Modelli di chiesa: la presenza nel mondo come dialogo per la soluzione dei problemi
Il mondo contemporaneo si caratterizza per la sua complessità crescente.
Si sono coniati termini come “globalizzazione” per tentare di descrivere un processo, apparentemente ineluttabile, di interazione economica, sociale, politica tra popoli distanti geograficamente e culturalmente.
Contemporaneamente alcuni fenomeni hanno generato questioni nuove e sconosciute: la proliferazione di “diritti” veri o presunti (umani, animali, ambientali, eccetera), l’uso generalizzato di sostanze stupefacenti, le migrazioni di massa verso le nazioni considerate più ricche, l’affermazione economica di nazioni un tempo considerate “in via di sviluppo”, e tanti altri ancora.
Questa complessità, confrontabile solo all’incremento della popolazione umana, con la conseguente colonizzazione del pianeta a scapito di altre specie viventi e la questione del reperimento delle risorse vitali, ha dato origine a problemi la cui soluzione non può attingere proficuamente alla parcellizzazione delle discipline (e dei metodi) storicamente provate. Antropologia, economia, politica, filosofia, storia, sociologia, psicologia e quant’altro sono scienze assolutamente indispensabili ma per nulla efficaci, considerate nella loro singolarità.
Il ruolo della Chiesa (e delle religioni in generale) deve confrontarsi con tali novità e non può non adattarsi con un modello rinnovato ad una complessità che nemmeno lei, da sola, riesce ad affrontare per dare una risposta efficace.
Il modello di Chiesa “convegnista” nella complessità di un mondo globalizzato è definitivamente tramontato. La Chiesa non può però abbracciare tout court un modello “pragmatista“, che non le appartiene e non la soddisfa nella sua missione. Nemmeno può rifugiarsi in modello “intimista“, quasi abdicando al suo ruolo di testimonianza. E dovrà ritenere del tutto inadeguato un modello “dottrinalista“, quasi che l’ammaestramento delle genti comandato dal Signore sia rappresentabile dal mettersi in cattedra, bacchettando qua e là e strepitando per ottenere l’attenzione dei distratti.
Ritengo invece che il modello di Chiesa che rispetto alla sua missione nel mondo contemporaneo risulta vicente è quello di una presenza empatica e simpatica nella società, in ascolto delle e in dialogo con le esigenze dell’uomo, per trovare insieme la soluzione che più rispetta la creatura di Dio: l’uomo è e resta la prima e fondamentale via della Chiesa (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis 14)
L’uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale – nell’àmbito della propria famiglia, nell’àmbito di società e di contesti tanto diversi, nell’àmbito della propria nazione, o popolo (e, forse, ancora solo del clan, o tribù), nell’àmbito di tutta l’umanità – quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione.
Aver trascurato la felice intuizione di questo Papa santo rischia di relegare la Chiesa ad un ruolo marginale e fondamentalmente inutilizzabile e quindi inutile. La Chiesa che non si china sull’uomo reale per condividerne i problemi e ricercare una soluzione in un modello “umanista” (incarnazionista, redentorista) si chiude in un labirinto senza prospettive di fedeltà alla sua missione, diventando quel sale evangelico che – perso il sapore – a null’altro serve se non ad essere gettato via (Mt 5,13).