca propria) con il preciso intento di testimoniare l’esistenza di valori superiori, superiori persino alle tanto idolatrate ferie estive. E nel loro entusiasmo giovanile ridonare il sorriso a bambini non importa di quale religione e faticare fisicamente per la realizzazione dell’asilo della città in collaborazione con la parrocchia cattolica.
Missionari per ricominciare. Sempre.
Al quarto giorno di permanenza sono entrato in crisi profonda. Siamo andati, attraverso strade impossibili, a trovare a Gijnar, un paesino sperso sulle montagne, due suore immacolatine, suor Leonarda e suor Amabile, che hanno stabilito una comunità non vi sto a dire comecosaperché. Subito m’impressionano volti e sorrisi: senza età, turbini di gioia, sguardi dolcissimi. Scopro, con mille domande di una puerile curiosità, che entrambe sono state per alcuni anni nell’istituto delle immacolatine presente nella mia parrocchia e, stupore!, che suor Leonarda lo ha addirittura iniziato quarant’anni fa. Un rapido conto: ma quanti anni deve avere questa donna che nella povertà più totale ha aperto l’istituto della mia parrocchia e ora apre una fondazione in Albania? Provo un’invidia, ma non glielo dico, per lei che tra i suoi 250 allievi di catechismo non ha un solo cattolico, mentre io tra i miei 850 giovani cattolici non riesco ad avere altrettanti allievi. Provo invidia per lei, ma non glielo dico, perché i suoi giovani fanno tre ore di strada a piedi (a piedi significa spesso a piedi nudi: non hanno le scarpe) tra le montagne per ascoltare le sue parole, mentre a Roma i miei non si sognano nemmeno di perdere un minuto di tempo in più di quello previsto dalla tabella di marcia delle nostre incredibili frenesie. L’invidia più grossa però è proprio per loro, per quelle due donne senza età perse sulle montagne albanesi, e mi sono guardato bene dal dirlo loro, perché mi hanno dato una terza grande lezione sulla missione: la missione è ricominciare, ricominciare, ricominciare sempre. Ricominciare anche se sei stanco e ti sembra che sia ora di andare in pensione; ricominciare anche se non hai un solo cattolico, o forse proprio perché non hai un solo cattolico o non hai abbastanza cattolici degni di questo nome – ricominciare semplicemente perché hai qualcuno con cui e per cui ricominciare; ricominciare nel nome del Signore, anche lui senza età, una nuova entusiasmante avventura senza fine.
Sono tornato a Roma. Un po’ frustrato, un po’ troppo invidioso. Con la voglia di ricominciare anch’io. Non so bene da dove, il mio bilancio preventivo potrebbe rivelarsi troppo ambizioso, ma davvero sento il bisogno che nelle nostre atrofizzate comunità cristiane qualcosa si risvegli di quel fervore e di quell’entusiasmo che si può avvertire solo se sai di essere portatore della novità del vangelo. Non sono un missionario, inutile nasconderselo, mi sembra di non avere nemmeno un briciolo delle capacità che ho trovato in quelle persone. Ma qualcosa è cambiato in me e nei giovani con i quali ho condiviso questa esperienza, abbiamo tutti una grande voglia di nuovo, abbiamo tutti la voglia di scuotere e risvegliare le nostre chiese intorpidite, e forse anche questo è segno che per essere missionari la cosa più importante è saper ricominciare. Sempre.